sabato 5 dicembre 2020

Zapping

 

Questa sera, in televisione, hanno trasmesso un lungo concerto dei Pooh in memoria di Stefano D’Orazio. Stavo vedendo un altro canale, ma in corrispondenza della pubblicità ho fatto zapping e mi sono ritrovato su RAI1 proprio mentre attaccava “Piccola Kathy”. In quel momento anche la mia memoria ha fatto zapping ed ho capito perché mi ha colpito tanto la morte del batterista di un gruppo musicale del quale non ho mai comprato neanche un disco. Improvvisamente: Fregene, agosto 1969, io in groppa alla mia gloriosa Vespa 50 color giallo senape spinta al limite di suoi settanta orari (confesso, avevo fatto sostituire il “tromboncino” del carburatore). Quell’estate dissi a mia madre di non preoccuparsi, mi avrebbe potuto tranquillamente lasciare da solo a soggiornare nell’Hotel Villa dei Pini in quanto i proprietari erano nostri buoni amici di famiglia e, in fondo, era un po’ come se fossi a casa mia sotto gli occhi di parenti. Era una boutade alla quale non credevo neanche io e che ero sicuro sarebbe stata rifiutata, ma invece, dopo qualche titubanza, fui accontentato. Ottime persone quegli albergatori, ne ho un ricordo vivo e affettuosissimo, ma certamente non potevano controllare un ragazzo loro ospite mentre avevano un gran daffare a mandare avanti l’albergo più bello della riviera romana. Perciò, tranne qualche sporadico convenevole, i miei incontri con loro erano occasionali e perlopiù all’ora di pranzo o di cena. Per farmi sentire più a mio agio, mi dettero una bella stanza a Villa Schipa e, siccome non c’era un servizio di portineria continuo, mi fornirono della chiave con libertà di movimento in qualsiasi ora. Sono sempre stato un “giovine” avveduto e non ho mai fatto niente che un buon parroco non avrebbe assolto con qualche decina di pater/ave/gloria, ma eravamo in piena beat generation, non sentivo le briglie sul collo e pertanto ci sarebbe voluto uno molto, ma molto, più tonto di me per non approfittarne un po’. Posso dire solamente che quando mamma mi veniva a trovare, non riusciva a spiegarsi il motivo per il quale, nonostante fossi al mare da tanti giorni, non ero abbronzato quasi per niente. Un uccellino (fetente e spione) avrebbe potuto spiegarle che da Toni ci andavo solo nel pomeriggio, spesso tardo, per una partita a pallavolo e che il mio orologio biologico si era inspiegabilmente spostato sul fuso orario di Anchorage dove il loro giorno corrisponde alla nostra notte e viceversa. A quel tempo Fregene rivaleggiava con Forte dei Marmi e dintorni come località più alla moda dove trascorrere le vacanze, ed i cantanti che andavano per la maggiore facevano prima tappa alla Bussola di Focette per poi continuare il tour alla Nave, l’Oasi o il Tirreno. Si parla di Mina, degli Aphrodite’s Childs, degli Showmen (ok, prima di storcere la bocca, senti:  https://www.youtube.com/watch?v=cy8crYdtrPQ&list=OLAK5uy_mJe2RrFeD7B0-dT2DYYpHZ5kliMFByEbs&index=13 ). Noi ragazzi, fra tutte le location, preferivamo il Tirreno per la semplice ragione che c’era una recinzione dal lato del parcheggio, ma solo una rada e bucatissima incannucciata dalla parte del mare. Quindi, attenti agli sguardi dei camerieri, non erano poche le volte che con gli amici ci imbucavamo sedendoci subito tra le altre persone con l’espressione più innocente e vaga, come fossimo appena tornati dal bagno. E lì vennero anche i Pooh con ancora Riccardo Fogli ed un look da “scappati di casa” che era esattamente lo specchio dei tempi. Verso la fine del concerto, forse all’una di notte, cantarono piccola Kathy e poi si congedarono da un pubblico che li salutò con un tiepido applauso. Forse fu l’effetto del bicchiere di whisky spillato dalla bottiglia che ci eravamo portati da fuori dividendo la spesa e le sorsate, sarà stata la dolcezza di una notte d’estate che sembrava promettere qualsiasi cosa, fatto sta che uscii dal locale euforico e pieno di un’energia incontenibile. Saltai sopra la vespetta come se fosse l’Harley di easy rider e aprii a manetta su Viale Viareggio. Mentre la velocità mi scompigliava i capelli e mi faceva lacrimare, cantai a squarciagola: “Ohh, Ohh Piccola Katy…Ohh, Ohh Piccola Katy …”. Una falena, od altro insetto nottambulo di notevole dimensione, vide la mia bocca spalancata scambiandola per il garage di casa sua e ci si infilò dentro, senza alcuna esitazione. Sbandai pericolosamente, sputacchiai come un lama incazzato ed assaggiai la mia prima, ed ultima, tartare di lepidottero. Come dimenticare? Ecco perché Stefano d’Orazio rimarrà sempre nei miei ricordi e, andando via, ha portato con se una briciola della mia giovinezza.

 

 

 

 

mercoledì 2 dicembre 2020

Un Natale diverso

 

-Vieni caro, ti racconto una favola.

-Bene, nonno.

-C’era una volta, - cominciò a raccontare il nonno – un bambino che doveva attraversare un bosco. Il sentiero che stava percorrendo era invaso dalle foglie cadute e spazzato dal vento così che, ben presto, il ragazzo perse l’orientamento e si mise a piangere.

-Ma nonno, quel bambino non aveva un cellulare 4G con localizzatore, Google Map e Waze?

-No, figliolo… cominciamo da capo. – Il vecchio, visto l’inizio impervio, pensò di prendere un’altra strada. - C’era, sempre una volta, un soldatino di piombo…

-Soldatino? Intendi un Trasformer Grimlock o Megatron? – Questa volta fu il nonno a non comprendere. Guardò il nipotino come se fosse un piccolo alieno con il quale risultava difficile interagire.

-La vuoi sentire ‘sta cavolo di favola, oppure no? Beh, allora taci! Ricomincio. – Il piccolo sfogo aveva accigliato l’anziano parente ma, partendo di nuovo verso il regno della fantasia, ridistese i tratti del volto sforzandosi di apparire sereno ed affettuoso. – C’era…ok, no. Diciamo che la storia si svolge ai giorni nostri. In realtà sono più tuoi che miei questi giorni, ma lasciamo andare. – Il bambino non aveva voglia di dormire e qualsiasi scusa era la benvenuta per perdere tempo, anche dare spago al nonno. Gli voleva bene, ma a volte non lo capiva. Era troppo severo, specialmente a tavola mentre si mangiava, o fin troppo buono quando lo giustificava sempre. Al piccolo sembrava di trattare con un dinosauro vissuto nel pleisto… quello, insomma.

– Gabriele, un bambino più o meno della tua età, ricevette un messaggio sul palmare.

-Ohh così va bene, nonno. Vai avanti. – Cambiare la prospettiva delle sue favole era un’ardua sfida per il vecchio ma, imperterrito, proseguì.

-Sullo schermo c’era scritto: “Raggiungimi in Finlandia, vicino al Polo Nord. E’ una cosa molto importante. Bella, zio!” In questo caso il “bella” non era inteso come aggettivo qualificativo di genere femminile, mentre lo “zio” non faceva riferimento ad alcun grado di parentela, come ben sai.

-Certo, zio!

- Non mi confondere. Dicevo: la comunicazione arrivava da Gianni, un suo compagno di scuola che da qualche giorno era assente dalle lezioni. Ma per Gabriele, che viveva a Roma con i genitori, sparire per andare a migliaia di chilometri di distanza era praticamente una “mission impossible”.

-Come il film?

-Esatto. Ma il nostro protagonista non si dette per vinto e, dopo averci pensato su tra un Oreo al cioccolato ed uno classico alla vaniglia, finalmente prese una decisione. Ficcò nello zainetto un pile e i calzettoni da montagna, si mise in tasca tutti i soldi che aveva da parte e, con il telefonino, chiamo un taxi. “All’aeroporto, presto” disse al conducente. Arrivato al desk della Finnair…

-Che è: Finnair? E c’era un teschio?

