lunedì 7 gennaio 2019

Sherazade



In una notte così penso spesso a Sherazade e mi chiedo cosa ne sia stato di lei. (cit. T. S. Eliot – racc. “Eeldrop e Applepex”)

Le sarà stata sufficiente la fantasia per porre freno alle smanie del Sultano o magari il Gran Visir avrà interceduto per lei? Quella voglia inappagata di ogni sera, la bramosia di ascoltare le favole di Sherazade e l’insoddisfazione per non esserne mai sazio; il Califfo non ne aveva mai abbastanza. Le aveva consentito di narrarne una sola per notte, ma la fine arrivava sempre troppo presto. Col calar delle tenebre chiamava l’odalisca nei suoi appartamenti e la faceva sedere accanto al sofà. La fanciulla era bella, nel fiore dei suoi anni, anche se molte delle baiadere nell’harem lo erano più di lei, ma non era al suo corpo che il Pascià anelava. Lei, e solamente lei, sapeva prenderlo per mano per condurlo in luoghi dove mai prima era stato. L’ebbrezza di tante avventure vissute nel regno della fantasia era per l’uomo più avvincente di qualsiasi droga. Sherazade si accucciava ai piedi del Sultano e, con movimenti lenti simili ad una danza, scostava il piccolo velo che le copriva la bocca. Poi, da sotto in su, volgeva lo sguardo verso il signore chiedendo il permesso di parlare. Al cenno con la mano che l’esortava: “avanti, avanti!” dapprima s’inumidiva le turgide labbra con un sorso di acqua e miele, quindi cominciava a raccontare. Ogni notte, notte dopo notte, succedeva una piccola magia in quella stanza in cima alla torre del Palazzo. Al Sultano sembrava che il suo corpo si librasse al di là dai tendaggi di una bifora affacciata sul Corno d’Oro, spaziando libero nei territori dell’immaginario. L’aveva minacciata per sottometterla, ma in quei momenti era lei a comandare. Dopo il tramonto si rappresentava la sfida tra chi deteneva il potere di dare la morte e colei che faceva nascere tante vite soltanto al suono della sua voce. A Sherazade il compito quotidiano, seppur imposto, non pesava affatto. Attingeva alle memorie dell’infanzia o pescava nei sogni riuscendo sempre, da un piccolo seme, a trarre un grande albero al riparo del quale dare ristoro al suo padrone. Il Califfo le aveva promesso che alla fine dei racconti l’avrebbe consegnata al boia o forse, compassionevole e munificente come lo descrivevano, affidata all’Eunuco di Corte. Ma guidato dalle parole di lei, ogni volta si lasciava trasportare in Paesi remoti dove il mare era sempre calmo e la luna piena, oppure tra le genti di interminabili carovane perpetuamente erranti tra le sabbie del Gobi. Maghi, animali parlanti e vecchi saggi gli spiegavano i misteri del mondo conosciuto e dell’ignoto universo. Alla sua corte il Califfo ospitava gli astronomi più sapienti, i matematici più esperti, i filosofi più profondi, ma soltanto con le storie della bella odalisca riusciva a volare tra le stelle, ad intuire il fascino del creato ed a penetrare i meandri del pensiero. A volte, nel bel mezzo di qualche narrazione di perduti amori, lo sterminatore dei suoi nemici si era addirittura sentito toccare nei recessi dell’anima. Non era dignitoso per il Sultano piangere, e lui non l’aveva mai fatto, ma improvvisamente grandi fazzoletti di seta candida apparivano e sparivano tra le pieghe del talamo. Il Califfo aspettava sempre il momento in cui Sherazade, rivolgendosi languidamente all’astro d’argento, avrebbe improvvisato canzoni romantiche accompagnandosi al suono di una mandola in “bois de rose” intarsiata con i fiori dell’oblio. Allora la sua voce si levava argentina come il trillo di un usignolo rinchiuso in una gabbia dorata, fino a che, forse per stanchezza, non accostava le labbra continuando la melodia con un muto lamento. Cullato da quella nenia, il Sultano, senza farsene accorgere, chiudeva gli occhi immaginando le frasi che avrebbe voluto sentire sussurrate soltanto per lui.
 Dopo tre anni dalle mille notti, le promesse e le minacce non ebbero più senso.

 Chissà che ne sarà stato di Sherazade.