venerdì 27 dicembre 2019
L'odore
In fondo alla strada, sulla sinistra, si apriva un vicolo cieco. Non aveva un nome perché nessuno lo cercava ed anche il sole ci faceva capolino solo sporadicamente, tanto nessuno passava di lì. Solo un portoncino interrompeva la monotonia dei tre muri che ne delimitavano il perimetro ed un gatto più nero del demonio vi si aggirava libero con aria da padrone. La bottoniera accanto ai due piccoli battenti di legno mostrava pulsanti per almeno una decina di famiglie, ma gli spazi per i nomi erano vuoti e pieni di povere, come se l’edificio fosse disabitato o volesse scoraggiare l’intrusione di qualsiasi estraneo. Solo una di quelle finestrelle, in un angolo e quasi scolorito, riportava un numero: tre. L’uno e il due, se c’erano mai stati, se ne erano andati e quelli dopo venivano lasciati nel limbo dei mai nati. Uno scatto faceva aprire l’anta d’ingresso e quel rumore manovrato da lontano quasi sorprendeva nel silenzio immobile di un budello dimenticato di città. Ci doveva essere qualcuno acquattato in qualche parte che ancora voleva comunicare col mondo, forse aspettava da tempo un visitatore, magari non sperava altro che di sentire dei passi nell’androne, giù da basso. Ma ci voleva, se non coraggio, almeno un certo spirito d’avventura per entrare nella casa e lasciare che dietro le spalle si richiudesse la barriera tra una specie di tana dagli ignoti meandri ed il resto del mondo. Una guardiola chiusa e deserta, con un quotidiano lasciato sul tavolino di formica che riportava notizie di un tempo con la stessa ansia dei titoli di sempre, bollette della luce e pubblicità di sconti imperdibili nell’angolo vicino al sottoscala, qualche foglia e cartaccia che sembravano parte stessa dell’arredo di un architetto dal gusto decadente. La luce proveniva dalla gialla lampadina di una plafoniera stile déco sempre accesa e da un lucernario lontano, in corrispondenza della tromba delle scale. Niente ascensore. Due rampe di gradini e poi, finalmente, l’interno tre. L’odore. L’odore di quell’ appartamento era un biglietto da visita che lo faceva conoscere senza averlo mai visto, che presentava i suoi inquilini prima ancora di averli incontrati.
mercoledì 18 dicembre 2019
Elementare, Watson
Io non gliel’ho detto mai, ma questa
sua presunzione di avere il cervello più fino di qualsiasi altra persona, mi ha
sempre urtato profondamente. Nel mio ruolo di biografo ufficiale di Sherlock
Holmes, ho descritto il mio supposto amico come una persona eccezionale, di
grande sensibilità ed altruismo. In realtà, è ora che lo confessi, il detective
privato più famoso di Londra è un gran fanfarone, tutto fumo e pochissimo
arrosto. Per farvi un esempio:
-Allora Watson, com’era il tempo a
Leigh on Sea?
-Perbacco Holmes, come avete fatto a
capire che torno adesso da una gita al mare?
-Ah, ah, ah! Elementare, per non dire
puerile. Avete il tacco della scarpa destra con ancora un po’ di fanghiglia
appiccicata ed un piccolo rametto di “crithmum maritimum”, o finocchio di mare,
infilato tra i capelli. Si tratta di una pianta alofila (dal greco halo = sale
e phile = amico) che alligna nei terreni salmastri e, con particolare vigore,
nella contea dell’Essex. Poi ricordo che tempo fa, sfogliando una rivista illustrata,
ve ne usciste con un apprezzamento particolarmente vivace su quella cittadina.
E quindi…
-Già, già.
-Ritengo inoltre che abbiate assai
gradito il pasticcio di montone servito dal “Blue Boar”, il pub locale. E, con
sufficiente certezza, non vi sarete fatto mancare una buona pinta di birra ed
una chiacchierata con l’ostessa che, vi dirò di più, è una giovane dai capelli
rossi e ben in carne.
-Santi Numi! Questa poi…Come sapete
dove mi sono fermato a mangiare e addirittura l’aspetto della proprietaria del
locale?
-Osservo e deduco. Sul bavero della
vostra giacca si nota distintamente una briciola di pasta brisee che, a pranzo,
si serve spesso ripiena di montone, e poi dovreste spazzolare via quel capello
fulvo che spicca nettamente sulla vostra spalla. Lo dico per voi e per non
indurre strani pettegolezzi. In quanto al nome del locale, siccome anch’io mi
recai un lustro addietro da quelle parti, ricordo come solo al Blue Boar vidi
servire ai tavoli una piacevole donna formosa dalla capigliatura color del
rame.
-Come al solito mi stupite, Holmes.
-Elementare, Watson, elementare.
Così lui fece bella figura facendomi
sembrare uno sprovveduto. Salvo sapere successivamente che, poco prima che
salissi le scale verso il nostro appartamento, un vetturino aveva lasciato
nelle mani di Holmes una sciarpa che avevo dimenticato al pub con la preghiera
di consegnarmela unitamente ai saluti dell’ostessa ed all’invito a rinnovare la
visita per gustare nuovamente il montone. Altroché capacità deduttive: fumo,
solo fumo.
Comunque, non era questo che volevo
raccontare.
Era la sera della vigilia di Natale,
io ed Holmes avevamo cenato abbastanza presto facendo onore ai manicaretti
preparati dalla signora Hudson con la cura e la devozione richiesti dalla
solenne ricorrenza. Eravamo ormai al Christmas Pudding, accompagnato da una
dosa generosa di Porto, quando il mio commensale, forse intenerito
dall’atmosfera festiva, si abbandonò a confidenze per lui del tutto inusuali.
-Caro Watson, - mi disse a bassa voce
con aria sognante – ricordo quando io e mio fratello Mycroft aspettavamo questa
magica notte con ansia e trepidazione. Come tutti i bravi bambini, eravamo
soliti preparare una letterina per Babbo Natale che poi consegnavamo per la
spedizione nelle mani di nostro padre. Mi dovete credere, eravamo assolutamente
sicuri che, durante la notte, il vecchio panzone vestito di rosso ci avrebbe
portato i regali richiesti e, per l’emozione, non riuscivamo a chiudere occhio
fino a tarda ora. Naturalmente il giorno dopo trovavamo vicino al camino, o
sotto l’albero, tanti pacchetti ed, in qualche modo, ci sentivamo ricompensati
per tutti i buoni voti riportati a scuola durante l’anno trascorso. Da lì,
forse, nacque la convinzione che le azioni di ciascuno vengono sempre ripagate
con la moneta corrispondente: chi ben si tiene, ne ricaverà vantaggio, ma chi
si comporta male ne subirà le nefaste conseguenze.
-Amen! –Interloquii con la lucidità
concessami dall’ennesimo bicchierino sorseggiato con gusto – Così deve essere:
a ciascuno il suo e…amen! – Mi rendo conto che avrei potuto fare di meglio in
sede di commento, ma fu già tanto riuscire a liberare la lingua dalle pastoie
del liquore.
-Però, fedele amico, l’esperienza
della vita mi ha poi insegnato che non sempre il destino si comporta in maniera
corretta. Spesso i buoni soffrono mentre i malvagi godono, e solo chi ha fede
in una ricompensa futura da riscuotere in un’altra vita può credere ancora che
valga la pena camminare rettamente in questo mondo pieno di ingiustizie.
-Sento dell’amarezza in queste parole,
Holmes. In fondo se Babbo Natale continua a tornare tutte le notti di ogni
ventiquattro dicembre, ci deve essere una brace di speranza che arde ancora
sotto la cenere della disillusione, e ciascuno di noi può sempre aspettarsi un
dono.
-Ho sempre saputo che siete un
sognatore ed un eterno bambino, caro il mio dottore. Ma la mia lente
d’ingrandimento non ha mai rilevato le impronte del passaggio di nessun Babbo
Natale ed ormai ho smesso di credere alle favole da molto tempo.
Finimmo la conversazione con qualche
altra rimembranza dei tempi andati e quando la pendola batté le undici, cedemmo
al richiamo del sonno. Io mi ritirai nella mia stanza con un trattato di
anatomia da sfogliare per fini soporiferi, ed Holmes prese con sé una scatoletta
che sapevo contenere quei medicinali ai quali ricorreva sempre più
frequentemente.
Non riuscii a finire il capitolo
riguardante la rotula e le sue articolazioni, che caddi nel sereno oblio dei
giusti. Ma il ripieno del tacchino servito per cena non ebbe la creanza di
transitare velocemente attraverso il mio stomaco, anzi si soffermò a lungo
causandomi un senso di disagio che innescò mille fantasmagorici sogni ed uno
sgradevole senso di pesantezza. Pertanto non saprei dire se fu immaginario o
reale il trambusto che mi parve di udire proveniente dal salotto in un’ora
imprecisata della notte. Comunque non ci feci caso più di tanto, impegnato
com’ero a combattere a fianco di Don Chisciotte contro degli strani mulini che
al posto delle pale mostravano la faccia scorbutica della signora Hudson.
