venerdì 18 ottobre 2019

L'attesa



Era scesa la sera e faceva freddo. Fermo al solito angolo di strada si stringeva le braccia al petto in un abbraccio solitario per trovare almeno un po’ di calore. Batteva i piedi e sbuffava nuvolette di vapore facendo finta di aspettare qualcuno. Ma non aveva alcun appuntamento, nell’ora in cui le brave persone corrono a casa per la cena.

Era scesa la sera, faceva freddo ed era solo. Ma non gli pesava, si faceva compagnia con un dialogo immaginario ed ininterrotto dentro la sua testa. Pensava battute spiritose che normalmente non gli sarebbero mai venute alla bocca, osservazioni intelligenti per rendersi interessante o discorsi che iniziavano bene per finire nel nulla.

Era scesa la sera, faceva freddo ed era solo e disperato. Forse disperato è dire troppo, in fondo coltivava ancora una piccola speranza, altrimenti non si sarebbe trovato all’angolo di quella strada come un mendicante in attesa dell’obolo di uno sguardo. Il suo desiderio era simile ad un bel fiore che cercava di innaffiare col ricordo, ma che avvizziva sempre più perdendo ogni giorno qualche petalo. Il profumo però no, quello anche se in parte svanito, lo ricordava bene.

Era scesa la sera, faceva freddo, era solo e disperato ma non voleva arrendersi. Nonostante le parole fossero state chiare, era pronto a combattere perché ne andava della sua vita. Non poteva credere che i sussurri di certi momenti, quegli sguardi e le mani che si sfioravano, avessero sempre mentito. Aveva accettato la sentenza, ma il suo cuore diceva che non era giusta.

Era scesa la sera, faceva freddo, era solo e disperato ma non voleva arrendersi, almeno per quella notte ancora. Se lo diceva ogni giorno: non sarebbe più tornato! Però avvertiva che quel piccolo sacrificio era l’ultimo esile legame che una volta reciso avrebbe decretato la fine. Ma si sentiva ridicolo e stupido, oltre che illuso, ed allora basta. Si toccò il cappello come in un cenno di saluto, si voltò e riprese il cammino.

L’aveva visto. Dalla finestra della sua camera tutte le sere scostava le tende di uno spiraglio e lo scorgeva all’angolo della strada sul marciapiede di fronte. La rabbia iniziale aveva via via lasciato spazio alla tenerezza, ad una sorta di rimpianto dove le lacrime avevano perso significato lasciando solo lo struggente ricordo di una passione. Forse aveva sbagliato, magari bisognava chiarire. Di slancio aprì la finestra per chiamarlo, per dirgli di aspettare, di salire da lei. Si affacciò e vide da lontano la figura dell’uomo che si allontanava col capo chino, le mani sprofondate nelle tasche ed il passo veloce. La sua voce non poteva più raggiungerlo. Chiuse le imposte e rimase in attesa che giungesse la sera dell’indomani.


martedì 15 ottobre 2019

Late Blossom



Gli inglesi dicono: “late blossomed tree” per riferirsi a quelle persone i cui talenti vengono scoperti o si rivelano in tarda età. Non parlo di studiosi che hanno fatto un lavoro di ricerca per tutta una vita e che dopo molti anni riescono a raggiungere il loro scopo, per questi è abbastanza normale che l’esperienza accumulata porti ad un risultato, ma di quanti manifestano una capacità nascosta fino quasi al limite del tempo massimo. Ci sono alcuni casi, anche clamorosi, nelle attività imprenditoriali. Per citarne uno, il colonnello Sanders che decise un giorno di mettere a frutto la sua passione per le alette di pollo fritte aprendo dapprima una specie di rosticceria, e poi tante altre di seguito, fino a diventare un leader nel settore sotto l’insegna “Kentuky Fried Chicken”. Sanders non tenne conto di avere 62 anni, anzi per sottolineare la sua esperienza di uomo vissuto ed offrirla come garanzia ai potenziali clienti, mise la sua bella faccia sul marchio d’impresa con tanto di occhiali, baffoni e barbetta bianca. Un successone! Però il campo nel quale si può trovare il maggior numero di questi frutti tardivi, che spesso sono i più dolci, è indubbiamente quello delle arti. Bisogna considerare che ai nostri giorni la vita media si è allungata molto, pertanto quando si pensa ad un uomo di cinquant’anni di un secolo fa s’immagina più o meno un vecchio, mentre per i canoni odierni è appena, appena una persona matura. Quindi gli artisti del passato che hanno espresso il meglio di sé intorno alla cinquantina o sessantina, dobbiamo annoverarli nella lista degli arrivati tardi, e non sono pochi. Esempi? Eccone servito qualcuno tra i letterati. Dopo il nome, tra parentesi, segue l’età nella quale pubblicò, o si fece conoscere, per la prima volta.

