-Se volete
vi racconto cosa è successo ad un conoscente di mia cugina mentre viaggiava in
treno – Gibbo dalla sua postazione al tavolo del bar, con la solita cerchia di
amici a fargli da corona, si propose per l’ennesima storiella al confine tra
realtà ed immaginazione. In quel tardo pomeriggio di metà luglio, il sole aveva
appena sfiammato e si era alzato un refolo di tramontana portando una parvenza
di refrigerio, come un ruscello d’acqua fresca per bocche assetate. Nessuno
aveva voglia di andare a casa per ricominciare a sudare di fronte al solito
Piero Angela o all’ennesima replica di un Montalbano ormai usurato dai troppi
passaggi televisivi, quindi un caffè lungo in tazza grande si fece portavoce
degli altri:
-Vai avanti,
ti ascoltiamo.
-Bene. – Fu
l’incipit. – Questo tale di cui non ricordo il nome, per comodità lo chiameremo
Pierermengardo, doveva recarsi da Napoli a Venezia. Aveva fretta, non poteva
rimandare il viaggio e così prenotò l’ultimo posto disponibile su una carrozza
del Freccia Rossa. Gli assegnarono una poltrona libera in una specie di
scompartimento vecchia maniera allestito per passeggeri che tengono alla loro
privacy. A lui, ovviamente, non dispiacque, immaginando di trovare come
compagni di viaggio uomini d’affari o persone in cerca di riservatezza e raccoglimento.
-Vabbè, ma
pagava di più. – Interloquì un bicchiere d’acqua del rubinetto noto per il suo
braccino corto.
-Non gli
interessava, andiamo avanti. – Gibbo non si fece distrarre. – Dove ero rimasto
… Insomma, salì sul treno e prese il suo posto, ma si accorse subito che non
sarebbe stato un viaggio facile. Infatti, invece dei supposti colleghi di
percorso, le altre tre poltrone del piccolo privé erano occupate da una giovane
signora con due ragazzini di sei, otto anni e un altro bimbetto di circa tre
sulle sue ginocchia. Sembravano tranquilli, mezzo addormentati, ma non appena
il locomotore si mosse fu come se avessero sentito lo sparo di uno starter, si
riscossero tutti insieme cominciando ad urlare, frignare e farsi dispetti.
-Ahi, ahi,
ahi. – Chiosò un succo di frutta con un po’ di granita.
-Fu
esattamente quello che pensò Pierermengardo. Vabbè, chiamiamolo Vito. Si spaventò
moltissimo, ma la madre, la zia o la governante dei fanciullini, non sappiamo,
lanciandogli un’occhiata di scusa, cercò di attirare l’attenzione dei piccoli:
“Bambini, state buoni. Venite qui vicino che vi racconto una storia.” Il più
grande, quello di otto anni, che per comodità chiameremo Gianabbondanzio, no:
meglio Ugo, tirò la veste della bambina di sei, denominiamola … Mariaddolorata, no: Eva, facendole
l’occhietto in segno di intesa. Il piccolo di tre con la faccia decisamente di
un Pio, al momento si era estraniato perso in profonde riflessioni
probabilmente ispirate dalla forma di un bottone della sua giacchetta che
continuava a rigirare tra le dita osservandolo attentamente.
-Veniamo al
dunque! – Esortò uno Strega doppio con scorzetta. Era stato un militare di
carriera e tante digressioni contrariavano il suo senso pratico.
-La donna
cominciò a raccontare, ma partì subito male. Descrisse una bimbetta che andava
per i boschi a raccogliere fiorellini e così via. I bambini di favolette simili
ne avevano sentite a centinaia pertanto, dopo poche parole, ricominciarono a
urlare tra di loro ed a giocare ad acchiapparella saltando sui sedili. Vito era
sicuro di non poter sopportare tante ore di viaggio in mezzo a quella canizza,
ed allora si rivolse alla signora: “Mi scusi se m’intrometto, ma lei non è
proprio capace di narrare delle storie. Per forza i bambini non la stanno a
sentire.” “Ma come si permette?” Gli rispose piccata. “Se è tanto bravo, ci
provi lei!” L’uomo raccolse la sfida. Batté le mani forte per sovrastare la
cagnara e, ottenuto un attimo di tregua, s’inserì con un nuovo racconto.