-Macché teschio, desk: biglietteria. Finnair: linee aeree finlandesi. Mettiti giù, chiudi gli occhi e taci. – Proseguì. - Gabriele doveva comprare un passaggio per il Polo, ma non aveva i soldi a sufficienza. Compose il numero della madre: “Mammina…” “Dimmi, caro.” Rispose subito la genitrice. “Senti, mammina cara, devo comprare dei libri per la scuola. Mi dai il numero della tua carta di credito, il CVV e la scadenza?” “Certamente, figlio mio, te li mando subito per whatsapp.” L’ingenua brava donna dette tutte le credenziali al figlio senza badare al SMS di conferma per l’avvenuto pagamento che le giunse poco dopo.

-Furbo!

-Sì, furbo, ma non si fa. Intesi?

-Certo, nonnino.

-Ambè! Procedo. Saltiamo il viaggio, il trasferimento a Rovaniemi e di come quella carta di credito esaurì il suo plafond in pochissimo tempo, per ritrovare Gabriele vicino ad una casa di legno in mezzo ad una distesa di neve tanto bianca che sembrava fatta di zucchero filato.

-Stai correndo troppo, nonno. Rova…che?

-Ah, ah, ah! Rovaniemi: è un paesino in Lapponia dove c’è la casa di Babbo Natale.

-Ohhh! Figo! E poi? – Il nipotino si stava appassionando.

-Faceva freddo, lassù vicino al Polo. La natura sembrava ferma, addormentata, in attesa di un risveglio promesso ma ancora lontano. La notte regnava silente, mentre l’oscurità si stemperava in mille riflessi d’argento. Il cielo di velluto blu era trapunto di una miriade di sfaccettati diamanti dal nome di stella che brillavano di una luce tremula e soffusa. La luna, grande come il viso di una persona amata, specchiava un sole nascosto rimbalzando raggi scremati dal calore e filtrati con la poesia. Le ombre di qualche sparsa roccia o di solitari abeti si allungavano come inquiete presenze su di un palcoscenico d’indaco e seta. La neve riluceva di scintille baluginanti, come se una mano fatata l’avesse seminata con infinitesimali frammenti di un cristallo più puro e prezioso di quanto qualsiasi manifattura di Boemia abbia mai creato. L’aria era tersa e limpida, contaminata solo dal vapore di un respiro subitamente disperso da un refolo di vento, senza odore o consistenza. Il silenzio era rotto solamente dallo sgocciolio di precarie calaverne dall’aspetto di trina in incerto appiglio su scheletrici rami, mentre una solitudine priva d’angoscia infondeva la pace predisponendo gli animi alla preghiera. In quel mondo in equilibrio era l’uomo ad essere l’intruso, un punto di confusione in un insieme perfetto ed immutabile.

-Non ho capito. – Disse il nipotino.

-Scusa, mi sono lasciato andare. Volevo dire che era tutto molto bello, ma proseguiamo. Gabriele aveva appuntamento con l’amico proprio lì e, dopo un po’ che l’aspettava, si sentì battere sulla spalla. “Bella Gabriè! Finalmente sei arrivato. Vieni sediamoci su quel tronco che c’ho una notizia bomba” I due amici si appoggiarono su un albero caduto a terra. “Allora, dimmi, che è successo?” Gianni, con gli occhi brillanti per l’eccitazione, radunò le idee e cominciò. “Vedi quella casa laggiù? Lì abita Babbo Natale, ma quest’anno, la sera del ventiquattro dicembre, non uscirà e non porterà nessun regalo in giro per il mondo.” Era quello che i giornalisti chiamano uno scoop: una rivelazione tanto clamorosa quanto inaspettata. “E perché mai?” Incalzò Gabriele. “Perché Babbo Natale…ha il covid e sta in quarantena! Intendiamoci, non si sente proprio male male, ma alla sua età deve stare riguardato e curarsi. Anche perché se andasse in giro rischierebbe di contagiare ‘na marea di persone. Siccome è vecchio ma responsabile, pare abbia annullato il giro della consegna dei doni.”

-Era malato anche lui? – Chiese il nipotino.

-Eggià, piccolo caro. Questo virus maledetto non guarda in faccia a nessuno.

-E Gianni come l’aveva saputo?

-E’ esattamente la domanda che Gabriele fece all’amico, e lui gli rispose: “Tramite facebook. Mi è arrivata la richiesta di amicizia da parte di un elfo. In un primo momento pensavo fosse un nik, ma poi, chattando e postando, ho capito che era uno vero. Qualche giorno fa se n’è uscito con questa rivelazione pregandomi di tenere il segreto. Però io non potevo far finta di niente, così ho pensato di venire qua per accertarmi dell’accaduto e ti ho chiamato per darmi una mano.” “Hai fatto benissimo.” Rispose Gabriele. “Ma adesso come ci muoviamo?” “Facciamo la cosa più semplice – rispose Gianni – suoniamo al campanello della casa e chiediamo come sta Babbo Natale. Dopodiché decideremo come comportarci.” “Sei sicuro?” “Abbastanza” Ribatté Gianni, ma si vedeva che era intimorito.

Il portoncino si aprì di conseguenza al breve scampanellio che Gabriele osò dopo aver preso il coraggio a due mani. Il ragazzo e l’amico rimasero sulla soglia della casa con gli occhi spalancati e un “Oh” sulle labbra muto ma espressivo come lo stupore dipinto sul loro volto. Da fuori, lo chalet di Babbo Natale appariva grandicello ma niente di particolare, non più di una baita di montagna come tante, ma dall’altra parte dell’uscio si apriva uno spettacolo del tutto inaspettato. Uno stanzone grande come la sala d’aspetto di un aeroporto si allargava per decine di metri mentre il fondo si intravedeva lontano almeno…tanto lontano. La vasta area era suddivisa in corridoi, forse una ventina, e per ogni corsia scorreva un nastro trasportatore carico dei giochi più inverosimili e colorati. Si scorgevano scatole di costruzioni, automobili di ogni dimensione, aeroplani telecomandati, bambole, pupazzi, antenne di aggeggi elettronici e qualsiasi altro oggetto fosse stato sulla lista dei desideri dei bambini di tutto il mondo. Un piccolo esercito di elfi si muoveva affaccendato come una squadra di formiche ben addestrate, ciascuno compreso nel proprio compito in una confusione ordinata che dimostrava un’esperienza di anni. In sottofondo delle musiche natalizie si confondevano con il rumore tipico di una catena di montaggio. Improvvisamente l’immancabile voce di Mariah Carey fu interrotta dall’annuncio di un altoparlante: “L’aiuto elfo Gluggagaegir è pregato di accogliere i visitatori.” Un piccolo gnomo col cappello a cono verde e le orecchie a punta apparve come d’incanto sotto al naso dei ragazzi che sembravano delle statue immobilizzate dalla sorpresa. “Allora –disse Glugg…chiamolo G.- che volete? Ci mancavano due rompiscatole in questo momento! Siete morti? Rispondete!” Il primo a riprendersi fu Gianni. “Uh, ecco, noi veramente…” “Cosa?” “Volevamo sapere se è vero che Babbo Natale sta male e che quest’anno non poterà doni.” Questa volta a stupirsi fu l’elfo. La notizia doveva rimanere segreta, non avrebbe dovuto trapelare niente, ed invece quei due sapevano tutto. “Aspettate qui.” Disse G. e corse via veloce come un lucertola impaurita. Non passò molto tempo che da una porticina su di un lato del capannone uscì una piccola elfa (si chiamano così le donne del popolo degli elfi? Boh!). Sarà stata alta poco più del comò in camera da letto e forse altrettanto larga. Grassottella, ma dall’espressione viva e simpatica, con due lunghe trecce bianche che indicavano come non fosse proprio giovanissima. “Mi chiamo Sugarplum Mary e sono l’assistente della moglie del principale. Come fate a sapere di Babbo Natale?” Gabriele parlò a sua volta: “Gentile signora elfessa, dopo le spiegheremo, ma ci dica è vero?” Lei stette un momento con gli occhi bassi facendo intuire tutta la sua preoccupazione e poi rispose. “Ebbene sì, ragazzi. Siamo in produzione come al solito, ma quest’anno non ci sarà la distribuzione, Metteremo tutto in magazzino in attesa di tempi migliori.” I due amici si resero conto solo in quel momento che quanto avevano temuto era una cruda realtà. Andava a monte il Natale, Gabriele non avrebbe potuto avere il Red Dead Redemption della PS4 e Gianni si sarebbe sognato la Jump Force.