Charles Bukowski (51)

Laura Ingalls Wilder (65)

Mary Ann Evans / George Eliot (55)

Jose Saramago (60)

Frank McCourt (66)

Mary Wesley (72)

Andrea Camilleri (69)

E si potrebbe continuare, senza contare i “postumi” che certamente non hanno provato il gusto del successo, ma almeno vengono ricordati nelle preghiere dei loro eredi per i diritti d’autore.

A questo punto i più arguti tra i lettori di queste poche righe avranno già capito dove voglio andare a parare. Essendo ormai entrato in un’età che alcuni chiamano terza, ma dipende da che parte la si guarda, e non potendo più sognare di vincere Wimbledon o stare sotto le tre ore nella maratona (ma neanche sotto l’ora nei cinque chilometri), forte di tanti illustri predecessori, punto al Guinness degli scrittori ritardatari. Ovviamente verranno sempre prima le cose “importanti”, ma mi piacerebbe assai passare un giorno davanti alla vetrina di un libraio e vedere in mostra una pila di copie del mio ultimo romanzo. La copertina sarebbe rigorosamente in bianco e nero, per fare intendere contenuti impegnati scevri da frivolezze, mentre sul risvolto si potrebbe scorgere un mio ritratto fotografico con la pipa in bocca e gli occhiali. Si, l’ammetto, per darmi una parvenza da intellettuale sarei disposto anche a ricominciare a fumare la pipa. Di traverso, sul vetro del negozio, uno striscione griderebbe: “L’autore rivelazione dell’anno! Un milione di copie vendute in un solo mese!”. Non è detto che non succeda, d’altronde ho ancora tutto il tempo che voglio. Forse.






