venerdì 19 ottobre 2018

In un piccolo autogrill


In un piccolo autogrill di un’autostrada secondaria, aspettavo seduto al bar che noia e stanchezza scivolassero via dalle mie spalle come le goccioline di condensa dal vetro del bicchiere di una birra gelata. Non mi dispiace viaggiare da solo perché considero quelle lunghe ore sull’autostrada una specie di porto franco tra gli impegni quotidiani. Sono momenti in cui la vita è sospesa, si lasciano un po’ di problemi nel posto dal quale si è partiti in attesa di raggiungerne degli altri all’arrivo, ma c’è un tempo di mezzo dove si possono dimenticare. Confusi nella mandria in movimento, bisogna solo proseguire da casello a casello, seguendo una mappa già tracciata che sicuramente condurrà a destinazione. Stolidi e ignari. Non si deve prendere alcuna decisione, delegando ogni responsabilità alla voce saccente e impersonale di un navigatore che, come un oracolo nascosto nel cruscotto, indicherà la giusta strada. Si va’, in una navicella circondata dalle illustrazioni sempre diverse di un prodigioso atlante geografico variegato dai capricci del meteo e dalle ore del giorno. Regolo l’aria condizionata su un fresco costante e il caldo all’esterno non mi riguarda più, mentre gli scrosci di qualche temporale sul parabrezza scivolano via schiaffeggiati dal tergicristallo. La radio in sottofondo mi accompagna in un trip onirico che soltanto la musica può evocare, e canto come se potessi farmi lo sconto di alcuni decenni della mia età. Qualche nascosta e sopita endorfina si risveglia improvvisamente, sorrido e mi godo l’illusoria parvenza di una felicità drogata. Ma ogni tanto è necessario fermarsi un po’: la benzina, un panino e due passi per sgranchirsi le gambe.
La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up. Sembrava molto giovane, con il capo chino ed i lunghi capelli biondi che le nascondevano il viso. Un gesto veloce della mano scostò quel sipario dorato svelando un sorriso di fossette e piccole perle, come in uno di quei poster della pubblicità. Bella di una bellezza acerba ed inconsapevole, con l’aria triste dei fiori che crescono sulle scarpate ferroviarie. Non c’era nessun’altro in quel bar di frontiera e il rumore prevalente era il rombo di qualche TIR di passaggio che trascinava via i miei sogni segreti. Mi sarebbe piaciuto parlarle e vergognandomi, ma solo un poco, mi avvicinai ad un juke-box dove scintillavano cd con copertine che non mi dicevano niente per mettere un brano che non conoscevo. La colonna sonora mi sembrava indispensabile per una sceneggiatura da telefilm. Picchiettando sulla corazza del mostro sputa note, aspettavo di decidermi. Nel gioco avrei voluto dirle:
-Non so come cominciare: non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia? Non lasciamo che trabocchi, vieni andiamo, andiamo via. – Di colpo il disco finì e nell’aria rimase solo il rumore dell’acciottolio delle tazzine e dell’acqua nel lavello. La porta dell’autogrill si aprì e entrarono due turisti tedeschi: sandali Birkenstock e gote rubizze. In un attimo, come accade spesso, cambiò ogni cosa. Mi accorsi delle tendine di nylon rosa e delle sue unghie con lo smalto sbeccato.
-Quant’è? – chiesi. Pagai, lasciai la mancia, presi il resto e me ne andai.  