-Ma che davvero? Nonno, ma davvero, davvero?

-Ehh, che ci vuoi fare, nipote mio? Pare che le cose stessero proprio così. Però, sai, gli elfi sono bassi di statura ma molto intelligenti. Sugarplum Mary improvvisamente ebbe un’idea. “Aspettate qui.” Disse ai due amici e muovendo freneticamente le corte gambette, corse via oltre quella porta da cui era sbucata poco prima. A Gabriele e Gianni non importava attendere, erano assolutamente affascinati dallo spettacolo intorno a loro che forse nessun altro bambino aveva mai visto prima. Non trascorse molto tempo che la elfessa tornò. Mostrava un sorriso furbo negli occhietti vivaci. “Venite con me.” Disse loro, e li condusse nei meandri della fabbrica di Babbo Natale.

-Dove li portò?

-Questo non si è mai saputo, ma ti darò una buona notizia.

-Sputa!

-Prego? Il sopracciglio del nonno s’inarcò in modo pericoloso.

-Scusa, nonno. Volevo dire: vai avanti, qual era sta notizia?

-Beh, sai quando nei western lo sceriffo appunta sul petto di due altri uomini una stella di latta e li nomina suoi vice? Ebbene i ragazzi uscirono dall’ufficio di Babbo Natale vestiti di rosso e con una piccola cometa sul bavero delle casacche. Il Natale, nonostante il maledetto Covid, si tenne ugualmente con regali per tutti i bambini del mondo. La sola differenza con gli altri fu che a bordo della slitta trainata da Rudolph e dalle renne sue compagne c’erano due piccole figure invece della solita col corpaccione. Furono tutti contenti: Babbo Natale perché non aveva mancato il suo compito, anche se per interposta persona; Gabri e Gianni per un’avventura insperata e magica; i bravi bambini per i pacchi sotto l’albero ed anche le renne perché, per una volta, non fecero tanta fatica a trasportare il loro panciuto padrone. Anche quella notte risuonò il solito ’”OH, OH, OH!”, era soltanto gridato da un paio di voci diverse, ma nessuno ci fece caso.

-Fine. Piaciuta?

-Me ne racconti un’altra?

-No! A letto e dormi! – Anche la pazienza di un nonno ha un limite!   

   

 

 

 

 

 

 

mercoledì 11 novembre 2020

A occhi chiusi

 

“…perché conta anche l'istante. Il tempo determina le cose a suo capriccio, e ad esso noi dobbiamo adeguare le nostre azioni. A volte il tempo ci offre una possibilità, legata appunto a un istante preciso, ma se ce lo lasciamo sfuggire non possiamo fare più nulla.” Ma non adesso. Le palpebre scivolano pesanti mentre il sole, come un intruso prepotente, penetra oltre la finestra chiusa. Quel calore sulla guancia riporta a sensazioni di un’estate ormai trascorsa ed una piccola malinconia si avverte in fondo all’anima quieta. E la mente va. Vola oltre i problemi di oggi ed i rimpianti di ieri per librarsi alta dove le nuvole corrono incontro all’orizzonte. Una mosca si posa sul ginocchio e quel fastidio, per quanto minimo, riporta giù, alla quotidiana fisicità. Un colpo con la mano ed il viaggio riprende. Un ricordo antico legato al profumo di un abbraccio mai troppo lungo, mentre una madre esce per vivere una vita che sembrava più felice. E il vento. Il vento che faceva muro nella corsa a ghermire una passione, a mordere un momento. Un volto, un affetto: un figlio o l’amore che in questo momento di solitudine mancano, ma non sono distanti. O forse anche solamente il vuoto, in un vuoto che non c’è mai, per recuperare la forza e ritrovare se stessi. Ma il tempo passa, il sole gira e le ombre si allungano dentro la stanza. La mosca, fulgido esempio di sciocca perseveranza, torna e di nuovo uno schiaffo senza esito nell’ennesimo sforzo inutile di gesti senza risultato. L’incantesimo è rotto, tanto vale riprendere il libro, mentre una sottile felicità scappa inseguendo i sogni.

domenica 1 novembre 2020

Moneypenny

 



-Moneypenny, rintracci 007 e lo faccia venire nel mio ufficio. Subito. – Quando il capo dell’MI5 era di quell’umore conveniva muoversi in fretta, senza discutere.

-Provvedo immediatamente. – Rispose la segretaria all’interfono. Moneypenny immaginò come sarebbe stato bello applicare addosso all’agente un qualche dispositivo per poterlo contattare immediatamente in ogni parte del mondo, ma agli inizi degli anni sessanta le comunicazioni avvenivano solo tramite telefono e spesso i collegamenti non erano neanche molto facili. Con un sospiro, la solerte segretaria infilò l’indice nella ghiera numerata e compose un numero corrispondente al primo di una lista di posti dove il suo preferito doppio zero avrebbe potuto cacciarsi.

-White’s club, buongiorno. Risponde Mortimer alla concierge, come posso essere utile?

-Buongiorno, chiamo dalla International Import Export Ltd, potrei parlare con mr. Bond, cortesemente?

- Verifico se il comandante Bond è presente nel club. Attenda, prego. – Dopo qualche minuto, una calda voce dal forte accento gallese rispose al telefono.

-Moneypenny, se mi chiami per andare a cena insieme stasera, sei la benvenuta, altrimenti dovresti sapere che quando mi rifugio al club mi auguro di non essere disturbato per alcun motivo salvo che per imminenti pericoli alla pace del mondo. Scegli una delle due opzioni.

-Sai bene James che darei una settimana del mio misero salario da impiegata per dividere con te un cartoccio di fish and chips, ma per questa volta dovremo rimandare. La pace del mondo non so come stia, ma l’umore del capo è decisamente nero. Devi presentarti al più presto, lascia i bagordi e precipitati subito a Leconfield House.

-Di quali bagordi stai parlando? Il White’s non ammette presenze femminili e chiacchierare con il colonello Snuff non lo si può certo definire il massimo del divertimento. Vengo in ufficio, almeno là l’atmosfera sarà sicuramente più vivace. E poi così ci rivedremo, non vedo l’ora. – la Bentley Type R modificata fece un solo boccone della distanza che separava St. James Street dalla sede dei Servizi Segreti di Sua Maestà e, in men che non si dica, l’agente si fece annunciare al Direttore.

-Si sieda 007. - M era a capo dei Servizi Segreti di Sua Maestà ormai da molti anni e tra i suoi sottoposti si mormorava che mai nessuno l’avesse visto sorridere o prendersi una vacanza. Probabilmente era una leggenda, ma più il funzionario avanzava con l'età, maggiormente la sua espressione assomigliava a quella di un vecchio bulldog incattivito. Bond ne era abituato e si accomodò sulla poltrona di fronte alla scrivania con la serena disponibilità d’animo di una padrona di casa all’ora del tè.

-L’ho convocata – continuò il Direttore – per affidarle un incarico molto urgente. Non ritengo sia particolarmente difficile o pericoloso, ma si tratta di sicurezza nazionale e pertanto gli uffici dello Scacchiere hanno incaricato noi di provvedere.

-Finalmente una missione di tutto riposo, la prego continui.

-Deve sapere, James, che un informatore ritenuto affidabile ci ha segnalato che un microchip classificato dal KGB come “XW119” con l’elenco delle spie sovietiche sul territorio nazionale è attualmente nelle mani di un agente russo sotto copertura operante qui a Londra. Ebbene, lei deve solamente entrare in possesso di quel dispositivo. Facile e veloce. Che ne pensa? – Bond operava sul campo da ormai troppi anni per non sapere che qualsiasi operazione, anche la più banale, poteva rivelarsi una trappola mortale, ma ormai c’era abituato.