La mattina successiva i fumi notturni
si dissolsero ed aprii gli occhi sentendomi di ottimo umore e con una strana
eccitazione addosso. Spalancai la finestra della mia camera abbeverandomi
dell’aria fresca mentre un pallido sole faceva sembrare bella anche Baker
Street, a quell’ora deserta ed imbiancata da un rilucente manto di candida neve
appena caduta.
-Watson, Watson, non dovevate! – Il
richiamo stentoreo della voce del mio amico mi giunse imperioso da oltre la
porta. Evidentemente si doveva essere alzato prima di me ed ora, in salotto,
richiedeva la mia presenza.
-Cosa? - Urlai di rimando, solamente
per avere una risata come risposta. Incuriosito affrettai le abluzioni
mattutine per raggiungere Holmes.
-Allora Sherlock, che vi prende? Cosa
non avrei dovuto fare? – L’investigatore con la pipa stretta tra i denti e con
indosso una sgargiante vestaglia di velluto rosso, mi guardò con aria
maliziosa.
-Questo pacchetto con scritto sopra il
mio nome. Eravamo d’accordo di non farci alcun regalo quest’anno, ma mi accorgo
che non siete stato di parola.
-Veramente Holmes, io…
-Aspettate! Anche questo…Mi accorgo
adesso che vi siete voluto disturbare addirittura con un altro presente. Fatemi
vedere. – Pronunciando queste parole, l’uomo si chinò per raccogliere un’altra
scatola che era scivolata dietro una poltrona vicino al camino.
-No, questo non è per me. Capisco che
abbiate voluto creare un clima festoso, ma giungere fino al punto di incartarvi
da solo un regalo e scriverci sopra il vostro nome, mi sembra un po’ eccessivo.
-Ma, vi assicuro…
-Siete impagabile, Watson. Avete
voluto farmi una sorpresa che non ricevevo dai tempi dell’infanzia. Non so come
ringraziarvi.
-Un momento, Holmes, fatemi parlare.
Questo fatto dei pacchetti…non è opera mia! E’ la prima volta che li vedo e rimango
allibito quanto voi.
-Cosa intendete dire? Volete affermare
di non essere stato voi a portare in casa le due strenne? E’ uno scherzo?
-Lungi da me prendervi in giro o
raccontare menzogne. Vi ripeto che non ho mai visto quei pacchetti.
-Beh, siamo in presenza di un mistero!
Voi non avete comprato alcun regalo, io non ci ho pensato minimamente, e allora
come può essere? – La mente allenata del detective si mise in funzione
automaticamente. – Teniamo presente che: ieri sera i pacchetti non c’erano; l’appartamento
è stato chiuso a chiave per tutta la notte; altre entrate nascoste in questi
locali non ce ne sono; nessuno ha il movente per farci dei regali di Natale. Va bene, Watson, procediamo nell’analisi. Apriamo,
con cautela, gli involucri e vediamo cosa contengono. – La cautela non fu
considerata minimamente, anzi ci precipitammo a scartare ognuno il suo regalo
con la frenetica curiosità di due bambini. Quando vidi il mio rimasi a bocca
aperta. Si trattava di un’antica promessa di Ippocrate stampata su pergamena
che avevo visto da un libraio antiquario ripromettendomi di acquistarla senza
però decidermi a farlo.
-E voi Holmes, cosa avete trovato? –
Mi accorsi che l’algido investigatore aveva gli occhi lucidi mentre tirava
fuori dalla scatola una piccola scultura in ceramica raffigurante un cane dal
manto nero e dalle lunghe orecchie.
-E’ Brutus, il mio cane di quand’ero
ragazzo. Fu l’unico amico per buona parte della mia giovinezza e il compagno di
tante giornate solitarie. Mi capiva e sapeva consolarmi come nessun altro e
quando morì piansi tutte le mie lacrime. Non l’ho mai dimenticato. – Restammo
entrambi assorti e pensierosi per alcuni istanti, stupiti di quei regali tanto adatti
ad ognuno di noi.
-Comunque Holmes, al di là del fatto
che questi doni ci facciano piacere, la domanda rimane: chi è il latore? E come
ha fatto ad indovinare cosa portarci? Ma, soprattutto, come è potuto entrare in
salotto? Siete voi il detective: orsù, fate onore alla vostra fama! – L’investigatore
raccolse il guanto di sfida lanciato alla sua intelligenza. Cominciò a
camminare per la stanza sbuffando fumo dalla pipa come la ciminiera di una
locomotiva e nello stesso tempo parlottava tra sé gesticolando come un
invasato.
-Nessuna entrata…salvo, naturalmente,
la canna fumaria del camino…due pacchetti ben incartati…il mio nome in forma
confidenziale…anche Watson…rumori nella notte…fuliggine sul tappeto…porte
sbarrate…niente di rubato…coincidenza con la festività…
-Ebbene? – Lo sollecitai
distogliendolo dalla sua maratona casalinga.
-Allora, caro Watson, è un classico
delitto della porta chiusa. Salvo che qui non c’è crimine, piuttosto un’azione
gentile. Il meccanismo però è lo stesso: apparentemente senza soluzione.
Nessuna possibilità di entrare, né di uscire, e solo un elemento nuovo sulla
scena che prima non c’era. Non si tratta di cadaveri, bensì di regali, ma
sembrano incongrui ugualmente.
-Quindi?
- Pertanto, in questi casi, si ricorrere
alla teoria dell’esclusione.
-Che dice…
-Enuncia come al momento in cui, per
un certo accadimento, vengano eliminate
tutte le cause impossibili, le ipotesi che rimangono, anche se improbabili,
devono corrispondere alla realtà dei fatti.
-Nel nostro caso?
-Non può essere entrato nessuno, ma
c’è un personaggio che non passa attraverso le porte e che conosce i desideri
di tutti. Si muove soltanto la sera di Natale e porta la felicità in ogni casa.
Non si fa vedere, ma lascia il segno del suo passaggio nel cuore di chi crede
in lui. E’ un signore anziano che però non invecchia mai, esattamente come i
sogni che ci portiamo dentro fin dall’infanzia. Viene cercando di fare meno
rumore possibile e poi si allontana nel cielo notturno. Insomma, l’identikit è
chiaro: si tratta di Babbo Natale!
-Perbacco Holmes, è non era mai
capitato di vedervi felice per “non” aver preso un colpevole!
-Buon Natale, Watson!
-Buon Natale, Holmes! – Arrossisco
mentre lo scrivo, ma devo confessare che per la prima volta, e forse l’ultima,
ci abbracciammo sorridendo come due bambini. Magari quest’ultima frase la
cancello.
domenica 15 dicembre 2019
E penso a te
E’ una
storia finita, chiusa, passata. Un giorno d’autunno, mentre una pioggerella
leggera piangeva sul parabrezza, hai aperto la portiera della macchina e sei
scesa senza voltarti indietro. Lasciavi con me una parte della tua vita ed io
non riuscivo a dire niente. Avrei voluto, e quante volte mi sono maledetto per
una mano non allungata, per una voce non urlata, per un orgoglio idiota. E poi
più niente, come se niente fosse mai esistito, come se tutti i semi di un amore
non avessero generato altro che terra brulla. Un momento e si chiude una
finestra, come se quel campo di grano non si stendesse fino all’orizzonte, come
se il sole non splendesse più, come se il buio della stanza fosse normale. E
dentro un boato rompe l’anima, mentre i tacchi delle tue scarpe fanno
scricchiolare la ghiaia di un vialetto che ti porta lontano, oltre il mio
sguardo. Va bene, se per te va bene, ma non mi puoi impedire di pensarti. Di
lavorare e pensarti; di parlare con lei e di pensarti; di ridere con qualcuno
che non riconosco e di pensarti. In questa maniera sto ancora con te, col tuo
ricordo. E ti parlo, anche se non rispondi; ti prendo per mano, anche se non
sento il tuo calore; ti sorrido, anche se non vedo i tuoi occhi. Non so dove ti
trovi adesso, ma non sei lontana da me perché a me sei legata dalla memoria di
tante sere passate in nessun posto, di tanti abbracci pieni di noi due insieme,
di tanti attimi lunghi come l’infinito. Ma se nella scintilla guizzante del
fuoco di un camino improvvisamente ti apparirà la nostalgia di un ricordo, se
nel brivido dei primi freddi avrai voglia di tornare sotto quella vecchia
coperta di pile, se un tramonto al mare ti sembrerà privo d’emozione, pensami
anche tu. In quel momento mi ritroverai ed io saprò che mi stai pensando perché
non c’è fine ad un amore, se amore è stato.
sabato 14 dicembre 2019
Una visita inaspettata.
