domenica 4 agosto 2019

Un fiore


     

Mi piacerebbe che sul nostro pianerottolo ci fosse un banchetto di fiori. Fisso, ventiquattr’ore al giorno, con un omino gentile che non si stancasse mai di aspettare o, se dovesse assentarsi, si alternasse con un altro ugualmente presente. Dovrebbe essere fornito di fresie in primavera e grandi peonie, di quelle sfumate sul colore del rosa e con l’aspetto un po’ decadente, verso maggio. Mazzi di lavanda nel mese di luglio, ciclamini all’inizio dell’inverno e rose tutto l’anno. Sotto Natale non dovrebbe rifornirsi di quelle piante rosse abbastanza banali, ma creare composizioni di agrifoglio e bacche con rami di abete e stecche di cannella per spargere intorno l’odore delle Feste. E’ chiaro che, visto lo spazio disponibile, non mi aspetterei di trovare una vasta scelta, ma sarebbe sufficiente che, come nei migliori negozi di alimentari, offrisse sempre delle primizie o delle ricercatezze selezionate fra le migliori sul mercato in quel momento. L’ometto dovrebbe anche essere una persona di gusto e con un certo senso estetico. Anche la presentazione è importante ed a lui spetterebbe l’abbinamento nei colori della carta crespa con i nastri e dei fiori tra loro, senza mai abbondare nella nebbiolina che spesso svilisce la composizione. Non gli si potrebbero chiedere bigliettini spiritosi o romantici, i fiorai non li hanno mai, ma ci si farebbe bastare uno di quelli bianchi anonimi sul quale scrivere un pensiero o magari, oggi si usa, un piccolo disegno. Insomma, tutto molto curato e disponibile. Già, ma l’obiezione del venditore di fiori sarebbe inevitabile ed ovvia. Non c’è abbastanza passaggio sul pianerottolo, direbbe. Ed avrebbe ragione, al nostro piano ci sono solo due appartamenti e il mio dirimpettaio ha una bella terrazza con molte piante e non credo sarebbe un gran cliente. Però, caro fioraio, io le vorrei spesso regalare un fiore quando di notte la guardo dormire, e poi quando torno a casa le vorrei dare un fiore che parli per me. Ancora un fiore quando, come adesso, scrivo e penso a lei, ed un altro da lasciare sul tavolo in cucina per accompagnare la colazione. Un fiore per ogni parola non detta, un fiore per ogni pensiero tenuto per me, un fiore per ogni volta che la rivedo, un fiore per quando mi sta vicino. Ancora fiori che dicano: grazie, che dicano: il tempo non esiste, che dicano: sono qui. E poi fiori per festeggiare una ricorrenza o solo un altro giorno vissuto insieme, per rallegrare la casa o per vederla sorridere. Fiori da lasciare in un piccolo vaso di vetro sul lavandino, da infilare tra le pagine della sua agenda fitta di impegni, sulla scrivania dove lavora. Un altro fiore, solo uno, per non finire mai di darle un fiore.


Come vedi, caro fioraio, sul mio pianerottolo la clientela sarebbe sicuramente poco numerosa, ma se il tuo mestiere è anche spargere un po’ di amore, qui avresti da lavorare