venerdì 12 ottobre 2018

Tornanti


Sarà stata la centesima sigaretta che si accendeva per poi spengerla dopo poche boccate. Non gli andava di fumare, ma tantomeno voleva pensare, e quel gesto ripetitivo ed inutile contribuiva a distrarlo dalla sua ossessione. La macchina correva lungo i tornanti sconosciuti per non perdere l’appuntamento che avrebbe potuto cambiare il suo destino. Quel viaggio nella notte rappresentava bene la sua vita: sempre avanti senza sapere cosa ci fosse dopo una svolta, nel buio, accompagnato dalla solitudine e col cuore in gola. Ma forse tutto questo stava per finire.  Aveva fretta, nei brevi tratti di rettilineo spingeva sull’acceleratore e poi frenava bruscamente quando si presentava la curva successiva. Sapeva di rischiare, ma in qualche modo doveva dare sfogo all’adrenalina che aveva in corpo. Sulla provinciale non c’era illuminazione pubblica ed il fascio dei fari nell’oscurità bucava con violenza il nero compatto che sembrava volesse inghiottirlo. Teneva gli abbaglianti sempre accesi e il motore a pieni giri, con lo sguardo fisso e quasi febbrile oltre il parabrezza, per poi rallentare di colpo con la mano sulla levetta delle luci quando gli capitava di incrociare qualche rara autovettura che sopraggiungeva in senso inverso.
Da Zà Mariuccia, si erano detti per telefono, e improvvisamente gli erano esplose nella mente mille immagini di un tempo passato, in un caleidoscopio fatto di una felicità piena di dolore. La gioia era nel passato e la pena la stava vivendo da allora, ma quell’incontro poteva ridargli quello che non osava neanche sperare. Sapeva cosa avrebbe dovuto dirle e quello che lei si aspettava di sentire e, a bassa voce tra il rombo del motore, le parlava con le parole che mille volte si era rimproverato di non averle mai detto. Ricordava quando, un anno prima, proprio sulla terrazza di quel ristorante, si erano tenuti per mano incuranti della gente attorno. Piccole onde sciabordavano sulla banchina del porto sotto di loro, la luna pennellava d’argento il blu intenso del mare e una leggera brezza trasportava odori di salmastro e voci lontane. Ma per loro non esisteva altro che quel tavolino quadrato dove un mondo di speranze li avvolgeva come un sipario che escludeva ogni altra platea di spettatori. Un cameriere gli chiese se volesse ancora vino, ma lui era già ebbro anche da sobrio mentre la sera scivolava verso una notte che non avrebbe più dimenticato.
Pensava e immaginava, sperava e pregava, fremeva e desiderava, al volante dell’auto lanciata nell’oscurità. Forse si distrasse. Improvvisamente: il riflesso dettato dallo spavento, lo stridio delle gomme sull’asfalto, l’auto che girava su se stessa e poi la sensazione che fosse finita. La macchina andò a sbattere contro un paracarro ed arrestò la sua corsa. Il motore ruggì, sbuffò e tacque mentre, per inerzia, l’ammasso di rottami si mosse scivolando su una piccola scarpata ai lati della carreggiata.
Uscì dall’abitacolo pressoché incolume. Solo qualche livido e un forte mal di testa. Si portò subito la mano sulla tasca per cercare il cellulare. Doveva dare l’allarme per l’incidente, ma soprattutto doveva avvertirla che avrebbe tardato, che l’aspettasse. Non trovò il telefonino, l’aveva perso. Cercò sul sedile e poi intorno alla carcassa dell’auto, ma senza risultato. Era isolato, lungo una strada poco frequentata e distante da ogni centro abitato. Aveva calcolato che per arrivare a Maratea ci sarebbe voluto ancora almeno mezzora di macchina e quindi a piedi come minimo tre ore. Se ce l’avesse fatta. Nel frattempo lei l’avrebbe chiamato senza ricevere risposta. Probabilmente avrebbe atteso seduta al ristorante spilluzzicando qualcosa ed evitando lo sguardo pietoso dei camerieri verso una donna che sedeva da sola in un tavolo apparecchiato per due. Ma dopo aver fatto finta di mangiare per ingannare il tempo, si sarebbe alzata credendo che lui si fosse comportato come l’ultima volta quando l’aveva lasciata senza una spiegazione, per non farsi più sentire. La immaginava sbattere il tovagliolo sulla tavola ed allontanarsi con lo sguardo fiero che ben conosceva dove lampeggiava un “mai più” rivolto ad una storia che si era illusa di poter riaccendere.
Rassegnato, faticosamente risalì il terreno scosceso per raggiungere la strada. Si sedette su un pezzo di guard-rail in attesa di vedere qualche macchina o per trovare la forza di mettersi in cammino verso il paese. Che senso aveva ancora Maratea, a che serviva il mare e la fredda luna se lei non c’era più? Si sentiva solo, in una notte priva di ogni significato. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno. Poi alzò lo sguardo verso il monte che dominava quel tratto di costa. La parete incombeva oscura e severa perdendosi verso l’alto a monito di chi avesse avuto la presunzione di sentirsi poco più di niente in confronto alla maestosità della natura. Nuvole basse sfumavano il contorno della vetta nascondendo la fine della montagna come se la sommità si perdesse dritta nell’infinito. Lontano, ammantato da veli di vapore, un Cristo benedicente illuminato dal basso, col capo chino, sembrava guardarlo con pietosa compassione. Bianco, nella fissità della pietra, prendeva vita a seconda delle ombre che le nuvole spinte dal vento facevano scorrere sul suo volto.  Lo vide e provò una consolazione inaspettata. Non era mai stato particolarmente credente, ma forse tutte le preghiere che negli anni avevano raggiunto quell’immagine di Dio, in qualche maniera gli avevano dato la forza di rispondere a chi si rivolgeva a Lui. E allora, anche lui gli indirizzò l’invocazione più semplice: aiutami!
Non passò nessuno ancora per molto tempo. Si avviò da solo verso il paese, ma ormai l’estate era finita.