“Allora, bambini: c’era una volta una fanciulla molto, ma molto, ma molto
buona.” Ugo e Eva si scambiarono uno sguardo che parlava di scetticismo se non
di derisione, ma concedendo credito all’estraneo perché, saggiamente, non si sa
mai, lo fecero continuare. “Era tanto buona che la fama della sua bontà giunse
al Principe di quel Paese.” Partì dal maschietto il primo: “Perché?” “Perché,
cosa?” rispose Vito, ma Ugo tenne il punto: “Perché?” L’uomo comprese la
pericolosità di addentrarsi in spiegazioni che, come in una perversa spirale,
gli avrebbero fatto smarrire la trama del racconto a scapito del pathos della
sua creazione fantastica. Replicò nell’unica maniera adatta in questi casi con
un perentorio: “Perché sì” che definì la questione.
-Vabbè, in
effetti non mi sembra una grande storia. – Disse, scettico, un chinotto subito
confutato da un crodino con patatine e noccioline: - Aspetta, ha appena
iniziato. Dagli tregua, subito a sparare sentenze!
-Vabbè,
vabbè, però il chinotto è caldo!
- Posso
andare avanti? – Chiese Gibbo pleonasticamente, e subito riprese: - Vito
continuò nella sua favola: “Il Principe volle premiare la bambina e le concesse
un privilegio che a nessun altro suddito era mai stato accordato. Dapprima,
durante una solenne cerimonia, le appunto sul petto tre medaglie d’oro, per la
bontà, l’altruismo e la puntualità, poi le permise di entrare nel suo
meraviglioso giardino privato. Fra i sudditi si narrava che fosse ricco di
tutte le specie di piante che esistevano al mondo, di fiori tra i più profumati
e di almeno una coppia per ogni animale, anche i più esotici.” “Perché?” Ancora
Ugo, ma questa volta fu ignorato. “In un bel pomeriggio di primavera la
bambina, da sola, varcò i cancelli del giardino. Rimase subito incantata dai
colori, dai profumi e dal canto di mille specie di uccelli che volavano tra gli
alberi. Iridescenti colibrì suggevano da fiore in fiore, luccicanti pesci nei
laghetti mostravano le loro argentee livree e scoiattolini curiosi
s’intrufolavano tra le gambe della bimba. Lei era felice. Vide una giraffa, un
elefante e un ippopotamo, ma se ne tenne alla larga. Improvvisamente sentì un
ruggito provenire da poco distante. Si spaventò moltissimo e, pensando al
peggio, si guardò intorno in cerca di un riparo.” Vito aveva vinto. I bambini
stavano in silenzio, con la bocca spalancata in attesa che proseguisse. Pio aveva
abbandonato il bottone per passare all’analisi del frutto del suo naso estratto
con la punta del dito. “La bambina vide un cespuglio di mirto e vi si buttò dentro
sperando che, con il forte odore dei suoi fiori, ne avrebbe nascosto le tracce
salvandola dal leone. La bestia si avvicinò alla pianta rovistando un po’ con
le grosse zampe, ma sembrava confusa, come se avesse perso il profumo della
carne fresca. Sollevò il muso all’aria e stava per andarsene quando un
involontario movimento della bambina fece tintinnare le medaglie appuntate sul
suo petto. Il leone si voltò, la vide e si avventò su di lei. Dopo, della
bambina furono ritrovate solo le scarpette, pochi brandelli del vestitino insanguinato
e le medaglie.” Non era il finale che si aspettavano i piccoli. “Vedete, cari.”
Concluse Vito tirando la morale. “Non sempre conviene essere buoni e quello che
sembra un premio a volte può rivelarsi la peggiore delle punizioni. Meditate,
cari, meditate” Sentito questo, la madre prese i figli e strattonandoli li fece
uscire in tutta fretta dallo scompartimento, lontani da quel tipo pericoloso.
In fondo era quello che voleva Vito. L’uomo prese un giornale e si stese per
tutta la lunghezza del sedile. Fu un viaggio comodissimo.
Era ora di
andare, le mogli aspettavano a casa e Montalbano si poteva vedere ancora una
volta.