In una notte così penso spesso a
Sherazade e mi chiedo cosa ne sia stato di lei. (cit. T. S. Eliot – racc. “Eeldrop
e Applepex”)
Le sarà
stata sufficiente la fantasia per porre freno alle smanie del Sultano o magari
il Gran Visir avrà interceduto per lei? Quella voglia inappagata di ogni sera,
la bramosia di ascoltare le favole di Sherazade e l’insoddisfazione per non
esserne mai sazio; il Califfo non ne aveva mai abbastanza. Le aveva consentito
di narrarne una sola per notte, ma la fine arrivava sempre troppo presto. Col
calar delle tenebre chiamava l’odalisca nei suoi appartamenti e la faceva
sedere accanto al sofà. La fanciulla era bella, nel fiore dei suoi anni, anche
se molte delle baiadere nell’harem lo erano più di lei, ma non era al suo corpo
che il Pascià anelava. Lei, e solamente lei, sapeva prenderlo per mano per
condurlo in luoghi dove mai prima era stato. L’ebbrezza di tante avventure
vissute nel regno della fantasia era per l’uomo più avvincente di qualsiasi
droga. Sherazade si accucciava ai piedi del Sultano e, con movimenti lenti
simili ad una danza, scostava il piccolo velo che le copriva la bocca. Poi, da
sotto in su, volgeva lo sguardo verso il signore chiedendo il permesso di parlare.
Al cenno con la mano che l’esortava: “avanti, avanti!” dapprima s’inumidiva le
turgide labbra con un sorso di acqua e miele, quindi cominciava a raccontare. Ogni
notte, notte dopo notte, succedeva una piccola magia in quella stanza in cima
alla torre del Palazzo. Al Sultano sembrava che il suo corpo si librasse al di
là dai tendaggi di una bifora affacciata sul Corno d’Oro, spaziando libero nei
territori dell’immaginario. L’aveva minacciata per sottometterla, ma in quei
momenti era lei a comandare. Dopo il tramonto si rappresentava la sfida tra chi
deteneva il potere di dare la morte e colei che faceva nascere tante vite soltanto
al suono della sua voce. A Sherazade il compito quotidiano, seppur imposto, non
pesava affatto. Attingeva alle memorie dell’infanzia o pescava nei sogni
riuscendo sempre, da un piccolo seme, a trarre un grande albero al riparo del
quale dare ristoro al suo padrone. Il Califfo le aveva promesso che alla fine
dei racconti l’avrebbe consegnata al boia o forse, compassionevole e
munificente come lo descrivevano, affidata all’Eunuco di Corte. Ma guidato
dalle parole di lei, ogni volta si lasciava trasportare in Paesi remoti dove il
mare era sempre calmo e la luna piena, oppure tra le genti di interminabili
carovane perpetuamente erranti tra le sabbie del Gobi. Maghi, animali parlanti
e vecchi saggi gli spiegavano i misteri del mondo conosciuto e dell’ignoto
universo. Alla sua corte il Califfo ospitava gli astronomi più sapienti, i
matematici più esperti, i filosofi più profondi, ma soltanto con le storie
della bella odalisca riusciva a volare tra le stelle, ad intuire il fascino del
creato ed a penetrare i meandri del pensiero. A volte, nel bel mezzo di qualche
narrazione di perduti amori, lo sterminatore dei suoi nemici si era addirittura
sentito toccare nei recessi dell’anima. Non era dignitoso per il Sultano
piangere, e lui non l’aveva mai fatto, ma improvvisamente grandi fazzoletti di
seta candida apparivano e sparivano tra le pieghe del talamo. Il Califfo aspettava
sempre il momento in cui Sherazade, rivolgendosi languidamente all’astro
d’argento, avrebbe improvvisato canzoni romantiche accompagnandosi al suono di una
mandola in “bois de rose” intarsiata con i fiori dell’oblio. Allora la sua voce
si levava argentina come il trillo di un usignolo rinchiuso in una gabbia
dorata, fino a che, forse per stanchezza, non accostava le labbra continuando
la melodia con un muto lamento. Cullato da quella nenia, il Sultano, senza
farsene accorgere, chiudeva gli occhi immaginando le frasi che avrebbe voluto
sentire sussurrate soltanto per lui.
Dopo tre anni dalle mille notti, le promesse e
le minacce non ebbero più senso.
Chissà che ne sarà stato di Sherazade.