mercoledì 2 novembre 2022

Il Cecere

 

Studiare gli piaceva, ma non più di tanto. Faceva i compiti diligentemente: lettura, matematica, storia e religione, ma solo il lunedì, poi metteva tutto in cartella e scendeva nel giardinetto sulla piazza. C’era sempre qualche amichetto e, a seconda del numero, si organizzavano partite a pallone o gare di nasconderella e chi s’accecava doveva contare dietro al tronco di uno dei tanti carrubi del parco. I carrubi facevano cadere in terra le carrube, una specie di grandi fagioloni dall’odore dolciastro. Si diceva che fossero commestibili, ma nessuno le aveva mai assaggiate né aveva la minima intenzione di farlo. Nel pomeriggio dei giorni feriali il giardinetto era frequentato solo da bambini accompagnati dalle madri o da qualche servetta. Le tate professionali si riconoscevano per la figura paciosa e sovrabbondante, l’immancabile collana di corallo, dono della padrona alla nascita del pargoletto, e per la “crocchia” di capelli ben stretta sulla nuca. Prevalentemente si sentiva parlare in ciociaro, ma non mancava qualche balia veneta che ogni tanto sbrodolava un’invocazione somigliante tanto a una affettuosa bestemmia. All’epoca il bambino aveva sette o otto anni e, come per tutti i suoi coetanei, il mondo gli sembrava una continua scoperta. Quell’appezzamento di prato e ghiaia ritagliato in mezzo al traffico cittadino era per lui un microcosmo. Osservava le formiche in fila con il carico di un filo d’erba o giocava con un girino nella piccola vasca della fontanella. Scopriva la ritrosia delle lumache che, toccate sulle corna, si rintanavano nella loro casetta fatta di guscio e la fatica di qualche bacherozzo intento a spingere una palla di “cacca” più grande di lui. Su qualche ramo più basso dei grandi alberi guardava i nidi degli uccelli e a volte capitava che scoprisse un passerottino caduto per terra che sembrava implorasse aiuto. Una volta ne aveva raccolto uno organizzando una specie di pronto soccorso in una scatola di scarpe, ma l’esito delle cure si era rivelato infausto per il piccolo paziente, e quindi decise di non intervenire più lasciando la natura libera di tessere i suoi disegni. Accadeva che talvolta i suoi amichetti non andassero al giardino o che dovessero tornare presto a casa, e allora lui restava solo con la tata. Si sedeva su una panchina e studiava i “grandi”. In quelle ore dedicate al lavoro, oltre alle accompagnatrici dei bambini, solo qualche persona anziana sostava nel giardino con la sporta della spesa o vecchi, più sperduti dei passerotti, con lo sguardo vacuo di chi non sa cosa fare e col dubbio se valga la pena di farlo. Ma, quasi sempre, c’era l’uomo col “cecere”. L’aveva chiesto alla tata, quell’escrescenza sul volto, prominente e pendula, si chiamava così, quasi a ricordare un cecio buttato in faccia alle persone. Era un omone, almeno per lui che era così piccolo, sempre vestito con un paltò di colore indefinito e col cappello in testa. Sedeva, leggeva il giornale, si alzava per fare un giretto, sorrideva a chi incrociava, poi si accomodava nuovamente su una panchina…col cecere pendulo. Non sembrava cattivo, forse non aveva famiglia, ma quel ciccio di carne era qualcosa che al bambino metteva i brividi. Il piccolo immaginava l’uomo farsi la barba e circumnavigare quel promontorio di carne prominente sulla guancia, con circospezione e prudenza. E poi chissà se lo strano polipo sarebbe cresciuto ancora, a dismisura, senza limiti. Forse un giorno l’uomo si sarebbe presentato ai giardinetti con delle bretelle attaccate alla nuca per sorreggere la massa estroflessa o con una carriola adatta a portare l’indesiderato peso. Magari quel cecere era il baby di una forma aliena o una specie di peste che si sarebbe trasmessa a tutto il genere umano, chissà? Il ragazzino era seriamente preoccupato e anche un po’ schifato. Finché un giorno, guardando attentamente, ma senza farsi accorgere, la guancia dell’uomo, il bambino vide che, alla base del ciccio, l’uomo aveva stretto un filo bianco, come quello da cucire. Lo sta strozzando, pensò. Sta togliendo vita all’alieno e combatte per estirpare quel parassita aggrappato ai suoi succhi vitali. Per qualche giorno l’uomo non si presentò da quelle parti, ma era comprensibile: la battaglia stava divampando cruenta e senza pietà. Poi tornò, senza cecere. Aveva avuto la meglio! Il bambino ne fu felice. Non disse niente alla tata, ma da quel giorno ebbe una preoccupazione in meno: gli umani potevano stare tranquilli, gli alieni non avrebbero vinto!