Questo è il
momento della giornata che preferisco. Il capo è all’ultimo piano della nostra
casa in arenaria rossa al centro di Manhattan, Fritz sta in cucina
probabilmente sperimentando nuovi abbinamenti tra spezie e salse ed io ho tutto
il tempo di leggere i giornali del mattino seduto alla mia scrivania. La pace
dura esattamente due ore, dalle nove alle undici del mattino, quando per
nessuna ragione al mondo si può distrarre il mio caro datore di lavoro da
quello che lui ritiene essere il suo vero compito nel mondo: la cura delle
orchidee. Dopo quell’ora l’ascensore interno riporta al piano terra il
giardiniere di vocazione e cominciamo a darci da fare per guadagnare la
pagnotta quotidiana, magari con un bel po’ di companatico vista la mole del
titolare. Chiedo scusa, non mi sono presentato: Archie Goodwin, braccio destro,
ma più spesso gambe ed occhi, del ben noto investigatore privato Nero Wolfe
famoso per la sua perspicacia e per la pigrizia ai limiti dell’accidia. Dove
lui non arriva per mancanza di voglia, io mi precipito e dove spesso io scorgo
la nebbia, lui squarcia i veli della conoscenza facendo girare le rotelle ben
oliate della sua materia grigia da concorso. Qualche mio amico della settima
avenue, non particolarmente raffinato, direbbe che siamo come culo e camicia e
non avrebbe torto. Adesso che abbiamo fatto conoscenza ed in considerazione
dell’attuale periodo dell’anno, desidero raccontarvi una storia capitata
giustappunto nei giorni precedenti il Natale di qualche tempo fa.
-Archie, il
campanello. Vada lei ad aprire, Fritz è alle prese con la “béarnaise” e non può
essere distratto, pena l’impazzimento della salsa e la rovina della pietanza.
-Per carità,
non sia mai che succedesse una tale tragedia! Corro, agli ordini! – Non mi
dispiaceva che qualcuno suonasse alla nostra porta, spesso significava un nuovo
caso di cui occuparci con relativa parcella necessaria per quadrare i conti di
casa e soddisfare gli esosissimi sfizi del capo. Come d’abitudine, prima
d’aprire, sbirciai dallo spioncino. Un tizio mascherato da Babbo Natale era in
attesa al di là del portone. Non prometteva un granché, ma non si butta via
niente ed aprii.
-Vorrei
parlare con Nero Wolfe. - Disse un vocione dietro la barba bianca
-Chi devo
annunciare? – Chiesi con un velo d’ironia.
-Mi può
chiamare Klaus, per il momento.
-Si
accomodi, vedo se può riceverla. – Lasciai il panzone rosso vestito nella sala
d’attesa ed entrai nello studio. Nero Wolfe era impegnato a contare i tappi a
corona delle bottiglie di birra che aveva bevuto fino a quel momento ordinatamente
conservati nel cassetto della scrivania. Come ogni saggia persona, sa dosare i
suoi eccessi, almeno fino a quando non ritiene di superare i limiti, e quel
trucco gli serve per non andare oltre.
-C’è Babbo
Natale che chiede di essere ricevuto. Cosa devo dire?
-Archie, non
sono in vena di scherzi. Ho trovato della cocciniglia particolarmente
aggressiva sulla punta di una foglia di Ancamptis pyramidalis e la cosa mi
preoccupa moltissimo.
-Capisco il
dramma, ma in sala c’è veramente un Santa Claus, o supposto tale, che chiede di
lei.
-Forse mi aiuterà
a distrarmi, faccia passare. – Disse con compiacenza il mio “coequipier”. Feci quanto richiesto e l’uomo mascherato
prese posto sulla poltroncina di marocchino rosso di fronte alla scrivania
dell’investigatore.
-Buongiorno.
– Esordì compito il nostro ospite con un timbro di voce degno del miglior basso
da opera lirica. – Mi permetto di disturbarla per una questione della massima
urgenza che mi sta particolarmente a cuore. Ho saputo della sua fama d’investigatore
e credo di avere proprio bisogno del suo aiuto. – Il principale alzò la manona
per stoppare l’interlocutore.
-Un momento,
prima di tutto lei chi è e perché va in giro vestito così?
-Il mio
nome, al momento, non ha importanza. Come ho detto al suo segretario, può
chiamarmi Klaus o Nicola, faccia lei. Per quanto riguarda il vestito, beh, mi
sembra in tono col periodo, no? – Conoscendolo, intuivo come, dentro di sé, Nero
Wolfe stesse combattendo un’aspra battaglia tra due opposte fazioni. Una premeva
per cacciare immediatamente ed in malo modo l’intruso, l’altra spronava a
recepire lo stimolo della curiosità. Vinse la seconda. Il boss si accomodò bene
sulla poltrona di dimensioni XXXL, poggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse
la punta delle dita disponendosi all’ascolto.
-Va bene,
signor…Klaus, dica pure.
-Ecco, si
tratta di una persona scomparsa.
-La fermo
subito, caro signore. Per un problema del genere la polizia è molto meglio attrezzata
di me. Loro hanno una quantità di uomini e mezzi da impiegare nella ricerca.
Sicuramente avrebbero molte più chance di successo delle mie.
-Si, si lo
so, ma ci sono un paio di difficoltà. La prima è che devo trovare l’uomo entro
dopodomani, venticinque dicembre, e l’altra è che se ne sono perse le tracce da
circa quarant’anni. Inoltre non ha commesso alcun reato ed ormai la maggiore
età l’ha passata da un pezzo. Così, capisce, la polizia non mi darebbe alcun
ascolto, anzi credo mi potrebbero anche cacciare in malo modo. – Devo dire che,
richiesto di un parere, avrei condiviso ed avallato il punto di vista delle
forze dell’ordine, ma ormai l’interesse era stato stuzzicato e Wolfe stette al
gioco.
-E come
pensa che io possa riuscire in questa impresa che appare impossibile?
-Lei avrebbe
un punto di vantaggio dal quale partire. Sono infatti al corrente delle sue
origini montenegrine ed anche quella persona viene da là. Probabilmente lei ha
ancora qualche contatto in loco e potrebbe chiedere delle informazioni.
-Va bene, mi
dia indicazioni più dettagliate. A proposito, ha una foto del ricercato?
-Sì, ma è
molto vecchia. – Rispose Klaus tirando fuori da un tascone una istantanea
ingiallita dal tempo e tendendola verso Wolfe. - Si vede l’uomo insieme ad
altre persone fuori da un bar di Podgorica. Guardi, è quello col cappello e il
bavero del giaccone sollevato.
-Non si
capisce niente. Il nome, l’età e il più recente domicilio conosciuto.
-Si faceva
chiamare Brat, non so se sia il primo nome o il cognome. Più o meno dovrebbe
avere la nostra età e l’ultima volta che lo vidi viveva in Novaka Miloševa.
-Uhmmm.
Descrizione fisica?
-Corpulento,
alto, capelli scuri e occhi neri. Un bell’uomo, possente, sempre pronto alla
risata e gran compagnone.
-Due domande
ancora. Perché lo sta cercando, e come mai lo deve trovare necessariamente
entro il venticinque? – Il nostro ospite ci pensò un po’ su, si vedeva che era
emotivamente scosso.
-Ho lasciato
una questione in sospeso tanti anni fa e, avvicinandomi ad un’età avanzata, non
vorrei vivere il rimanente del mio tempo col rimpianto di un passo non fatto. Non
si preoccupi, non c’è niente di illegale e le mie intenzioni sono del tutto
benevole, mi piacerebbe solo riannodare un filo spezzato dal destino. La data è
obbligata dalla mia partenza. Il ventisei devo assolutamente recarmi altrove e,
se non trovo Brat in tempo, ho paura di non incontrarlo più.
-Tra
l’altro, bisogna mettere in conto che nel frattempo potrebbe essere morto. Ne è
consapevole? – Disse cinico Wolfe.
-Certamente,
ma almeno me ne farò una ragione. Comunque onorerò ugualmente la sua parcella.
-Per questo
tratterà con Goodwin. Adesso vada e torni domattina, non prima delle undici,
faremo il punto della situazione. Archie, accompagni il signore alla porta.
Buongiorno. – Dopo che il cliente fu uscito, tornai alla mia postazione accanto
al capo. Lo trovai col capo appoggiato allo schienale della poltrona, gli occhi
chiusi e le labbra intente nella solita ginnastica fuori e dentro della bocca.
Il segnale significava che il grand’uomo, grande in tutti i sensi, stava
meditando e per me era tassativamente proibito disturbarlo. Presi il New York
Times e lo aprii alla pagina delle corse dei cani. Andai alla colonna con le
quote per le scommesse ed anch’io cominciai a meditare.
Il
pomeriggio passò senza che, apparentemente, Wolfe stesse occupandosi del caso.