martedì 8 ottobre 2019

La Bambina Volante


La bambina lasciò la mano della madre e si lanciò, di corsa, lungo il viale alberato che, come intagliato da un fendente, separava la pineta di un parco cittadino esteso quanto un piccolo bosco. La ghiaia scricchiolava sotto i passi leggeri battuti dalle scarpette di vernice nera e qualche passero sceso a terra per becchettare, spaventato, svolazzò via in un frenetico frullare d’ali. Sul viso le guance rubizze e gli occhi ridenti, mentre un lieve affanno le accelerava il respiro facendo rimbombare il battito del cuore dentro le orecchie. Il cappottino di lana pesante, il cappello che le scivolava sugli occhi ed i calzettoni calati giù non le impedivano di immaginarsi come il tenero cerbiatto visto in un cartone animato sgroppare felice verso il sole. Sentiva la mamma da dietro chiamarla dicendo di fermarsi, ma ormai le sue gambette avevano acquisito una vita propria e lei non riusciva quasi più a governarle. Andavano in piccole falcate intramezzate da qualche salto più lungo e mentre un piede toccava terra, l’altro si portava avanti automaticamente. La strada era in leggera discesa e l’abbrivio favoriva i balzi che per qualche istante facevano librare nell’aria la bambina. Era una sensazione strana da provare ed improvvisamente si sentì capace di volare. Provò ad allungarsi il più possibile per favorire quel magico planare e, nella sua mente, ad ogni slancio era certa di coprire distanze sempre maggiori. Non avvertiva più alcun peso ed immaginò di sollevarsi da terra, dapprima di pochi centimetri poi sempre più su fino alla cima degli alberi ed anche oltre. Non provava alcuna paura a stare così in alto, anzi pensava che per lei, tanto speciale, prendere il vento come un aquilone rappresentasse una condizione normale come per gli altri salire su un autobus. Vedeva le persone là sotto camminare ignare e le vennero in mente i pupazzetti del grande plastico ferroviario in camera del fratello: tutti vestiti bene, alcuni affaccendati, ma anonime ed insignificanti comparse di un teatrino allestito solo per gioco. Poteva addirittura riconoscere la mamma che ancora la stava chiamando, forse preoccupata di non scorgere più la sua piccola. Quando avrebbe mostrato la propria capacità alle amichette era sicura che l’avrebbero invidiata perché lei poteva giocare tra le nuvole ed arrivare a scuola in un momento. Forse anche il giornale si sarebbe accorto del fenomeno scrivendo un articolo intitolato: “la bambina volante”, suo padre l’avrebbe letto e con la tata avrebbero preparato per lei un letto in soffitta, accanto all’abbaino, per farla dormire più vicina al cielo. Da grande sarebbe diventata una “super eroe” con un costume tutto rosa e luccicante, impegnata in mille missioni per salvare la gente e gli animali in difficoltà. Ed avrebbe vissuto a New York, chissà perché. Ancora qualche passo veloce ed un lungo salto, mentre godeva di quel momento di felicità che avrebbe poi ricordato senza più riconoscere il confine tra la realtà ed il sogno. Come per ogni bella storia, accadde l’imprevisto. La bambina non si accorse di una radice nascosta tra le foglie, inciampò e cadde sbucciandosi un ginocchio. Si mise a piangere e tutto svanì in una bolla di sapone non lasciando altro che la nostalgia di un desiderio impossibile.
Molti anni dopo, su una panchina al bordo di quello stesso viale, una bella anziana signora chiuse gli occhi godendo del sole ancora caldo dell’inizio di un autunno clemente. Un piede, involontariamente, strusciò sui sassolini e d’improvviso un dolce sorriso le illuminò il volto. La donna sentì il velluto del colletto di un’antica redingote carezzarle la guancia mentre, col gesto di una mano, buttò all’aria un fastidioso immaginario cappellino. Poi spiccò il volo liberandosi di ogni fardello tirato appresso da una vita e, nuovamente fanciulla, scorse dall’alto una vecchia seduta all’ombra dei platani. Non la riconobbe, ed in fondo non aveva torto: lei era sempre stata, e sarebbe rimasta per sempre, quella bambina che sapeva volare.    

venerdì 4 ottobre 2019

Solo una sfumatura d'ocra


La vecchiaia è come una grande nevicata che ricopre ogni cosa. Lo strato bianco si posa sui capelli e sui prati, avvizzisce la pelle e secca le foglie, spenge gli entusiasmi e soffoca le gemme. La vecchiaia è una mano che vela gli occhi, un peso sulle spalle, un gioco che nessuno vorrebbe giocare, una voce melliflua e falsa che soffia nelle orecchie. E’ un giro di carte dove la posta è sempre tutto quello che si possiede, un’allucinazione resa reale, una condanna immeritata. E’ un inganno accettato, una vile compagna che si approfitta della rassegnazione, la facile scappatoia di verità scomode. La vecchiaia è una compare mendace che porta su strade che conducono ad un’unica meta, s’impone senza essere stata invitata, dà consigli che favoriscono solo lei e cresce ogni giorno nutrita dalla mancanza di speranza. Ogni rinuncia è una vitamina che la sostenta, la sfiducia è per lei un balsamo, cinismo e pessimismo sono i suoi doni. Si giustifica col fatto di essere inevitabile e si vanta di essere desiderata da coloro che non hanno il coraggio di ripudiarla. In cambio del tempo, pretende sempre di più; impone una resa incondizionata a fronte di una pace letale che tutti accettano, rassegnati e stanchi. Ma la neve non ha ucciso i semi nel terreno, li ha solo spinti verso uno strato più profondo. Quei piccoli concentrati di vita dove tutto è compreso senza niente tralasciare, rimangono nascosti, minuscoli insignificanti granelli dove si rispecchia l’universo. Protetti da una buccia sottile tramandano il proprio codice genetico e, forse, con esso tanti racconti quanti erano stati i calici che li avevano generati. Ugualmente la vecchiaia sopisce la memoria, a volte la confonde, ne oscura alcuni tratti, ma non riesce a cancellarla. Ottunde ed inasprisce i caratteri, ma l’ocra di una foglia d’autunno è solo la nuova sfumatura di un verde passato di moda.