venerdì 2 agosto 2019

Vito


-Se volete vi racconto cosa è successo ad un conoscente di mia cugina mentre viaggiava in treno – Gibbo dalla sua postazione al tavolo del bar, con la solita cerchia di amici a fargli da corona, si propose per l’ennesima storiella al confine tra realtà ed immaginazione. In quel tardo pomeriggio di metà luglio, il sole aveva appena sfiammato e si era alzato un refolo di tramontana portando una parvenza di refrigerio, come un ruscello d’acqua fresca per bocche assetate. Nessuno aveva voglia di andare a casa per ricominciare a sudare di fronte al solito Piero Angela o all’ennesima replica di un Montalbano ormai usurato dai troppi passaggi televisivi, quindi un caffè lungo in tazza grande si fece portavoce degli altri:
-Vai avanti, ti ascoltiamo.
-Bene. – Fu l’incipit. – Questo tale di cui non ricordo il nome, per comodità lo chiameremo Pierermengardo, doveva recarsi da Napoli a Venezia. Aveva fretta, non poteva rimandare il viaggio e così prenotò l’ultimo posto disponibile su una carrozza del Freccia Rossa. Gli assegnarono una poltrona libera in una specie di scompartimento vecchia maniera allestito per passeggeri che tengono alla loro privacy. A lui, ovviamente, non dispiacque, immaginando di trovare come compagni di viaggio uomini d’affari o persone in cerca di riservatezza e raccoglimento.
-Vabbè, ma pagava di più. – Interloquì un bicchiere d’acqua del rubinetto noto per il suo braccino corto.
-Non gli interessava, andiamo avanti. – Gibbo non si fece distrarre. – Dove ero rimasto … Insomma, salì sul treno e prese il suo posto, ma si accorse subito che non sarebbe stato un viaggio facile. Infatti, invece dei supposti colleghi di percorso, le altre tre poltrone del piccolo privé erano occupate da una giovane signora con due ragazzini di sei, otto anni e un altro bimbetto di circa tre sulle sue ginocchia. Sembravano tranquilli, mezzo addormentati, ma non appena il locomotore si mosse fu come se avessero sentito lo sparo di uno starter, si riscossero tutti insieme cominciando ad urlare, frignare e farsi dispetti.
-Ahi, ahi, ahi. – Chiosò un succo di frutta con un po’ di granita.
-Fu esattamente quello che pensò Pierermengardo. Vabbè, chiamiamolo Vito. Si spaventò moltissimo, ma la madre, la zia o la governante dei fanciullini, non sappiamo, lanciandogli un’occhiata di scusa, cercò di attirare l’attenzione dei piccoli: “Bambini, state buoni. Venite qui vicino che vi racconto una storia.” Il più grande, quello di otto anni, che per comodità chiameremo Gianabbondanzio, no: meglio Ugo, tirò la veste della bambina di sei, denominiamola …  Mariaddolorata, no: Eva, facendole l’occhietto in segno di intesa. Il piccolo di tre con la faccia decisamente di un Pio, al momento si era estraniato perso in profonde riflessioni probabilmente ispirate dalla forma di un bottone della sua giacchetta che continuava a rigirare tra le dita osservandolo attentamente.
-Veniamo al dunque! – Esortò uno Strega doppio con scorzetta. Era stato un militare di carriera e tante digressioni contrariavano il suo senso pratico.
-La donna cominciò a raccontare, ma partì subito male. Descrisse una bimbetta che andava per i boschi a raccogliere fiorellini e così via. I bambini di favolette simili ne avevano sentite a centinaia pertanto, dopo poche parole, ricominciarono a urlare tra di loro ed a giocare ad acchiapparella saltando sui sedili. Vito era sicuro di non poter sopportare tante ore di viaggio in mezzo a quella canizza, ed allora si rivolse alla signora: “Mi scusi se m’intrometto, ma lei non è proprio capace di narrare delle storie. Per forza i bambini non la stanno a sentire.” “Ma come si permette?” Gli rispose piccata. “Se è tanto bravo, ci provi lei!” L’uomo raccolse la sfida. Batté le mani forte per sovrastare la cagnara e, ottenuto un attimo di tregua, s’inserì con un nuovo racconto. “Allora, bambini: c’era una volta una fanciulla molto, ma molto, ma molto buona.” Ugo e Eva si scambiarono uno sguardo che parlava di scetticismo se non di derisione, ma concedendo credito all’estraneo perché, saggiamente, non si sa mai, lo fecero continuare. “Era tanto buona che la fama della sua bontà giunse al Principe di quel Paese.” Partì dal maschietto il primo: “Perché?” “Perché, cosa?” rispose Vito, ma Ugo tenne il punto: “Perché?” L’uomo comprese la pericolosità di addentrarsi in spiegazioni che, come in una perversa spirale, gli avrebbero fatto smarrire la trama del racconto a scapito del pathos della sua creazione fantastica. Replicò nell’unica maniera adatta in questi casi con un perentorio: “Perché sì” che definì la questione.
-Vabbè, in effetti non mi sembra una grande storia. – Disse, scettico, un chinotto subito confutato da un crodino con patatine e noccioline: - Aspetta, ha appena iniziato. Dagli tregua, subito a sparare sentenze!
-Vabbè, vabbè, però il chinotto è caldo!
- Posso andare avanti? – Chiese Gibbo pleonasticamente, e subito riprese: - Vito continuò nella sua favola: “Il Principe volle premiare la bambina e le concesse un privilegio che a nessun altro suddito era mai stato accordato. Dapprima, durante una solenne cerimonia, le appunto sul petto tre medaglie d’oro, per la bontà, l’altruismo e la puntualità, poi le permise di entrare nel suo meraviglioso giardino privato. Fra i sudditi si narrava che fosse ricco di tutte le specie di piante che esistevano al mondo, di fiori tra i più profumati e di almeno una coppia per ogni animale, anche i più esotici.” “Perché?” Ancora Ugo, ma questa volta fu ignorato. “In un bel pomeriggio di primavera la bambina, da sola, varcò i cancelli del giardino. Rimase subito incantata dai colori, dai profumi e dal canto di mille specie di uccelli che volavano tra gli alberi. Iridescenti colibrì suggevano da fiore in fiore, luccicanti pesci nei laghetti mostravano le loro argentee livree e scoiattolini curiosi s’intrufolavano tra le gambe della bimba. Lei era felice. Vide una giraffa, un elefante e un ippopotamo, ma se ne tenne alla larga. Improvvisamente sentì un ruggito provenire da poco distante. Si spaventò moltissimo e, pensando al peggio, si guardò intorno in cerca di un riparo.” Vito aveva vinto. I bambini stavano in silenzio, con la bocca spalancata in attesa che proseguisse. Pio aveva abbandonato il bottone per passare all’analisi del frutto del suo naso estratto con la punta del dito. “La bambina vide un cespuglio di mirto e vi si buttò dentro sperando che, con il forte odore dei suoi fiori, ne avrebbe nascosto le tracce salvandola dal leone. La bestia si avvicinò alla pianta rovistando un po’ con le grosse zampe, ma sembrava confusa, come se avesse perso il profumo della carne fresca. Sollevò il muso all’aria e stava per andarsene quando un involontario movimento della bambina fece tintinnare le medaglie appuntate sul suo petto. Il leone si voltò, la vide e si avventò su di lei. Dopo, della bambina furono ritrovate solo le scarpette, pochi brandelli del vestitino insanguinato e le medaglie.” Non era il finale che si aspettavano i piccoli. “Vedete, cari.” Concluse Vito tirando la morale. “Non sempre conviene essere buoni e quello che sembra un premio a volte può rivelarsi la peggiore delle punizioni. Meditate, cari, meditate” Sentito questo, la madre prese i figli e strattonandoli li fece uscire in tutta fretta dallo scompartimento, lontani da quel tipo pericoloso. In fondo era quello che voleva Vito. L’uomo prese un giornale e si stese per tutta la lunghezza del sedile. Fu un viaggio comodissimo.  

Era ora di andare, le mogli aspettavano a casa e Montalbano si poteva vedere ancora una volta.