Svolgeva le sue normali attività e sembrava di ottimo umore senza alcun pensiero
per la testa. Io cominciavo ad innervosirmi. Se non gli interessava aiutare
quell’uomo avrebbe potuto dirlo chiaramente senza illuderlo a vanvera. Decisi
di sollecitarlo e lo raggiunsi in cucina, il regno di Fritz Brenner chef di
alto livello tanto bravo quanto permaloso. Vidi i due intenti in una
discussione impegnativa. Dovevano essere in disaccordo su qualcosa perché, pur
senza alzare i toni, le voci erano taglienti ed il nervosismo nell’aria quasi
palpabile.
-Non vorrei
contraddirla, caro Fritz, ma la “fricandeau” si cucina solamente con la polpa
di vitello, ovvero la parte anteriore della coscia di un animale non più
vecchio degli otto mesi. Altrimenti parliamo di un altro piatto.
-Mi
dispiace, monsieur, ma nei locali stellati di Marsiglia dove per molto tempo ho
esercitato la mia missione, la fricandeau si prepara con ogni taglio di animale
giovane e tenero. Quindi quest’agnello in casseruola fa esattamente al caso
nostro e si può ben vantare del titolo della ricetta.
-Non credo.
-Io credo di
sì. – Sarebbero andati avanti per ore e forse sarebbe scoppiata una faida sanguinosa
che avrebbe coinvolto le generazioni future. Intervenni.
-Mi dispiace
interrompere la dotta tenzone, ma vorrei ricordare che abbiamo un cliente che
si aspetta di essere servito dalla nostra opera. Per il momento, mi sembra che
non abbiamo fatto ancora niente di niente. E’ corretto? – Wolfe mi rivolse uno
sguardo di compatimento ai limiti del disgusto e con aria offesa, rispose:
-Ormai lo
dovrebbe aver capito, Goodwin, io lavoro anche quando sembra che non lo stia
facendo. E se non lo avesse ancora recepito, se lo metta bene in testa per le
prossime volte. Non posso sopportare un grillo parlante alle spalle,
specialmente quando fa osservazioni sconsiderate ed inutili.
-Bene, lo
terrò presente. – Non mi ero offeso, battibeccavamo spesso e circa una volta al
mese venivo licenziato per poi essere riassunto sbollita l’ira del momento.
Pertanto incalzai. –Ma per il nostro Klaus, di vermiglio abbigliato, come
dobbiamo muoverci? Chiamo Orrie Cather per mandarlo in giro, mi attacco al
telefono con lo stato balcanico, mi metto in contatto col Consolato del
Montenegro? Insomma cosa faccio?
-Niente,
Archie. Non deve fare niente, si rilassi e mi lasci parlare con il signor Fritz
prima che vada avanti propugnando la sua eresia. – Mi rassegnai e tornai nello
studio per evadere un po’ di scartoffie. Per vedere cosa si sarebbe inventato
Wolfe dovevo solo tenere a freno la mia curiosità fino all’indomani mattina,
quando sarebbe tornato il cliente. Ero quasi sicuro che questa volta avremmo
dovuto rinunciare all’incarico, ma la conseguente brutta figura non sarebbe
stata nella consuetudine del capo. Aspettai il giorno dopo.
Quando alle
undici e tre minuti Wolfe entrò dalla porta laterale del suo ufficio senza
salutare nessuno e si sedette alla scrivania imbronciato e lunatico come spesso
gli succedeva, il signor Kalus era già al suo posto nella poltrona degli ospiti
ed io pronto con il taccuino in mano per stenografare l’andamento
dell’incontro.
-Bene, bene.
– Esordì l’investigatore. – Ho lavorato alacremente sul caso. – A me non era
sembrato affatto, ma naturalmente non lo dissi. –Non è stato facile fare
ricerche a distanza di così tanto tempo e di migliaia di chilometri. Abbiamo
dovuto attivare tutte le risorse a nostra disposizione e mettere in campo ogni
capacità investigativa. – Cosa stava succedendo? Lo stimatissimo signor Nero
Wolfe stava mentendo ad un cliente magari solo per intascare il rimborso spese?
Non lo potevo credere.
-Quali sono
i risultati? – Chiese mr. Klaus.
-Non abbia
tanta fretta. – Rispose il capo. – Devo dire che il primo indizio per arrivare
ad una conclusione me l’ha fornito il nome stesso della persona scomparsa:
Brat. Come lei sa, il croato è la mia lingua madre e, anche se non lo parlo da
decenni, ancora ricordo il significato delle parole. A questo punto ho
ricostruito una specie di identikit dell’uomo. Grosso modo la mia età, e quindi
potevo averlo conosciuto durante gli anni della giovinezza trascorsi in patria;
una corporatura simile alla mia, pertanto non comune; tratti somatici non rari
dalle nostre parti, ma che mi hanno indotto ad immaginare una certa fisionomia.
-Vada
avanti.
-Calma,
calma. Una volta fattomi un’idea, mi si è poi posto il problema di come
raggiungere quell’individuo. Come da lei stesso affermato, la distanza fisica e
temporale era vasta, non facile da superare specialmente nel breve tempo dell’incarico
ma, come dice un noto proverbio, se Maometto non va alla montagna…E così ho
aspettato che si muovesse la roccia. - Confesso che non ci stavo capendo
assolutamente niente. Dai suoi discorsi sembrava che Wolfe avesse la soluzione
in tasca affermando di aver fatto in modo che lo scomparso si rivelasse
spontaneamente. Però io sapevo bene che non era così, vista l’assoluta
inattività dell’investigatore nelle ultime ore. E quindi?
-E quindi? –
Klaus si fece portavoce dei miei pensieri.
-Stamattina…
- Io ed il cliente pendevamo dalle labbra di Wolfe che, evidentemente, si stava
divertendo a tenerci sulla corda. – …poco dopo che Goodwin ebbe aperto la porta
d’ingresso, entrò in questa casa il ricercato. – Sbottai:
-Ma non è
venuto nessuno, tranne Klaus.
-Esatto,
Archie. Klaus, o meglio Brat, che in croato vuol dire fratello, è mio fratello
Miroslav che con la sua messinscena ha voluto farmi una sorpresa e mettermi
alla prova. – A queste parole i due omaccioni si alzarono dalle rispettive
poltrone e si abbracciarono. Forse per la prima volta vidi le commozione negli
occhi di Wolfe per aver ritrovato il suo familiare dopo tanto tempo. Miroslav si
strappò la barba finta con una grande risata:
-Pensavo di
metterti in difficoltà, fratellone, ma avevo sottovalutato le tue cellule
grigie che in parte abbiamo anche in comune. Mi sembrava banale suonare al
campanello e presentarmi così, semplicemente. Ho voluto divertirmi un po’ e
credo che anche tu abbia gradito la piccola burla.
-Caro mio,
ci vuole altro per mettere in imbarazzo Nero Wolfe! – Il capo se lo disse da
solo, ma in fondo aveva ragione.
Fu un Natale
particolare pieno di chiacchierate in un idioma del quale non capivo un
accidente e di grasse risate accompagnate da fiumi di birra, mentre Fritz
dovette fare gli straordinari preparando portate che sembravano più adatte ad
un battaglione di marines che a soli due ospiti. Per fortuna il cinodromo è
aperto anche durante le feste ed io, con questa scusa, me la svignai di casa.
Un Wolfe è tanto, ma due sono decisamente troppo!
sabato 7 dicembre 2019
Blondie
Un raggio di
sole per scaldare un po’. Per immaginare il calore di un abbraccio che le aveva
lasciato solo freddo. Ed una sigaretta in mano. Cosa c’è lontano, oltre quella
finestra in mezzo al verde delle colline dove la natura vive nella semplicità
di un ritmo sempre uguale? Ne è valsa la pena o è stato solo un gioco? Una
leggera brezza entra dalle imposte spalancate all’ora del tramonto, quando il
fresco della sera annuncia la notte ormai prossima ed un bicchiere è in attesa di
consolare accompagnando oltre lo sgomento. Brividi sulla pelle nuda, mentre il
pudore è come un guanto di sfida lanciato in faccia a qualcuno là fuori. Un
vestito lungo, di paillette nere, attaccato alla gruccia dentro l’armadio e le
scarpe dal tacco alto buttate sotto al letto. Passione o commedia, ancora una
volta? Ha poca importanza mentre, come in un antico rito pagano, si lascia
purificare dalla luce. Lunghi capelli biondi appena spazzolati con rapidità, un
velo di rossetto e l’ombretto con qualche sbavatura disegnano un volto triste che
parla della melanconia legata ad un’esistenza della quale ha capito bene il
significato già da molto tempo. Ma un’ombra di sorriso rivela che in realtà
tutto ha scarsa importanza; sarebbe quasi buffo se non fosse desolante ed a
volte tragico. Lei si barcamena nell’avventura della vita cancellando, o
provando a farlo, le tante mezz’ore piene di false risate e vuote di qualsiasi
intimità. Aspira voluttuosamente e sogna. La California, forse, o un nuovo inizio,
magari solo quello che potrebbe essere e che, se Dio vuole, un giorno sarà. Fra
poco si rivestirà, ha già dimenticato con chi ha diviso il letto ed è sicura
che anche lui sta fumando, in una macchina lanciata sulla statale, pensando a
sua moglie. Non c’è rimorso per una avventura senza importanza. Eppure in
questa giornata di sole che sta finendo la speranza non è morta, siamo ancora
in estate e tutto può accadere quando la pioggia è lontana ed il freddo
soltanto una minaccia. Ancora un momento, le ombre si allungano, un tremito
fugace e l’attimo si chiude. Piano, di malavoglia, schiaccia il mozzicone nel
portacenere ormai colmo, s’infila il vestito da sera, che a quell’ora sembra
solo ridicolo, ed infila le scarpe scomode. Quelle banconote sul comodino le
danno quasi un senso di superiorità nei confronti di chi le ha lasciate
pensando di comprare la parvenza di un amore per avere in cambio una bugia. Le
prende e le infila nella borsetta tra fazzoletti e bustine che promettono
protezione. Chiude la porta della stanza dietro di lei. Fuori si sta consumando
il tramonto. Il parcheggio del Motel è quasi vuoto, Frank, il gestore, si affaccia
dalla porta del suo ufficio: “Ciao Blondie!”. Lei alza lo sguardo, fa un cenno
con la mano e si avvia verso la vecchia Buick. Accende il motore ed anche le
luci della macchina: è notte, e lei ci si tuffa dentro.