-Bene, se è così agevole, perché mettere in campo uno 00 con licenza d’uccidere? Forse sarebbe bastato un semplice agente, non crede? – La faccia da bulldog scrollò la testa come un cane uscito da una pozzanghera e, ma forse questa era solo l’impressione di Bond, emise un sordo brontolio di insoddisfazione come se un osso si fosse dimostrato più duro da mordere del previsto.

-Non intendo discutere i miei ordini con lei. Passi da Moneypenny e si faccia consegnare il dossier con le informazioni necessarie, poi vada da Q per rifornirsi di quelle stupidaggini che a voi agenti piacciono tanto e quindi si metta in moto, subito. Vada!

-Sissignore, agli ordini. – Una rapida posizione sull’attenti, ma sempre con il solito sorriso al limite della strafottenza sulle labbra, e l’agente lasciò l’ufficio del capo. Nell’anticamera, quel gioiellino di segretaria a disposizione del cerbero al di là della porta, l’accolse con il solito entusiasmo e un poco di rossetto in più sulle labbra.

-Ecco James, in questa cartellina troverai tutto sul caso.

-Se non esistessi, Moneypenny, dovrebbero inventarti. Ma forse neanche Leonardo saprebbe mettere insieme i tuoi occhi con la tua efficienza. Te l’ho mai detto che sei impagabile?

-No, ma preferirei che mi dicessi che ti piaccio per altro che non sia il lavoro. Magari confidato a lume di candela sorseggiando due coppe di Champagne.

-Champagne promesso a fine missione. Ma adesso aggiornami tu, brevemente. Chi è questo agente russo che possiede il microchip e dove risiede?

-Ecco, hai cambiato subito discorso, ma va bene. Vivrò nell’attesa che tu mantenga la promessa del Dom Perignon ghiacciato. Comunque, la spia si chiama Elina Shapova e vive in un appartamento a Chelsea. Dalle ultime intercettazioni riteniamo che si debba incontrare con qualcuno per consegnare il chip proprio nel suo appartamento nel pomeriggio di domani. Devi sottrarglielo prima di allora. Facile per te, no?

-Basta! Dite tutti che sia facile, allora vacci tu con M se siete tanto bravi. Vado via, prima di prenderti sulle ginocchia e sculacciarti come meriteresti.

-Oh, James, fallo! – Ma l’agente, ligio al dovere, recuperò il cappello sull’appendiabiti e uscì dall’ufficio avviandosi verso l’antro di Q.

Gli inventori sono tutti un po’ pazzi, se sono bravi e Q era molto bravo e molto pazzo. Il suo laboratorio detto “l’antro”, perché situato nei sottosuoli dell’edificio, somigliava alla cantina di un rigattiere. Si potevano trovare manichini che improvvisamente prendevano fuoco o penne stilografiche caricate ad acido; ombrelli con la punta al curaro e orologi facenti funzione di contatori Geiger o tirapugni. Qualsiasi cosa basta che l’apparenza non corrispondesse alla funzione, almeno non solamente, e che fosse in qualche modo letale.

-Allora 007, ti posso dare… - Q sembrava l’imbonitore di una fiera di paese – Una dentiera che quando spalanchi la bocca partono i denti come proiettili. Uhmm, no. Mocassini di Gucci che a contatto dell’acqua si gonfiano diventando canotti. Uhmm, no, specialmente col nostro clima potrebbero diventare imbarazzanti. Ecco: una cinta che si può allungare fino a venti metri per fughe da finestre o per legare qualche birbaccione. Uhmm, oppure…

-Fermati Q! Dammi solamente la boccetta di Floris 89 che ti ho fatto ordinare in Jermyn Street.

-Ma non ha niente di particolare.

-Forse per te, ma è il mio profumo ed è un’arma che stende tutte le donne. Comunque mi serviva e così mi hai risparmiato di andarlo a comprare. Per oggi basta così, grazie Q. – L’espressione dello scienziato mostrò tutta la sua delusione, ma presto la deflagrazione di un orsacchiotto di peluche distrasse la sua attenzione.

Le indicazioni contenute nel dossier erano precise e Bond dovette solo escogitare un trucco per entrare in casa della spia. Fece la cosa più semplice. Con l’aiuto della compagnia telefonica isolò la linea dell’appartamento con l’intento di spacciarsi per un tecnico addetto alla riparazione. Poi una volta entrato avrebbe agito.

-Chi è? – Una voce femminile al citofono rispose agli squilli prolungati.

-Mi chiamo Bond, James Bond, sono l’operaio della British Telecom. Posso entrare?

- Venga, primo piano, le apro la porta. – Di tutta l’operazione la parte più sgradevole per il doppio zero era stata il dover indossare una tuta di cotone che avrebbe fatto rabbrividire tutta Savile Row qualora avesse avuto il coraggio di avventurarvisi.

Bisogna dire che il KGB aveva un ottimo gusto in fatto di spie. Femminili, s’intende. Tovarisch Elina poteva essere una modella d’alta moda o il prototipo di una madonna botticelliana. Alta e flessuosa come un giunco siberiano, i capelli biondi raccolti sulla nuca e due occhi dove si rispecchiava il Mar Baltico. Una bellezza che si sarebbe potuta definire algida se, in fondo allo sguardo, non ci fossero state lingue di un fuoco che sottintendeva passione.

Bond non aveva mai disprezzato di unire l’utile al dilettevole e, in men che non si dica, si ritrovò a letto con la spia che veniva dal freddo. Però ancora non aveva un piano per trovare il microchip. Incominciarono ad adoperarsi nello sport nazionale di tutte le nazioni con la foga di due veri campioni. Improvvisamente, anche il quel mentre, allo doppio zero venne in mente il trucco per adempiere alla missione. Si mise d’impegno e cominciò a pensare alla vecchia zia Mary, poi s’immaginò di essere convocato dall’ufficio delle tasse, quindi si figurò M con guepiere e calze a rete. Questa serie di immagini raccapriccianti ebbe effetto sulla sua virilità che, sicuramente per la prima ed ultima volta, svanì come una chiocciola dentro al guscio.

-Scusami, non so cosa mi succede.

-Non preoccuparti, lyubov. Posso fare qualcosa per te?

-Sarebbe meraviglioso se tu potessi andare alla farmacia all’angolo e comprare il ricostituente che ora ti scrivo. Mi fa sempre molto bene e sono sicuro che potrei riprendermi pienamente.

-Veramente non posso allontanarmi.

-Ti prego. – Bond non aveva mai pregato nessuno, tantomeno una donna, ma era in servizio e tutto veniva concesso per giungere al risultato finale.

A lei il muscoloso finto operaio piaceva assai e siccome si dice che per le siberiane tiri più forte il pelo di un orso che altre cose, si rivestì velocemente e uscì.

Bond, con un balzo, scese dal letto. Aveva la casa a disposizione e, forte della sua esperienza, iniziò un’attenta perquisizione. Qualcosa piccolo come un miscrochip doveva essere custodito in un contenitore adatto. Rifletté rapidamente, poi prese la trousse da trucco della ragazza e ne rovesciò il contenuto sul letto. Aprì i vari astucci finché non prese il tubetto del rossetto. Lo svitò e si avvicinò allo specchio sulla parete di fronte al letto “We only live…” cominciò a scrivere, ma la cera rossa come la passione si consumò subito svelando il piccolo tesoro nascosto.

L’agente segreto prese il bottino e si allontanò velocemente dalla casa di Elina lasciando una spia sconfitta ed una donna insoddisfatta.

M fu contento della missione compiuta, ma dovette fare un patto con 007. Sui rapporti dell’intelligence non si sarebbe dovuta menzionare la debacle dell’agente, altrimenti sarebbe diventato lo zimbello di tutto il Servizio Segreto di Sua Maestà.

