C’era una
volta, tanto tempo fa, un regno governato da un Re buono che amava i suoi
sudditi come un padre. Il regno non era grande, poco più di un campo molto
vasto, ed era racchiuso tra alte montagne dalle cime innevate. I monti facevano
da schermo ai venti freddi del nord ed all’invasione di altre genti lasciando
vivere la valle in pace, anche se isolata dal resto del mondo. Era un piccolo
paradiso naturale. Ruscelli d’acqua pura portavano ristoro e refrigerio nelle
giornate più calde, sugli alberi cresceva ogni varietà di frutti dalla polpa
succosa, cerbiatti sgambettavano liberi nei prati e variopinti uccellini mai
stanchi cinguettavano tutto il giorno. I campi erano fertili, le galline producevano
delle uova grosse come mele ed il miele delle api era tanto abbondante che i
magazzini traboccavano di caramelle lasciate dai bambini perché non facevano in
tempo a mangiarle. La capitale del regno era la più bella città della vallata,
anche perché era l’unica. Disponeva di tutte le comodità: un autobus che girava
senza sosta per trasportare i cittadini da una parte all’altra ed anche un taxi
che, gratuitamente, accompagnava chi non voleva aspettare alla fermate. Il Re
aveva anche fatto costruire un bel Luna Park pieno di attrazioni per far felici
i piccoli ed un Circolo ricreativo dove gli anziani giocavano a carte. Nella
piazza principale troneggiava un maestoso monumento pieno di statue sorridenti
con una dedica scolpita sul basamento: “Alla felicità alla quale ogni uomo deve
tendere”. Ogni casa era tinteggiata di un colore diverso dall’altra ed un
artista pieno di fantasia aveva creato delle sculture posizionate qua e là che
non rappresentavano niente, ma facevano sognare. Ci si potrà chiedere come mai
questo regno fosse tanto fortunato in un mondo sempre in guerra e con tante
brutture. Ebbene, siccome il Re teneva tanto alla sua gente, appena salito sul
trono pensò subito di stipulare un patto col Mago della Montagna. Questo Mago era
il vero padrone della valle, viveva in una grotta vicina alla cima più alta e
da lì controllava tutto il suo territorio. Deteneva il potere di decidere del
bene e del male, poteva far splendere il sole o far piovere, seccare i raccolti
o concedere ogni abbondanza. Il Re propose al Mago che, in cambio della
possibilità per i suoi amati sudditi di vivere in un posto incantevole, mai
nessuno avrebbe lasciato la valle per recarsi in altri paesi. Il Mago accettò
per quieto vivere e d’allora in poi mantenne la sua promessa creando nella sua
valle un’oasi di delizie. Ogni tanto, mascherato come un viandante qualsiasi, scendeva
dalla sua caverna e si mescolava agli abitanti della città, gli piaceva frequentare
qualche osteria per bere un buon bicchiere di vino facendo una partita a carte
con i paesani. Lassù, sulla montagna, viveva da solo e scambiare quattro
chiacchiere senza far capire chi fosse, lo divertiva molto. Ascoltava i
discorsi della gente e si rendeva partecipe dei problemi di una comunità che,
in realtà, non avrebbe dovuto avere problemi vivendo dove non mancava niente a
nessuno. La popolazione si poteva sfamare in abbondanza senza spendere niente,
si viveva in pace, la natura era benigna ed il governo bendisposto. Cos’altro
si poteva desiderare? Eppure sembrava che fossero tutti insoddisfatti. C’era
chi non era contento di vivere un’eterna primavera e voleva quelle belle
giornate di pioggia e cielo grigio che aveva visto in qualche fotografia, chi
mugugnava perché avrebbe voluto andare fuori dalla valle e girare il mondo e
chi si lamentava per il gusto di lamentarsi. Non solo, spesso scoppiavano liti
furibonde tra le persone che si rinfacciavano le cose più assurde. C’era chi accusava
il vicino di avergli rubato gli zoccoli, chi era geloso e urlava contro la
moglie, chi provava invidia se vedeva un conoscente indossare una giacchetta
nuova. Insomma i paesani sembravano azzuffarsi in continuazione, non
accorgendosi dei tramonti incantati e delle magiche albe. Quando si ritrovavano
all’osteria, gli uomini spesso si ubriacavano e facevano a botte o inveivano
contro il destino che, secondo loro, li privava di qualsiasi preoccupazione
mentre, dicevano, sarebbe stato bello avere qualche problema che rendesse la
vita meno monotona. Una sera, mentre il Mago della Montagna si trovava in
incognito tra di loro, successe l’irreparabile. Uno fra i più scalmanati dei
paesani, dopo aver maledetto il giorno in cui era nato e tutto quello che gli
passava per la mente, ad un certo punto esclamò: “E soprattutto, sia maledetto
il Mago che gioca con le nostre vite. Che possa scivolare dalla sua grotta
sulla montagna e rompersi tutte le ossa. Io non lo aiuterei di certo, anzi ne sarei
contento!” A questa invettiva molti risero, qualcuno urlò: “Bravo! Giusto!”,
mentre nessuno mostrò la minima riconoscenza per chi aveva dato loro la
possibilità di vivere in pace. Il Mago, sentendo quelle parole, ma soprattutto
non vedendo neanche uno che prendesse le sue difese, si arrabbiò moltissimo.