venerdì 15 novembre 2019
La pensione di Santa
Avrebbe
voluto andare in pensione, mollare tutto e trasferirsi in un paese caldo per
rosolarsi al sole dalla mattina alla sera. Forse in Portogallo. Non ne poteva
più della neve, del freddo e delle aurore boreali. Basta licheni, ghiaccio e
foche, voleva le palme, la sabbia ed i delfini. Pretendeva che all’alba
nascesse il sole senza che rimanesse il buio come a notte fonda e di assistere ogni
tanto ad un tramonto con tutte le sfumature di rosso possibili ed immaginabili.
Aveva la nausea delle aringhe, del salmone e delle bacche; ananas, mango e
papaia, possibilmente annaffiati da una caipirinha al suono di una samba o di un
merengue: ecco la giusta dieta. E che dire di tutte le ragazzotte infagottate da
strati su strati di indumenti pesanti che gli giravano intorno? Ci aveva
convissuto per tanti anni, ma ora gli sarebbe piaciuto contornarsi di miss maglietta
bagnata e di qualche sua collega altrettanto sportiva. Si sarebbe sentito come
un giovane attempato ritrovando lo spirito di anni che in realtà non aveva mai
vissuto. Non vedeva l’ora di buttare nella spazzatura l’agenda con i giorni mancanti
alla data della consegna cerchiati in rosso facendola seguire da quel ridicolo
cappello col pon-pon che aveva sempre detestato. Via anche gli stivaloni
bordati di pelliccia da sostituirsi con delle havaianas colorate e da un bel sigaro
cubano tra le labbra. Forse si sarebbe anche tinto la barba. Insomma, era stufo,
stufo, stufo!
Finché il
business era andato per il verso giusto con tutti i clienti soddisfatti e
riconoscenti, aveva sopportato ogni disagio, ma ormai i suoi prodotti erano superati
e lui non aveva alcuna intenzione di adeguarsi alle nuove tendenze del mercato.
Era tempo di passare la mano, tirare i remi in barca, mollare la presa,
chiamarsi fuori, chiedere l’ultimo giro, calare la saracinesca, dare forfait,
passare le consegne. Insomma il concetto è chiaro: lavarsene le mani e chi s’è
visto, s’è visto.
Babbo Natale
chiamò Alabaster Snowball, il capo elfo.
-Allora, che
vogliamo fare? – disse il vecchio al piccoletto.
-In che
senso, pardon?
-Ahhh,
Alabà, non ti ci mettere pure tu! M’hai capito bene: dobbiamo andare avanti con
la produzione anche quest’anno o chiudiamo baracca e burattini?
-Ma, capo,
di letterine ne sono arrivate tante.
-Lo so, però
cosa chiedono?
-La maggior
parte vuole telefonini e giochi elettronici, qualcuno capi di abbigliamento ma
solo se rigorosamente firmati dalle griffe che vanno per la maggiore.
-Ecco, lo
vedi? A meno di non trasformarci in pataccari, ovvero produrre oggetti con il
marchio falsificato, in realtà non riusciamo a soddisfare quasi nessuno. La
Ditta è sempre stata specializzata in trenini, bambole e pupazzi di peluche. Ne
sfornavamo una quantità impressionante e io li consegnavo in ogni parte del
globo, tutti in una sera. Adesso chi vuole va su Amazon e quelli gli consegnano
il pacco a casa in un giorno con in più il diritto di reso. Il DIRITTO DI RESO
capisci?
-Cosa c’è di
strano?
-Come: “cosa
c’è di strano”? Elfetto mio caro, ti immagini se dessimo anche noi una facoltà
simile? Il 26 dicembre saremmo sommersi da una valanga di pacchi di ritorno
perché magari l’i phone era il numero otto invece che il nove o la chanellina
nel frattempo era passata di moda. E poi magari i produttori ci farebbero causa
per contraffazione. Un inferno al Polo Nord! Questo lo scenario.
L’elfo fu
scosso da un brivido. I due rimasero un momento in silenzio a capo chino,
ognuno immerso in cupi e nefasti pensieri. Poi Babbo Natale si scosse,
raddrizzò la schiena e, con voce stentorea, annunciò:
-Basta, ho
deciso: chiudiamo!
Il buon
Alabaster Snowball, o meglio Alabà come era chiamato comunemente, aveva le
lacrime agli occhi. Non si poteva immaginare disoccupato al tavolo di un bar intento
a giocare a ramino con Bushy Evergreen, Minstix Pepper e Shinny Upatree senza
avere altro da fare. Wunorse Openslae non l’avrebbero chiamato perché era un
rompiballe e tale sarebbe rimasto anche in pensione. Il lavoro di una vita
sfumato, perso, gettato nella fornace del progresso, se tale si poteva
chiamare. Tanta cura, professionalità, dedizione vinte dal mostro telematico e
da un imprenditore pelato dall’occhio sifulino.
-Aspetta. –
Interloquì il folletto cercando di frenare l’impulsività del Principale. – Noi
stiamo considerando solo l’aspetto, per così dire, commerciale della faccenda.
Prova a vedere la questione da un altro punto di vista.
-Spiegati! –
disse burbero il vecchio che con la mente stava già alle Bahamas.
-Beh, tu non
hai mai portato solo giocattoli, ma hai consegnato altro di ben più importante.
-Gioielli
intendi? Raramente, anzi quasi mai e sempre di malavoglia: non rientravano nel
catalogo.
-Nooo, che
hai capito? – Disse l’elfo con uno sbuffo d’impazienza.
-Piccoletto,
non ti permettere! – Babbo Natale già non aveva un carattere facile, ma ad essere
preso per scemo non ci stava proprio.
-Scusa,
capo. Mi sono espresso male.
-Ambè, vai
avanti.
-Tu, noi se
mi consenti, abbiamo costruito la favola. Abbiamo messo in scena una storia,
alla quale tutti fanno finta di credere, fatta di gioia, speranza e serenità
che almeno per un breve periodo ogni anno, scalda il cuore e fa sentire un po’
migliori di quanto in realtà siamo. Per i bambini noi rappresentiamo il mistero
della notte di Natale, quando un postino ciccione vestito di rosso premia la
loro bontà e perdona le marachelle. Se non ti vedessero più, chi darebbe loro
l’eccitazione dell’attesa? Come
potrebbero vivere l’emozione che toglie il fiato sentendo, nel cuore della
notte, un rumore improvviso provenire dal salotto e la frenesia di rimanere
costretti sotto le coperte in attesa che venga mattina per correre a vedere se
Babbo Natale si sia ricordato di loro? E poi la gioia di scartare una marea di pacchetti
nuotando tra onde di carta colorata e riccioli di nastro dorato.
-Mhhh, già,
già.
-Ma non solo
i bambini.
-Oh, bella.
E chi altro?
-Allora sei
di coccio! Scusa capo, non volevo. Colpa mia, mi spiego meglio. Io credo che la
nostra attività sia benefica soprattutto per i “grandi”. Perché non si è mai
del tutto grandi. In fondo al cuore di ogni uomo o donna con i capelli grigi
vive per sempre un bambino con il suo mondo di favole e fantasia. Forse solo
noi sappiamo risvegliare per un momento quel fanciullo e riscoprire la voglia
sopita di sognare, di credere in un mondo migliore, nella bontà al posto del
cinismo. Di concedere una tregua, anche se solo fittizia e temporanea, alla
guerra quotidiana che coinvolge ogni esistenza. Quanto vale un attimo, un breve
attimo, quando un improvviso ricordo fa scivolare dalle spalle il peso grave
degli anni e ci si ritrova insieme ai propri cari lontano nel tempo, durante la
notte più lunga dell’anno? Per poi rinnovare, anno dopo anno, generazione dopo
generazione, lo stesso incantesimo lasciando in tutti un seme che forse, ogni
tanto, potrà far sbocciare un fiore d’inaspettata bellezza. E tu vorresti
togliere tutto questo?