Anche lo stesso Bond non fece mai menzione di questa missione, ma dopo tanto tempo chi scrive pensa di potersi prendere la licenza di raccontare.

venerdì 4 settembre 2020

Una Favola

 

C’era una volta, tanto tempo fa, un regno governato da un Re buono che amava i suoi sudditi come un padre. Il regno non era grande, poco più di un campo molto vasto, ed era racchiuso tra alte montagne dalle cime innevate. I monti facevano da schermo ai venti freddi del nord ed all’invasione di altre genti lasciando vivere la valle in pace, anche se isolata dal resto del mondo. Era un piccolo paradiso naturale. Ruscelli d’acqua pura portavano ristoro e refrigerio nelle giornate più calde, sugli alberi cresceva ogni varietà di frutti dalla polpa succosa, cerbiatti sgambettavano liberi nei prati e variopinti uccellini mai stanchi cinguettavano tutto il giorno. I campi erano fertili, le galline producevano delle uova grosse come mele ed il miele delle api era tanto abbondante che i magazzini traboccavano di caramelle lasciate dai bambini perché non facevano in tempo a mangiarle. La capitale del regno era la più bella città della vallata, anche perché era l’unica. Disponeva di tutte le comodità: un autobus che girava senza sosta per trasportare i cittadini da una parte all’altra ed anche un taxi che, gratuitamente, accompagnava chi non voleva aspettare alla fermate. Il Re aveva anche fatto costruire un bel Luna Park pieno di attrazioni per far felici i piccoli ed un Circolo ricreativo dove gli anziani giocavano a carte. Nella piazza principale troneggiava un maestoso monumento pieno di statue sorridenti con una dedica scolpita sul basamento: “Alla felicità alla quale ogni uomo deve tendere”. Ogni casa era tinteggiata di un colore diverso dall’altra ed un artista pieno di fantasia aveva creato delle sculture posizionate qua e là che non rappresentavano niente, ma facevano sognare. Ci si potrà chiedere come mai questo regno fosse tanto fortunato in un mondo sempre in guerra e con tante brutture. Ebbene, siccome il Re teneva tanto alla sua gente, appena salito sul trono pensò subito di stipulare un patto col Mago della Montagna. Questo Mago era il vero padrone della valle, viveva in una grotta vicina alla cima più alta e da lì controllava tutto il suo territorio. Deteneva il potere di decidere del bene e del male, poteva far splendere il sole o far piovere, seccare i raccolti o concedere ogni abbondanza. Il Re propose al Mago che, in cambio della possibilità per i suoi amati sudditi di vivere in un posto incantevole, mai nessuno avrebbe lasciato la valle per recarsi in altri paesi. Il Mago accettò per quieto vivere e d’allora in poi mantenne la sua promessa creando nella sua valle un’oasi di delizie. Ogni tanto, mascherato come un viandante qualsiasi, scendeva dalla sua caverna e si mescolava agli abitanti della città, gli piaceva frequentare qualche osteria per bere un buon bicchiere di vino facendo una partita a carte con i paesani. Lassù, sulla montagna, viveva da solo e scambiare quattro chiacchiere senza far capire chi fosse, lo divertiva molto. Ascoltava i discorsi della gente e si rendeva partecipe dei problemi di una comunità che, in realtà, non avrebbe dovuto avere problemi vivendo dove non mancava niente a nessuno. La popolazione si poteva sfamare in abbondanza senza spendere niente, si viveva in pace, la natura era benigna ed il governo bendisposto. Cos’altro si poteva desiderare? Eppure sembrava che fossero tutti insoddisfatti. C’era chi non era contento di vivere un’eterna primavera e voleva quelle belle giornate di pioggia e cielo grigio che aveva visto in qualche fotografia, chi mugugnava perché avrebbe voluto andare fuori dalla valle e girare il mondo e chi si lamentava per il gusto di lamentarsi. Non solo, spesso scoppiavano liti furibonde tra le persone che si rinfacciavano le cose più assurde. C’era chi accusava il vicino di avergli rubato gli zoccoli, chi era geloso e urlava contro la moglie, chi provava invidia se vedeva un conoscente indossare una giacchetta nuova. Insomma i paesani sembravano azzuffarsi in continuazione, non accorgendosi dei tramonti incantati e delle magiche albe. Quando si ritrovavano all’osteria, gli uomini spesso si ubriacavano e facevano a botte o inveivano contro il destino che, secondo loro, li privava di qualsiasi preoccupazione mentre, dicevano, sarebbe stato bello avere qualche problema che rendesse la vita meno monotona. Una sera, mentre il Mago della Montagna si trovava in incognito tra di loro, successe l’irreparabile. Uno fra i più scalmanati dei paesani, dopo aver maledetto il giorno in cui era nato e tutto quello che gli passava per la mente, ad un certo punto esclamò: “E soprattutto, sia maledetto il Mago che gioca con le nostre vite. Che possa scivolare dalla sua grotta sulla montagna e rompersi tutte le ossa. Io non lo aiuterei di certo, anzi ne sarei contento!” A questa invettiva molti risero, qualcuno urlò: “Bravo! Giusto!”, mentre nessuno mostrò la minima riconoscenza per chi aveva dato loro la possibilità di vivere in pace. Il Mago, sentendo quelle parole, ma soprattutto non vedendo neanche uno che prendesse le sue difese, si arrabbiò moltissimo. Non disse niente e, sempre senza farsi riconoscere, tornò nella sua grotta deciso a farla pagare a quel popolo di ingrati. Ci pensò su per un po’ e poi mise in atto una vendetta terribile. Con un incantesimo creò una zanzara piccolissima, nessuno la poteva vedere tanto era piccola, con il compito di pungere tutti gli abitanti della valle iniettando un veleno che li avrebbe fatti stare malissimo, addirittura avrebbe potuto farli morire. E poi liberò l’animaletto. Questo si intrufolò tra le gente cominciando il suo lavoro. Morse, punse, succhiò e gli uomini, le donne ed i bambini cominciarono ad ammalarsi e qualcuno anche a morire. Gli abitanti della valle erano disperati, non sapevano come difendersi da un pericolo che non avevano mai conosciuto prima e che non vedevano. Piangevano, imploravano e finalmente qualcuno, nel dolore, rimpianse la fortuna che aveva perso. Si accorsero di quanto erano stati pazzi nel disprezzare la serenità delle cose semplici e di come avessero dato per scontati i doni della valle. “Eh, - disse quello stesso che aveva maledetto il Mago – se potessimo tornare indietro! Avremmo potuto essere felici e non ce ne rendevamo conto. Avevamo tutto e l’abbiamo disprezzato, adesso scontiamo il nostro peccato di superbia.  Chi mai ci aiuterà?” E mentre lo diceva si asciugava le lacrime, pieno di rimorsi. Il Mago sentì i lamenti e vide il dolore, ma era troppo offeso per darvi peso, anzi sentiva di aver dato la giusta lezione a quella popolazione così priva di riconoscenza. Anche il Re partecipava del dramma e penava nel constare come la valle incantata, improvvisamente si fosse trasformata in una terra desolata. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per porre fine a quella disgrazia, ma in realtà non poteva niente. L’unico che aveva il potere di aiutare la popolazione era il Mago e da lui si recò il Re tutto vestito di nero e senza la corona. Bussò alla porta della caverna del Mago, ma non gli fu aperto. Tornò il giorno dopo, ma ancora l’uscio rimase chiuso. Così andò avanti ogni giorno di ogni mese per nove mesi consecutivi: il Re chiedeva udienza e il Mago faceva finta di non sentirlo. Finché, finalmente, il padrone della valle non si impietosì vedendo quel vecchio, ormai stanco, non rassegnarsi alla sorte dei suoi sudditi e lo fece entrare. “Cosa vuoi?” chiese il Mago. “Pietà, grande Mago. Pietà per il mio popolo che patisce e muore.” Il Mago vide il volto del Re provato dalla fatica e con gli occhi pieni di lacrime e si sentì toccare nell’anima. Capì come quell’unico uomo buono fosse sufficiente per salvare tutti gli altri e come non fosse giusto che la malvagità di alcuni causasse la sofferenza di chi non lo meritava. Decise quindi che la punizione era durata abbastanza, sperando che i valligiani avessero capito la lezione. Con un incantesimo tramutò la zanzara in granelli di polvere che il vento disperse e la valle fu liberata immediatamente dal terribile contagio. Il Re tornò fra i suoi sudditi che già cominciavano a guarire ed a ritrovare il sorriso. Da quel giorno i paesani ricominciarono a godere del profumo dei fiori, della dolcezza dell’aria e della bellezza del paesaggio. Nessuno si lamentò più e vissero tutti felici e contenti. Il Re dette un grande banchetto per festeggiare la fine dell’epidemia. Ci furono canti, balli e tanto amore.

Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia.

No, non è vero. I paesani, dopo un primo periodo di sollievo, ricominciarono la vita di sempre. Non appresero niente da quella lezione di vita e tornarono litigiosi, gretti ed ingrati, com’è nella natura umana. Ripresero a farsi la guerra per i motivi più stupidi mentre il mondo moriva di egoismo. La zanzara dissolta nel vento si chiamava Covid e forse aveva qualche parente.

Stretta la foglia, larga la via, c’è poco da dire, e così sia.

sabato 29 agosto 2020

La Felicità

 

Mentre un vento teso scacciava la brezza serale, il nostro protagonista si ritrovò a filosofeggiare. Con modestia, ovviamente, conscio dei propri limiti, ma deciso a perdersi tra questioni fondamentali e domande senza risposta. La felicità, innanzitutto. Margaret Mazzantini dice che può essere solo oggetto di nostalgia o di desiderio in quanto, vivendola, non la si riconosce. Vero, ma esiste la felicità? Se non la si riesce a cogliere forse è solo una categoria dello spirito che si teorizza, ma che sfugge e quindi non ci appartiene. Oppure va cercata con attenzione tra le piccole cose d’ogni giorno? La felicità va in qualche modo ridimensionata. Non è un’ebbrezza trascinante, ma il sapore di una goccia di nettare sulla punta della lingua. Va cercata con attenzione, scansando le tonnellate di roccia per trovare la pagliuzza d’oro nella profondità di una montagna. E’ un boccone da gourmet non un pasto che sazia, e forse è meglio così, altrimenti si darebbe per scontata. E’ una moneta trovata per terra che non risolve alcun problema economico, ma dà la sensazione di essere favoriti dal destino. E’ un frullio del cuore che accade incrociando lo sguardo di una persona amata, il momento di breve trance innescato da una musica o da un odore. Non la si deve cercare, capita. Spesso inaspettatamente, durante una passeggiata o alla guida della propria autovettura, improvvisamente si ha la sensazione di essere fortunati, forse di non essere nemmeno se stessi. Che tutto il gravame di pena di cui è fatta l’esistenza perda d’importanza a fronte di una scintilla che potrebbe innescare un incendio, anche se le fiamme non si vedranno mai. Si è consci che è tutto estremamente effimero, quasi illusorio, ma forse è la sola spinta che consente di fare un altro passo avanti, senza disperarsi.  Felicità con amore, sono sinonimi? O sono esattamente il contrario dove l’amore significa perdersi in un altro prendendo in carico due esistenze col rischio di sommarne i dolori? Forse le cose sono un tantinello più complicate se è vero che una pena può sublimarsi condividendola e una banalità nascondere un sogno. Tutto è come sabbia tra le dita, ma per prendere quel pugno di rena bisogna trovarsi in riva al mare, e lì è in agguato la felicità.

giovedì 16 luglio 2020

Il palloncino


In una parte della terrazza che dal Pincio si affaccia sul centro di Roma, capita spesso di incontrare un vecchietto seduto su uno sgabello, nascosto dietro un grosso cespuglio di palloncini colorati. Arriva tutte le mattine, almeno quando non piove, apre il trespolo pieghevole e posa in terra una grossa cesta di vimini come quelle che i contadini di una volta costruivano in casa durante le sere d’inverno. Si aggiusta sul capo un consunto cappello di feltro nero, tira su col naso e tuffa le mani nel paniere. Ad uno ad uno caccia fuori dei vermicelli colorati, se ne mette in bocca un’estremità e, come un suonatore di tromba, abbotta le gote soffiando con vigore. I pezzetti di plastica prendono vita, si scuotono, si riempiono e d’incanto diventano dei salamoni variopinti. Lui li prende, li strozza e li contorce con dita agili seguendo una tecnica ben precisa imparata a forza di provare. Nascono così un pesce, una spada, una corona e qualsiasi altra cosa gli passi per la mente. Ma la magia non finisce qui: dalla sporta recupera una bomboletta e con un breve “fuscccccc” trasforma altri vermicelli piatti in tondi palloncini. Subito spiccano il volo facce da clown di tutti i colori che scapperebbero seguendo i capricci del vento se non ci fosse una bianca cordicella a trattenerli legati al manico della cesta. Sbattono tra loro, si piegano e stormiscono come le fronde di un favoloso albero carico di frutti volanti, mentre dall’alto guardano quell’angolo di serenità ritagliato nel caos cittadino.

Gigina tirò forte la gonna della madre.
-Lo voglio, me lo compri? – Si beccò subito un’occhiataccia.
-Lo sai, non devi dire “voglio” e chiedere per favore. Quante volte te lo devo ripetere?
-Lo voglio, lo voglio, lo voglio…
-Ok, ok! Stai buona. – L’educazione per una mamma stressata è sempre un compromesso tra i giusti insegnamenti e la pazienza residua. Gli occhi della bambina brillavano di desiderio non sapendo dove soffermarsi tra quei fantastici pupazzi fatti di aria. Gigina si avvicinò al vecchietto con il suo solito sorriso contagioso che avrebbe aperto il cuore anche al più burbero dei misantropi.
-Cosa ti posso dare, signorina? – le chiese il venditore che, seduto e rimpicciolito dal tempo, arrivava giusto giusto a guardarsi negli occhi con la piccola. Quella era una domanda impegnativa. Lei avrebbe preso tutto, ma sapeva che qualsiasi capriccio deve avere un limite, altrimenti ottiene l’effetto contrario.
-Vorrei… un barboncino rosa!
-Pronti. – disse l’ometto e in men che non si dica “Fuuut, sgrinc, tong, sgroink!” ecco nascere dall’incrocio di due palloncini oblunghi un barboncino rosa con il musetto, le orecchie e la coda a batuffolo al posto giusto. Poi lo porse alla bambina e lei lo prese stringendolo al petto come se fosse un animaletto vero. Gigina rimase un momento pensierosa quindi guardò la mamma, da sotto in su.
-Però… - se ne uscì.
-Però, cosa? Non ti piace? – chiese la madre.
-Si, si, ma voglio anche un palloncino che vola.
-Ti ho già detto…
-Scusa, scusa. Vorrei, per favore, un palloncino che vola. – Gigina accompagnò la richiesta con un sorriso irresistibile al quale non si poteva dire di no.
-Va bene, – le rispose la mamma aggiungendo con aria falsamente severa: - ma poi per oggi basta. In più mi devi promettere di fare la brava, lavarti bene i denti e mettere a posto la tua cameretta. – Giusto per far valere una parvenza di autorità. La bambina annuì più volte muovendo la testa mentre le treccine ai lati del capo svolazzarono come le code di piccoli pony imbizzarriti. Autorizzato dalla mamma, il venditore si avvicinò alla cesta, afferrò il mazzetto di fili bianchi e ne sbrogliò uno. Tirando delicatamente, fece uscire dal gruppo dei compagni un bel faccione da pagliaccio tutto giallo col naso rosso che immediatamente prese vita ballonzolando felice e leggero.
-Dammi la mano – disse il vecchietto alla bambina che, timidamente, allungò il braccio. Lui legò il filo al polso grassottello e poi lo lasciò andare. Gigina, con stretto al petto il barboncino e sopra di lei il palloncino, non seppe trattenere la felicità e cominciò a correre tutt’intorno al piazzale del Pincio accompagnata dallo sguardo divertito della mamma. Ma forse il laccio era annodato male ed il palloncino improvvisamente scappò via volando sempre più in alto nel cielo. Gigina scoppiò in un pianto dirotto:
-Dov’è andato a finire il mio palloncino? – Singhiozzava disperata. La mamma, intenerita, la prese in braccio e s’inventò una storia come solo le mamme, e qualche volta i nonni, sanno fare.
-Vedi, Gigina, quelle nuvolette lassù? Lì sono nascosti degli angioletti che ti hanno visto col palloncino e avrebbero tanto voluto giocare con te. Però non possono scendere sulla Terra, altrimenti li vedrebbero tutti, ed allora aspettano che un palloncino sfugga ad un bambino per volare fino a loro, prenderlo e divertirsi.
-Ma…io?
-Tu devi essere contenta perché hai reso felice un angioletto che, da adesso in poi, sarà il tuo amico invisibile e ti proteggerà per tutta la vita.
Gigina considerò come valesse la pena perdere un palloncino per trovare un amico e, asciugandosi un lacrimone con la manina, ritrovò il sorriso. 



