In un
piccolo autogrill di un’autostrada secondaria, aspettavo seduto al bar che noia
e stanchezza scivolassero via dalle mie spalle come le goccioline di condensa
dal vetro del bicchiere di una birra gelata. Non mi dispiace viaggiare da solo perché
considero quelle lunghe ore sull’autostrada una specie di porto franco tra gli
impegni quotidiani. Sono momenti in cui la vita è sospesa, si lasciano un po’
di problemi nel posto dal quale si è partiti in attesa di raggiungerne degli
altri all’arrivo, ma c’è un tempo di mezzo dove si possono dimenticare. Confusi
nella mandria in movimento, bisogna solo proseguire da casello a casello,
seguendo una mappa già tracciata che sicuramente condurrà a destinazione. Stolidi
e ignari. Non si deve prendere alcuna decisione, delegando ogni responsabilità
alla voce saccente e impersonale di un navigatore che, come un oracolo nascosto
nel cruscotto, indicherà la giusta strada. Si va’, in una navicella circondata
dalle illustrazioni sempre diverse di un prodigioso atlante geografico variegato
dai capricci del meteo e dalle ore del giorno. Regolo l’aria condizionata su un
fresco costante e il caldo all’esterno non mi riguarda più, mentre gli scrosci
di qualche temporale sul parabrezza scivolano via schiaffeggiati dal
tergicristallo. La radio in sottofondo mi accompagna in un trip onirico che
soltanto la musica può evocare, e canto come se potessi farmi lo sconto di alcuni
decenni della mia età. Qualche nascosta e sopita endorfina si risveglia
improvvisamente, sorrido e mi godo l’illusoria parvenza di una felicità drogata.
Ma ogni tanto è necessario fermarsi un po’: la benzina, un panino e due passi
per sgranchirsi le gambe.
La ragazza
dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up. Sembrava molto giovane, con
il capo chino ed i lunghi capelli biondi che le nascondevano il viso. Un gesto
veloce della mano scostò quel sipario dorato svelando un sorriso di fossette e
piccole perle, come in uno di quei poster della pubblicità. Bella di una
bellezza acerba ed inconsapevole, con l’aria triste dei fiori che crescono
sulle scarpate ferroviarie. Non c’era nessun’altro in quel bar di frontiera e il
rumore prevalente era il rombo di qualche TIR di passaggio che trascinava via i
miei sogni segreti. Mi sarebbe piaciuto parlarle e vergognandomi, ma solo un
poco, mi avvicinai ad un juke-box dove scintillavano cd con copertine che non
mi dicevano niente per mettere un brano che non conoscevo. La colonna sonora mi
sembrava indispensabile per una sceneggiatura da telefilm. Picchiettando sulla
corazza del mostro sputa note, aspettavo di decidermi. Nel gioco avrei voluto
dirle:
-Non so come
cominciare: non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia? Non lasciamo che
trabocchi, vieni andiamo, andiamo via. – Di colpo il disco finì e nell’aria
rimase solo il rumore dell’acciottolio delle tazzine e dell’acqua nel lavello.
La porta dell’autogrill si aprì e entrarono due turisti tedeschi: sandali Birkenstock
e gote rubizze. In un attimo, come accade spesso, cambiò ogni cosa. Mi accorsi
delle tendine di nylon rosa e delle sue unghie con lo smalto sbeccato.
-Quant’è? –
chiesi. Pagai, lasciai la mancia, presi il resto e me ne andai.