Si vedeva
che il vecchio pancione era rimasto colpito dalle parole del piccolo, saggio
elfo. Grattandosi la barba bianca con impegno, riconsiderava tanti aspetti del
suo lavoro che la routine gli aveva fatto dimenticare, così come accade un po’
a tutti di sottovalutare le cose importanti travolti dalla quotidianità.
-Caro,
preziosissimo, Alabaster Snowball: hai ragione. Annullo la mia decisione
precedente e confermo a te ed a tutta la banda di elfi, renne e compagnia varia
che il nostro impegno continua con lo stesso entusiasmo ed allegria! E
quindi…al lavoro tutti insieme! Ohh, ohh, ohh!
In fondo,
pensò Babbo Natale, a chi piacciono caipirnha e miss con la maglietta bagnata?
Ma non ne era del tutto convinto.
venerdì 18 ottobre 2019
L'attesa
Era scesa la sera e faceva freddo. Fermo al solito angolo di strada si stringeva le braccia al petto in un abbraccio solitario per trovare almeno un po’ di calore. Batteva i piedi e sbuffava nuvolette di vapore facendo finta di aspettare qualcuno. Ma non aveva alcun appuntamento, nell’ora in cui le brave persone corrono a casa per la cena.
Era scesa la sera, faceva freddo ed era solo. Ma non gli pesava, si faceva compagnia con un dialogo immaginario ed ininterrotto dentro la sua testa. Pensava battute spiritose che normalmente non gli sarebbero mai venute alla bocca, osservazioni intelligenti per rendersi interessante o discorsi che iniziavano bene per finire nel nulla.
Era scesa la sera, faceva freddo ed era solo e disperato. Forse disperato è dire troppo, in fondo coltivava ancora una piccola speranza, altrimenti non si sarebbe trovato all’angolo di quella strada come un mendicante in attesa dell’obolo di uno sguardo. Il suo desiderio era simile ad un bel fiore che cercava di innaffiare col ricordo, ma che avvizziva sempre più perdendo ogni giorno qualche petalo. Il profumo però no, quello anche se in parte svanito, lo ricordava bene.
Era scesa la sera, faceva freddo, era solo e disperato ma non voleva arrendersi. Nonostante le parole fossero state chiare, era pronto a combattere perché ne andava della sua vita. Non poteva credere che i sussurri di certi momenti, quegli sguardi e le mani che si sfioravano, avessero sempre mentito. Aveva accettato la sentenza, ma il suo cuore diceva che non era giusta.
Era scesa la sera, faceva freddo, era solo e disperato ma non voleva arrendersi, almeno per quella notte ancora. Se lo diceva ogni giorno: non sarebbe più tornato! Però avvertiva che quel piccolo sacrificio era l’ultimo esile legame che una volta reciso avrebbe decretato la fine. Ma si sentiva ridicolo e stupido, oltre che illuso, ed allora basta. Si toccò il cappello come in un cenno di saluto, si voltò e riprese il cammino.
L’aveva visto. Dalla finestra della sua camera tutte le sere scostava le tende di uno spiraglio e lo scorgeva all’angolo della strada sul marciapiede di fronte. La rabbia iniziale aveva via via lasciato spazio alla tenerezza, ad una sorta di rimpianto dove le lacrime avevano perso significato lasciando solo lo struggente ricordo di una passione. Forse aveva sbagliato, magari bisognava chiarire. Di slancio aprì la finestra per chiamarlo, per dirgli di aspettare, di salire da lei. Si affacciò e vide da lontano la figura dell’uomo che si allontanava col capo chino, le mani sprofondate nelle tasche ed il passo veloce. La sua voce non poteva più raggiungerlo. Chiuse le imposte e rimase in attesa che giungesse la sera dell’indomani.
martedì 15 ottobre 2019
Late Blossom
Gli inglesi dicono: “late blossomed tree” per riferirsi a quelle persone i cui talenti vengono scoperti o si rivelano in tarda età. Non parlo di studiosi che hanno fatto un lavoro di ricerca per tutta una vita e che dopo molti anni riescono a raggiungere il loro scopo, per questi è abbastanza normale che l’esperienza accumulata porti ad un risultato, ma di quanti manifestano una capacità nascosta fino quasi al limite del tempo massimo. Ci sono alcuni casi, anche clamorosi, nelle attività imprenditoriali. Per citarne uno, il colonnello Sanders che decise un giorno di mettere a frutto la sua passione per le alette di pollo fritte aprendo dapprima una specie di rosticceria, e poi tante altre di seguito, fino a diventare un leader nel settore sotto l’insegna “Kentuky Fried Chicken”. Sanders non tenne conto di avere 62 anni, anzi per sottolineare la sua esperienza di uomo vissuto ed offrirla come garanzia ai potenziali clienti, mise la sua bella faccia sul marchio d’impresa con tanto di occhiali, baffoni e barbetta bianca. Un successone! Però il campo nel quale si può trovare il maggior numero di questi frutti tardivi, che spesso sono i più dolci, è indubbiamente quello delle arti. Bisogna considerare che ai nostri giorni la vita media si è allungata molto, pertanto quando si pensa ad un uomo di cinquant’anni di un secolo fa s’immagina più o meno un vecchio, mentre per i canoni odierni è appena, appena una persona matura. Quindi gli artisti del passato che hanno espresso il meglio di sé intorno alla cinquantina o sessantina, dobbiamo annoverarli nella lista degli arrivati tardi, e non sono pochi. Esempi? Eccone servito qualcuno tra i letterati. Dopo il nome, tra parentesi, segue l’età nella quale pubblicò, o si fece conoscere, per la prima volta.
Charles Bukowski (51)
Laura Ingalls Wilder (65)
Mary Ann Evans / George Eliot (55)
Jose Saramago (60)
Frank McCourt (66)
Mary Wesley (72)
Andrea Camilleri (69)
E si potrebbe continuare, senza contare i “postumi” che certamente non hanno provato il gusto del successo, ma almeno vengono ricordati nelle preghiere dei loro eredi per i diritti d’autore.
A questo punto i più arguti tra i lettori di queste poche righe avranno già capito dove voglio andare a parare. Essendo ormai entrato in un’età che alcuni chiamano terza, ma dipende da che parte la si guarda, e non potendo più sognare di vincere Wimbledon o stare sotto le tre ore nella maratona (ma neanche sotto l’ora nei cinque chilometri), forte di tanti illustri predecessori, punto al Guinness degli scrittori ritardatari. Ovviamente verranno sempre prima le cose “importanti”, ma mi piacerebbe assai passare un giorno davanti alla vetrina di un libraio e vedere in mostra una pila di copie del mio ultimo romanzo. La copertina sarebbe rigorosamente in bianco e nero, per fare intendere contenuti impegnati scevri da frivolezze, mentre sul risvolto si potrebbe scorgere un mio ritratto fotografico con la pipa in bocca e gli occhiali. Si, l’ammetto, per darmi una parvenza da intellettuale sarei disposto anche a ricominciare a fumare la pipa. Di traverso, sul vetro del negozio, uno striscione griderebbe: “L’autore rivelazione dell’anno! Un milione di copie vendute in un solo mese!”. Non è detto che non succeda, d’altronde ho ancora tutto il tempo che voglio. Forse.
martedì 8 ottobre 2019
La Bambina Volante
La bambina
lasciò la mano della madre e si lanciò, di corsa, lungo il viale alberato che,
come intagliato da un fendente, separava la pineta di un parco cittadino esteso
quanto un piccolo bosco. La ghiaia scricchiolava sotto i passi leggeri battuti
dalle scarpette di vernice nera e qualche passero sceso a terra per becchettare,
spaventato, svolazzò via in un frenetico frullare d’ali. Sul viso le guance
rubizze e gli occhi ridenti, mentre un lieve affanno le accelerava il respiro facendo
rimbombare il battito del cuore dentro le orecchie. Il cappottino di lana
pesante, il cappello che le scivolava sugli occhi ed i calzettoni calati giù
non le impedivano di immaginarsi come il tenero cerbiatto visto in un cartone animato
sgroppare felice verso il sole. Sentiva la mamma da dietro chiamarla dicendo di
fermarsi, ma ormai le sue gambette avevano acquisito una vita propria e lei non
riusciva quasi più a governarle. Andavano in piccole falcate intramezzate da
qualche salto più lungo e mentre un piede toccava terra, l’altro si portava
avanti automaticamente. La strada era in leggera discesa e l’abbrivio favoriva
i balzi che per qualche istante facevano librare nell’aria la bambina. Era una
sensazione strana da provare ed improvvisamente si sentì capace di volare.