sabato 30 maggio 2020

Uno scherzo


-Quando ne saremo fuori, ti staccherò le orecchie a morsi.
-Chi? Tu a me? Sarò io a farti pentire di essere nato!
Lo scambio di gentilezze avveniva tra due uomini seduti su una specie di terrazzino aggettante nel vuoto, un masso incastrato di traverso nel mezzo di un muro di roccia a strapiombo sul nulla. Sopra di loro una parete pressoché liscia sulla quale era impossibile arrampicarsi e sotto un volo di un centinaio di metri. Per capire il motivo per il quale erano finiti in quella situazione bisogna risalire ad una cinquantina d’anni addietro. Era dalla generazione precedente che le loro famiglie si facevano la guerra disputandosi un appezzamento di terreno al confine tra le rispettive proprietà. Si trattava di un paio d’ettari di campi brulli ed orridi improvvisi senza alcun reale valore. Però, per qualche imponderabile motivo, il barone De Ceglie, padre di uno dei due litiganti, era deciso ad acquisirne il possesso con la stessa determinata e pervicace volontà con la quale il marchese Castrovillari, padre dell’altro, era risoluto a non vendere. La disputa andò avanti per qualche anno finché, improvvisamente, il marchese non cedette firmando dal Notaio del paese un passaggio di proprietà accompagnato da minacce e maledizioni. Fra i compaesani si disse che il repentino cambiamento di idea era stato provocato dal ricatto del barone che era venuto in possesso di alcune foto nelle quali…ma qui si scivola nel pettegolezzo. Il Castrovillari ingoiò l’umiliazione, ma dette inizio ad una faida fatta di vandalismi notturni, caccia di frodo e ripicche che traevano spunto da qualsiasi pretesto anche banale. Non fosse mai detto che un De Ceglie subisse delle angherie! E pertanto il barone rendeva ogni volta la pariglia con altrettante azioni ostili, anzi si divertiva a provocare l’ira dell’altro. I due vecchi biliosi morirono ed il testimone della disfida passò ai primogeniti altrettanto boriosi e fumantini dei propri avi.
Quella notte di prima estate il De Ceglie era convinto che il rivale avrebbe fatto un’incursione nella terra di sua proprietà per recuperare della selvaggina intrappolata nel campo proibito. Il mezzadro del barone aveva infatti trovato delle tagliole con resti di animali dove non avrebbero dovuto essercene e, naturalmente, il colpevole doveva essere per forza il Castrovillari o qualche suo scagnozzo. La sera era fresca, la luna si levava alta nel cielo sereno e la campagna appariva come una distesa d’erba argentata che il vento piegava come le onde di un mare agitato. Di buon passo il barone s’incamminò verso la Collina del Diavolo, un montarozzo alto una sessantina di metri con un lato a precipizio su di una gola profonda. Un sentiero s’inerpicava di costa al rilievo fino alla sommità dove il barone intendeva spaziare con lo sguardo per individuare il maledetto intruso. Arrivò sul cucuzzolo, prese un binocolo notturno e cominciò a scrutare attentamente tutt’intorno. Si sentivano solo i rumori della notte ed ogni cosa invitava alla serenità, ma non per l’animo esacerbato del nobiluomo. Improvvisamente, vicino a lui, sentì un movimento di fogliame. Si voltò di scatto e si trovò di fronte il rivale che lo fissava con un ghigno ferino.    
-T’ho beccato, finalmente! – Esclamò il De Ceglie sollevando la doppietta che teneva distesa lungo il fianco. A quel gesto, per impedirgli di usare il fucile, il Castrovillari si gettò addosso all’altro tempestandolo di pugni e urlando come un ossesso. Il barone, furibondo, abbrancò il nemico tirando manate, colpi di testa e calci a casaccio. Sembravano due animali rabbiosi. Caddero a terra abbracciati ed ansimanti continuando la lotta con una furia cieca, come se ne andasse della loro stessa vita. Rotolarono da una parte all’altra del piccolo spiazzo finché non si trovarono sul ciglio del burrone, ma non se ne avvidero. Uno strattone più violento provocò una piccola slavina ed i due corpi avvinghiati scivolarono giù per i pendio. Allora si resero conto di quanto stava succedendo e con tutte le forze cercano di aggrapparsi alla parete, ma gli appigli franavano con loro e niente sembrava poter frenare la caduta fatale. Precipitarono per una ventina di metri e poi fu come se una mano angelica li acchiappasse per la collottola. Il ruzzolone s’interruppe di colpo e i due uomini finirono bocconi su uno strapuntino di roccia messo lì per miracolo. Ed è in questa situazione che li ritroviamo. 
-E’ colpa tua se rischiamo di morire!
-Non ti dimostrare più vile di quello che sei e ringrazia la buona sorte. I miei sanno che sarei capitato da queste parti e, non vedendomi, verranno a cercarmi. Non ti preoccupare, dobbiamo solo aspettare. – Il De Ceglie sembrava abbastanza calmo, ma lo spavento era stato tanto anche per lui.
-Sai, - disse il marchese – vedendoti così da vicino mi accorgo adesso di quanto sei invecchiato.
-Caro mio, - gli rispose l’altro – abbiamo la stessa età e possiamo dire di essere diventati vecchi insieme. Anzi, adesso che ti guardo in faccia, mi viene quasi da ridere.
-Perché mai?
-Penso che per tanto tempo abbiamo combattuto, fino al limite di giocarci la vita, per un motivo del quale in fondo non importa quasi niente a nessuno. Non è forse così?
- Hai assolutamente ragione. Abbiamo perso anni ed energie odiandoci mentre avremmo potuto campare in santa pace e molto più sereni. Ti dirò di più: per quanto mi riguarda la nostra disputa finisce qui. Tieniti pure la terra, ho capito che non vale la pena dannarsi per orgoglio. – Il barone allungò la mano e strinse quella che il nuovo amico gli porgeva.
-Da oggi in poi saremo dei buoni vicini. Questo spavento ci ha insegnato a dare importanza alle cose rilevanti ed a passare oltre alle stupide vanità di un’esistenza sempre precaria. – Il marchese assentì con le lacrime agli occhi e avrebbe abbracciato il compagno se solo lo spazio esiguo gliel’avesse permesso. Finalmente la pace era tornata tra le due casate ed il futuro sarebbe stato sicuramente migliore.
D’un tratto si udì uno schiocco e poi una cascatella di pietrisco. Il piccolo terrazzino sul quale erano seduti gli uomini cominciò a traballare. Un altro rumore di pietra spezzata e il masso si sgretolò facendo precipitare i due in fondo al dirupo in un fragore di urla e di valanga.
I paesani li ritrovarono morti e misero sul posto una lapide nella quale si commemorano i due rivali sfortunati. Però nessuno va mai a porre un fiore sotto quella targa perché, quando ci si avvicina, dalle viscere della Collina del Diavolo si ode scaturire un suono cupo che assomiglia tanto ad una risata.