Non disse niente e, sempre senza farsi riconoscere, tornò nella sua grotta
deciso a farla pagare a quel popolo di ingrati. Ci pensò su per un po’ e poi mise
in atto una vendetta terribile. Con un incantesimo creò una zanzara
piccolissima, nessuno la poteva vedere tanto era piccola, con il compito di
pungere tutti gli abitanti della valle iniettando un veleno che li avrebbe
fatti stare malissimo, addirittura avrebbe potuto farli morire. E poi liberò
l’animaletto. Questo si intrufolò tra le gente cominciando il suo lavoro.
Morse, punse, succhiò e gli uomini, le donne ed i bambini cominciarono ad
ammalarsi e qualcuno anche a morire. Gli abitanti della valle erano disperati,
non sapevano come difendersi da un pericolo che non avevano mai conosciuto
prima e che non vedevano. Piangevano, imploravano e finalmente qualcuno, nel
dolore, rimpianse la fortuna che aveva perso. Si accorsero di quanto erano
stati pazzi nel disprezzare la serenità delle cose semplici e di come avessero dato
per scontati i doni della valle. “Eh, - disse quello stesso che aveva maledetto
il Mago – se potessimo tornare indietro! Avremmo potuto essere felici e non ce
ne rendevamo conto. Avevamo tutto e l’abbiamo disprezzato, adesso scontiamo il
nostro peccato di superbia. Chi mai ci aiuterà?”
E mentre lo diceva si asciugava le lacrime, pieno di rimorsi. Il Mago sentì i
lamenti e vide il dolore, ma era troppo offeso per darvi peso, anzi sentiva di
aver dato la giusta lezione a quella popolazione così priva di riconoscenza.
Anche il Re partecipava del dramma e penava nel constare come la valle
incantata, improvvisamente si fosse trasformata in una terra desolata. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa per porre fine a quella disgrazia, ma in realtà non poteva
niente. L’unico che aveva il potere di aiutare la popolazione era il Mago e da
lui si recò il Re tutto vestito di nero e senza la corona. Bussò alla porta
della caverna del Mago, ma non gli fu aperto. Tornò il giorno dopo, ma ancora
l’uscio rimase chiuso. Così andò avanti ogni giorno di ogni mese per nove mesi consecutivi:
il Re chiedeva udienza e il Mago faceva finta di non sentirlo. Finché,
finalmente, il padrone della valle non si impietosì vedendo quel vecchio, ormai
stanco, non rassegnarsi alla sorte dei suoi sudditi e lo fece entrare. “Cosa
vuoi?” chiese il Mago. “Pietà, grande Mago. Pietà per il mio popolo che patisce
e muore.” Il Mago vide il volto del Re provato dalla fatica e con gli occhi pieni
di lacrime e si sentì toccare nell’anima. Capì come quell’unico uomo buono fosse
sufficiente per salvare tutti gli altri e come non fosse giusto che la
malvagità di alcuni causasse la sofferenza di chi non lo meritava. Decise quindi
che la punizione era durata abbastanza, sperando che i valligiani avessero
capito la lezione. Con un incantesimo tramutò la zanzara in granelli di polvere
che il vento disperse e la valle fu liberata immediatamente dal terribile
contagio. Il Re tornò fra i suoi sudditi che già cominciavano a guarire ed a
ritrovare il sorriso. Da quel giorno i paesani ricominciarono a godere del
profumo dei fiori, della dolcezza dell’aria e della bellezza del paesaggio.
Nessuno si lamentò più e vissero tutti felici e contenti. Il Re dette un grande
banchetto per festeggiare la fine dell’epidemia. Ci furono canti, balli e tanto
amore.
Stretta la
foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.
No, non è
vero. I paesani, dopo un primo periodo di sollievo, ricominciarono la vita di
sempre. Non appresero niente da quella lezione di vita e tornarono litigiosi,
gretti ed ingrati, com’è nella natura umana. Ripresero a farsi la guerra per i
motivi più stupidi mentre il mondo moriva di egoismo. La zanzara dissolta nel
vento si chiamava Covid e forse aveva qualche parente.
Stretta la
foglia, larga la via, c’è poco da dire, e così sia.