Provò ad allungarsi il più possibile per favorire quel magico planare e, nella
sua mente, ad ogni slancio era certa di coprire distanze sempre maggiori. Non
avvertiva più alcun peso ed immaginò di sollevarsi da terra, dapprima di pochi
centimetri poi sempre più su fino alla cima degli alberi ed anche oltre. Non
provava alcuna paura a stare così in alto, anzi pensava che per lei, tanto speciale,
prendere il vento come un aquilone rappresentasse una condizione normale come
per gli altri salire su un autobus. Vedeva le persone là sotto camminare ignare
e le vennero in mente i pupazzetti del grande plastico ferroviario in camera
del fratello: tutti vestiti bene, alcuni affaccendati, ma anonime ed
insignificanti comparse di un teatrino allestito solo per gioco. Poteva
addirittura riconoscere la mamma che ancora la stava chiamando, forse
preoccupata di non scorgere più la sua piccola. Quando avrebbe mostrato la propria
capacità alle amichette era sicura che l’avrebbero invidiata perché lei poteva
giocare tra le nuvole ed arrivare a scuola in un momento. Forse anche il
giornale si sarebbe accorto del fenomeno scrivendo un articolo intitolato: “la
bambina volante”, suo padre l’avrebbe letto e con la tata avrebbero preparato
per lei un letto in soffitta, accanto all’abbaino, per farla dormire più vicina
al cielo. Da grande sarebbe diventata una “super eroe” con un costume tutto
rosa e luccicante, impegnata in mille missioni per salvare la gente e gli
animali in difficoltà. Ed avrebbe vissuto a New York, chissà perché. Ancora
qualche passo veloce ed un lungo salto, mentre godeva di quel momento di
felicità che avrebbe poi ricordato senza più riconoscere il confine tra la
realtà ed il sogno. Come per ogni bella storia, accadde l’imprevisto. La
bambina non si accorse di una radice nascosta tra le foglie, inciampò e cadde sbucciandosi
un ginocchio. Si mise a piangere e tutto svanì in una bolla di sapone non
lasciando altro che la nostalgia di un desiderio impossibile.
Molti anni
dopo, su una panchina al bordo di quello stesso viale, una bella anziana
signora chiuse gli occhi godendo del sole ancora caldo dell’inizio di un
autunno clemente. Un piede, involontariamente, strusciò sui sassolini e d’improvviso
un dolce sorriso le illuminò il volto. La donna sentì il velluto del colletto
di un’antica redingote carezzarle la guancia mentre, col gesto di una mano,
buttò all’aria un fastidioso immaginario cappellino. Poi spiccò il volo
liberandosi di ogni fardello tirato appresso da una vita e, nuovamente fanciulla,
scorse dall’alto una vecchia seduta all’ombra dei platani. Non la riconobbe, ed
in fondo non aveva torto: lei era sempre stata, e sarebbe rimasta per sempre,
quella bambina che sapeva volare.
venerdì 4 ottobre 2019
Solo una sfumatura d'ocra
La vecchiaia
è come una grande nevicata che ricopre ogni cosa. Lo strato bianco si posa sui
capelli e sui prati, avvizzisce la pelle e secca le foglie, spenge gli
entusiasmi e soffoca le gemme. La vecchiaia è una mano che vela gli occhi, un
peso sulle spalle, un gioco che nessuno vorrebbe giocare, una voce melliflua e
falsa che soffia nelle orecchie. E’ un giro di carte dove la posta è sempre
tutto quello che si possiede, un’allucinazione resa reale, una condanna
immeritata. E’ un inganno accettato, una vile compagna che si approfitta della
rassegnazione, la facile scappatoia di verità scomode. La vecchiaia è una
compare mendace che porta su strade che conducono ad un’unica meta, s’impone
senza essere stata invitata, dà consigli che favoriscono solo lei e cresce ogni
giorno nutrita dalla mancanza di speranza. Ogni rinuncia è una vitamina che la sostenta,
la sfiducia è per lei un balsamo, cinismo e pessimismo sono i suoi doni. Si giustifica
col fatto di essere inevitabile e si vanta di essere desiderata da coloro che
non hanno il coraggio di ripudiarla. In cambio del tempo, pretende sempre di
più; impone una resa incondizionata a fronte di una pace letale che tutti
accettano, rassegnati e stanchi. Ma la neve non ha ucciso i semi nel terreno,
li ha solo spinti verso uno strato più profondo. Quei piccoli concentrati di
vita dove tutto è compreso senza niente tralasciare, rimangono nascosti, minuscoli
insignificanti granelli dove si rispecchia l’universo. Protetti da una buccia
sottile tramandano il proprio codice genetico e, forse, con esso tanti racconti
quanti erano stati i calici che li avevano generati. Ugualmente la vecchiaia
sopisce la memoria, a volte la confonde, ne oscura alcuni tratti, ma non riesce
a cancellarla. Ottunde ed inasprisce i caratteri, ma l’ocra di una foglia
d’autunno è solo la nuova sfumatura di un verde passato di moda.
domenica 4 agosto 2019
Un fiore
Mi piacerebbe che sul nostro pianerottolo ci fosse un banchetto di fiori. Fisso, ventiquattr’ore al giorno, con un omino gentile che non si stancasse mai di aspettare o, se dovesse assentarsi, si alternasse con un altro ugualmente presente. Dovrebbe essere fornito di fresie in primavera e grandi peonie, di quelle sfumate sul colore del rosa e con l’aspetto un po’ decadente, verso maggio. Mazzi di lavanda nel mese di luglio, ciclamini all’inizio dell’inverno e rose tutto l’anno. Sotto Natale non dovrebbe rifornirsi di quelle piante rosse abbastanza banali, ma creare composizioni di agrifoglio e bacche con rami di abete e stecche di cannella per spargere intorno l’odore delle Feste. E’ chiaro che, visto lo spazio disponibile, non mi aspetterei di trovare una vasta scelta, ma sarebbe sufficiente che, come nei migliori negozi di alimentari, offrisse sempre delle primizie o delle ricercatezze selezionate fra le migliori sul mercato in quel momento. L’ometto dovrebbe anche essere una persona di gusto e con un certo senso estetico. Anche la presentazione è importante ed a lui spetterebbe l’abbinamento nei colori della carta crespa con i nastri e dei fiori tra loro, senza mai abbondare nella nebbiolina che spesso svilisce la composizione. Non gli si potrebbero chiedere bigliettini spiritosi o romantici, i fiorai non li hanno mai, ma ci si farebbe bastare uno di quelli bianchi anonimi sul quale scrivere un pensiero o magari, oggi si usa, un piccolo disegno. Insomma, tutto molto curato e disponibile. Già, ma l’obiezione del venditore di fiori sarebbe inevitabile ed ovvia. Non c’è abbastanza passaggio sul pianerottolo, direbbe. Ed avrebbe ragione, al nostro piano ci sono solo due appartamenti e il mio dirimpettaio ha una bella terrazza con molte piante e non credo sarebbe un gran cliente. Però, caro fioraio, io le vorrei spesso regalare un fiore quando di notte la guardo dormire, e poi quando torno a casa le vorrei dare un fiore che parli per me. Ancora un fiore quando, come adesso, scrivo e penso a lei, ed un altro da lasciare sul tavolo in cucina per accompagnare la colazione. Un fiore per ogni parola non detta, un fiore per ogni pensiero tenuto per me, un fiore per ogni volta che la rivedo, un fiore per quando mi sta vicino. Ancora fiori che dicano: grazie, che dicano: il tempo non esiste, che dicano: sono qui. E poi fiori per festeggiare una ricorrenza o solo un altro giorno vissuto insieme, per rallegrare la casa o per vederla sorridere. Fiori da lasciare in un piccolo vaso di vetro sul lavandino, da infilare tra le pagine della sua agenda fitta di impegni, sulla scrivania dove lavora. Un altro fiore, solo uno, per non finire mai di darle un fiore.
Come vedi, caro fioraio, sul mio pianerottolo la clientela sarebbe sicuramente poco numerosa, ma se il tuo mestiere è anche spargere un po’ di amore, qui avresti da lavorare
venerdì 2 agosto 2019
Vito
-Se volete
vi racconto cosa è successo ad un conoscente di mia cugina mentre viaggiava in
treno – Gibbo dalla sua postazione al tavolo del bar, con la solita cerchia di
amici a fargli da corona, si propose per l’ennesima storiella al confine tra
realtà ed immaginazione. In quel tardo pomeriggio di metà luglio, il sole aveva
appena sfiammato e si era alzato un refolo di tramontana portando una parvenza
di refrigerio, come un ruscello d’acqua fresca per bocche assetate. Nessuno
aveva voglia di andare a casa per ricominciare a sudare di fronte al solito
Piero Angela o all’ennesima replica di un Montalbano ormai usurato dai troppi
passaggi televisivi, quindi un caffè lungo in tazza grande si fece portavoce
degli altri:
-Vai avanti,
ti ascoltiamo.