giovedì 19 marzo 2020

La nostra guerra

E così, anche la nostra generazione sta vivendo la sua guerra. Pensavamo, forse per la prima volta nella storia, di averla scampata, ma evidentemente è una punizione che spetta a tutti. Il problema è che non ne siamo preparati. L’attuale conflitto ha connotazioni esattamente opposte a quello delle altre guerre e dobbiamo combatterlo come mai in precedenza. Nelle guerre tradizionali sai chi è, vedi, il tuo nemico; adesso bisogna snidare un subdolo microorganismo invisibile ed onnipresente. Prima le vittime erano soprattutto i giovani ed i più forti, ora sono i vecchi ed i più deboli. C’era un fronte o quantomeno dei confini per le parti avverse; non ci sono più barriere che tengano per questo schifoso che s’insinua addirittura nelle nostre case. Le armi facevano rumore ed erano di pesante ferraglia; adesso si combatte in silenzio, con l’assenza, astenendosi dall’uscire, non facendo, rimanendo fermi. Sotto le bombe ci si riparava nei rifugi sotterranei; ora si esce sulle terrazze. Per consolarsi dalla paura si stava insieme, le famiglie si riunivano per sostenersi a vicenda e sotto il coprifuoco i bar erano pieni di amici che si sbronzavano esorcizzando la paura con una finta allegria; adesso si tengono lontani i propri cari per timore di essere fonte involontaria di contagio e si sta soli, in attesa. Si soffriva la fame; ci si abboffa. I medici stavano nelle retrovie per curare i feriti; i medici sono in prima linea e spesso sono loro gli eroi ed i caduti. Il bollettino di guerra parlava di morti e feriti tra i soldati; la Protezione Civile dà numeri che rappresentano persone qualunque, spesso innocue e miti come i vecchi. Le città erano bombardate dopo la sirena; le città si svuotano da sole impaurite dal silenzio. Il governo prometteva lacrime, sangue e la vittoria; i governi sbandano ed emettono provvedimenti giorno per giorno a seconda dell’umore del nemico. Gli scienziati studiavano armi per attaccare; ora lavorano per trovare un’arma che ci difenda. Si aspettava la fine della guerra per tornare alla normalità; c’è meno speranza nel futuro. Churchill, De Gasperi, Roosevelt; Boris Johnson, Conte, Trump.
Però, dopo le guerre, c’è sempre stata una rinascita. I sopravvissuti erano felici di essersela cavata e si rimboccarono le maniche per ricostruire, per assicurarsi un futuro migliore. Dopo l’ultimo conflitto mondiale l’Italia era in ginocchio, a distanza di poco più di un decennio la lira guadagnò l’Oscar per la valuta più forte del mondo. Le fabbriche erano al massimo della produzione, l’eccellenza italiana era riconosciuta ovunque e Roma celebrò le più belle Olimpiadi dell’era moderna.
Le condizioni per ripartire sono una massiccia dose di investimenti sia pubblici che privati e la libertà d’impresa. Nel quarantacinque ci fu per l’Italia il Piano Marshall, ora ci dovrebbe essere la BCE, e qui c’è un punto interrogativo grande come la nostra diffidenza. Ma se le istituzioni nazionali ed internazionali adotteranno la strategia del “whatever it takes”, ce la potremo fare.
Lo scorso anno a marzo faceva freddo; quest’anno sembra già primavera, prendiamolo come un incoraggiamento.

domenica 2 febbraio 2020

La Società



Un posto vale l’altro, ma le coincidenze vanno rispettate. Una pergola in riva al mare e per primo arrivò il notaio. Prese posto su una poltroncina, posò la borsa di cuoio per terra e chiuse gli occhi. Dopo poco giunse il vaccaro, con il suo bel cappellone a larghe tese, e per ultimo il poeta. Non si salutarono, non ce n’era bisogno, si conoscevano da talmente tanto tempo che i convenevoli erano ormai superflui. Si sedettero uno vicino all’altro, tutti guardando l’orizzonte con poca voglia di parlare e quasi infastiditi dal trovarsi in compagnia di persone tanto di diverse una dall’altra. Metti un po’ di musica, disse uno, ed un altro vicino all’ i-phone cercò un blues. Cosa fai? Disse il terzo, qui ci vuole un brano di Tchaikovsky ad accompagnare la promessa del tramonto. No, no, musica pop anni settanta, semplice e onesta che faccia parte del nostro passato, per perderci nei ricordi e rivivere le emozioni delle prime volte. Era normale che non fossero d’accordo praticamente su niente e se non fosse stato per quell’appuntamento, le loro strade non si sarebbero mai incrociate. Un whisky? Per me un buon bicchiere di vino. Una tisana, se non vi dispiace. Quasi non si guardavano e si capiva perfettamente come ognuno di loro avrebbe voluto trovarsi altrove o in compagnia di qualcun altro. Ma facevano parte della stessa società, erano in quote uguali compartecipi di un azienda che era attiva sul mercato ormai da molto tempo e che dovevano contribuire a portare avanti e quindi, periodicamente, si dovevano riunire. In realtà erano sempre collegati perché ogni decisione, qualsiasi comportamento, erano frutto di un compromesso tra di loro oppure di un atteggiamento che favoriva, a turno, prima uno e poi l’altro. Naturalmente, a seconda dei momenti o delle necessità, prevalevano le indicazioni di un socio a discapito del sodale e questa continua guerra per la supremazia sembrava non avesse mai né la fine né un vincitore. A volte la “company” si poneva l’obiettivo di espandersi negli Stati Uniti, di rimbalzo tornava a concentrarsi sul lavoro quotidiano per poi programmare progetti tanto belli quanto improbabili. Questa confusione spesso non produceva i risultati previsti, ma era proprio la varietà di stimoli che rendeva l’attività ancora interessante e viva. Quel giorno, in riva al mare, dovevano decidere chi sarebbe stato l’Amministratore Unico, con le relative responsabilità decisionali e di gestione. Nominarono me, e non mi meravigliò che fossi chiamato a guidare tre personalità così differenti. Lo facevo da molti anni e sebbene fossi consapevole di indulgere talvolta con uno dei soci, ero ormai abbastanza pratico nell’armonizzare le varie inclinazioni e le diverse aspettative. Eccomi, quindi, con quelle tre anime, e forse non solo quelle, che vado avanti affrontando problemi e sfide come meglio posso. La facciata è sempre la medesima, ma dietro l’apparenza, come per qualsiasi persona, c’è una folla di altri me stesso, e spesso non è facile farli andare d'accordo.

lunedì 27 gennaio 2020

La biblioteca


Veniva naturale entrare in punta di piedi. Una biblioteca non era il posto che frequentava di solito, ma l’appuntamento era proprio lì, tra pareti di libri e file di banchi quasi vuoti. Il suo bel pezzo di carta, dopo anni di studi, era riuscito a conseguirlo e qualche romanzo spesso transitava sul suo comodino, ma quell’aria di sacralità legata a una cultura non alla portata di tutti, lo metteva a disagio. Si sentiva osservato dagli autori dei quei tomi voluminosi con una sorta di disprezzo, quasi fosse un intruso in un club di intellettuali avvezzi a secoli di sapienti dispute sullo scibile umano e sulla natura stessa del pessimo frutto dell’opera artigianale di un Dio in quel momento non al massimo della Sua creatività. Un bar, un cinema, al limite un museo, quasi tutto sarebbe stato meglio per quel primo appuntamento, ma le occasioni vanno colte al volo e quella proposta appena sussurrata era preziosa come la mappa di un tesoro. In fondo era esattamente quello che stava facendo, seguiva le istruzioni di un percorso che sperava l’avrebbero portato ad uno scrigno pieno di mistero o all’anticamera del paradiso. Era in perfetto orario, le tre del pomeriggio, ma nello stanzone dagli scuri accostati la luce filtrava a malapena. La calda estate rimaneva fuori mentre un nobile fresco, frutto di profonde pareti e non di condizionatori d’aria, dichiarava la volgarità di ogni involontaria stilla di sudore. Si aggiustò la cravatta, si passò le dita tra i capelli e si avviò verso il piccolo pulpito in fondo alla stanza. Le scarpe scricchiolavano ad ogni passo col rumore di una sega elettrica in una cattedrale, ma non poteva farci niente, ed incurante di qualche sguardo infastidito, percorse quei pochi metri con la spavalderia di un pirata all’arrembaggio. Si sentiva in un guado, durante la traversata di un mare ignoto con l’eccitazione e la paura a mordere il coraggio. Lasciava alle spalle notti solitarie e sogni evanescenti che, come la nebbia del mattino, svanivano sempre col calore del primo sole. Lo spingeva la voglia di un’emozione, la smania di provare un desiderio, un fuoco che ardeva suo malgrado. Sapeva di rischiare, ma era proprio quel brivido, tra l’incoscienza e la temerarietà, che lo faceva sentire vivo. Un passo ancora e poi, senza parlare, posò la mano sulla sua scrivania. Lei alzò gli occhi dal libro e lo guardò come se non lo riconoscesse.
Eccomi, le disse, mentre la bibliotecaria usciva dalla sua pelle rinnegando gli occhiali e la matita.