-Bene. – Fu
l’incipit. – Questo tale di cui non ricordo il nome, per comodità lo chiameremo
Pierermengardo, doveva recarsi da Napoli a Venezia. Aveva fretta, non poteva
rimandare il viaggio e così prenotò l’ultimo posto disponibile su una carrozza
del Freccia Rossa. Gli assegnarono una poltrona libera in una specie di
scompartimento vecchia maniera allestito per passeggeri che tengono alla loro
privacy. A lui, ovviamente, non dispiacque, immaginando di trovare come
compagni di viaggio uomini d’affari o persone in cerca di riservatezza e raccoglimento.
-Vabbè, ma
pagava di più. – Interloquì un bicchiere d’acqua del rubinetto noto per il suo
braccino corto.
-Non gli
interessava, andiamo avanti. – Gibbo non si fece distrarre. – Dove ero rimasto
… Insomma, salì sul treno e prese il suo posto, ma si accorse subito che non
sarebbe stato un viaggio facile. Infatti, invece dei supposti colleghi di
percorso, le altre tre poltrone del piccolo privé erano occupate da una giovane
signora con due ragazzini di sei, otto anni e un altro bimbetto di circa tre
sulle sue ginocchia. Sembravano tranquilli, mezzo addormentati, ma non appena
il locomotore si mosse fu come se avessero sentito lo sparo di uno starter, si
riscossero tutti insieme cominciando ad urlare, frignare e farsi dispetti.
-Ahi, ahi,
ahi. – Chiosò un succo di frutta con un po’ di granita.
-Fu
esattamente quello che pensò Pierermengardo. Vabbè, chiamiamolo Vito. Si spaventò
moltissimo, ma la madre, la zia o la governante dei fanciullini, non sappiamo,
lanciandogli un’occhiata di scusa, cercò di attirare l’attenzione dei piccoli:
“Bambini, state buoni. Venite qui vicino che vi racconto una storia.” Il più
grande, quello di otto anni, che per comodità chiameremo Gianabbondanzio, no:
meglio Ugo, tirò la veste della bambina di sei, denominiamola … Mariaddolorata, no: Eva, facendole
l’occhietto in segno di intesa. Il piccolo di tre con la faccia decisamente di
un Pio, al momento si era estraniato perso in profonde riflessioni
probabilmente ispirate dalla forma di un bottone della sua giacchetta che
continuava a rigirare tra le dita osservandolo attentamente.
-Veniamo al
dunque! – Esortò uno Strega doppio con scorzetta. Era stato un militare di
carriera e tante digressioni contrariavano il suo senso pratico.
-La donna
cominciò a raccontare, ma partì subito male. Descrisse una bimbetta che andava
per i boschi a raccogliere fiorellini e così via. I bambini di favolette simili
ne avevano sentite a centinaia pertanto, dopo poche parole, ricominciarono a
urlare tra di loro ed a giocare ad acchiapparella saltando sui sedili. Vito era
sicuro di non poter sopportare tante ore di viaggio in mezzo a quella canizza,
ed allora si rivolse alla signora: “Mi scusi se m’intrometto, ma lei non è
proprio capace di narrare delle storie. Per forza i bambini non la stanno a
sentire.” “Ma come si permette?” Gli rispose piccata. “Se è tanto bravo, ci
provi lei!” L’uomo raccolse la sfida. Batté le mani forte per sovrastare la
cagnara e, ottenuto un attimo di tregua, s’inserì con un nuovo racconto.
“Allora, bambini: c’era una volta una fanciulla molto, ma molto, ma molto
buona.” Ugo e Eva si scambiarono uno sguardo che parlava di scetticismo se non
di derisione, ma concedendo credito all’estraneo perché, saggiamente, non si sa
mai, lo fecero continuare. “Era tanto buona che la fama della sua bontà giunse
al Principe di quel Paese.” Partì dal maschietto il primo: “Perché?” “Perché,
cosa?” rispose Vito, ma Ugo tenne il punto: “Perché?” L’uomo comprese la
pericolosità di addentrarsi in spiegazioni che, come in una perversa spirale,
gli avrebbero fatto smarrire la trama del racconto a scapito del pathos della
sua creazione fantastica. Replicò nell’unica maniera adatta in questi casi con
un perentorio: “Perché sì” che definì la questione.
-Vabbè, in
effetti non mi sembra una grande storia. – Disse, scettico, un chinotto subito
confutato da un crodino con patatine e noccioline: - Aspetta, ha appena
iniziato. Dagli tregua, subito a sparare sentenze!
-Vabbè,
vabbè, però il chinotto è caldo!
- Posso
andare avanti? – Chiese Gibbo pleonasticamente, e subito riprese: - Vito
continuò nella sua favola: “Il Principe volle premiare la bambina e le concesse
un privilegio che a nessun altro suddito era mai stato accordato. Dapprima,
durante una solenne cerimonia, le appunto sul petto tre medaglie d’oro, per la
bontà, l’altruismo e la puntualità, poi le permise di entrare nel suo
meraviglioso giardino privato. Fra i sudditi si narrava che fosse ricco di
tutte le specie di piante che esistevano al mondo, di fiori tra i più profumati
e di almeno una coppia per ogni animale, anche i più esotici.” “Perché?” Ancora
Ugo, ma questa volta fu ignorato. “In un bel pomeriggio di primavera la
bambina, da sola, varcò i cancelli del giardino. Rimase subito incantata dai
colori, dai profumi e dal canto di mille specie di uccelli che volavano tra gli
alberi. Iridescenti colibrì suggevano da fiore in fiore, luccicanti pesci nei
laghetti mostravano le loro argentee livree e scoiattolini curiosi
s’intrufolavano tra le gambe della bimba. Lei era felice. Vide una giraffa, un
elefante e un ippopotamo, ma se ne tenne alla larga. Improvvisamente sentì un
ruggito provenire da poco distante. Si spaventò moltissimo e, pensando al
peggio, si guardò intorno in cerca di un riparo.” Vito aveva vinto. I bambini
stavano in silenzio, con la bocca spalancata in attesa che proseguisse. Pio aveva
abbandonato il bottone per passare all’analisi del frutto del suo naso estratto
con la punta del dito. “La bambina vide un cespuglio di mirto e vi si buttò dentro
sperando che, con il forte odore dei suoi fiori, ne avrebbe nascosto le tracce
salvandola dal leone. La bestia si avvicinò alla pianta rovistando un po’ con
le grosse zampe, ma sembrava confusa, come se avesse perso il profumo della
carne fresca. Sollevò il muso all’aria e stava per andarsene quando un
involontario movimento della bambina fece tintinnare le medaglie appuntate sul
suo petto. Il leone si voltò, la vide e si avventò su di lei. Dopo, della
bambina furono ritrovate solo le scarpette, pochi brandelli del vestitino insanguinato
e le medaglie.” Non era il finale che si aspettavano i piccoli. “Vedete, cari.”
Concluse Vito tirando la morale. “Non sempre conviene essere buoni e quello che
sembra un premio a volte può rivelarsi la peggiore delle punizioni. Meditate,
cari, meditate” Sentito questo, la madre prese i figli e strattonandoli li fece
uscire in tutta fretta dallo scompartimento, lontani da quel tipo pericoloso.
In fondo era quello che voleva Vito. L’uomo prese un giornale e si stese per
tutta la lunghezza del sedile. Fu un viaggio comodissimo.
Era ora di
andare, le mogli aspettavano a casa e Montalbano si poteva vedere ancora una
volta.
martedì 16 luglio 2019
Un soffio
Un lungo viaggio inizia con un passo: è vero, ma spesso tanti passi non portano dove si vuole andare. Ci sono tante cose che condizionano il cammino e molte di queste non sono controllabili o addirittura fanno parte di qualche altro mondo. Il destino non è mai totalmente nelle nostre mani e se ci illudiamo di influenzarlo o perfino di determinarlo, spesso con un sadico senso dell’umorismo cambia strada imboccando vie impervie o illusorie discese. La fortuna è un diamante sfaccettato che riflette ogni piccola luce trasformandola in schegge di stelle, ma in definitiva è solo un pezzo di carbone dimenticato sottoterra. Così ogni avvenimento di qualsiasi vita vale per il momento nel quale viene vissuto, importante fino a quando gli si dà importanza, rilevante come la tessera di un grande puzzle del quale non si riesce a cogliere il disegno. Navighiamo in un mare misterioso al quale siamo tanto abituati da far finta che non esista, viaggiamo sfiorati da ombre che non urtano, circondati da un ignoto sempre presente, mentre un’intuizione non nostra ci spinge dove non sappiamo mai. Eppure la prosopopea di dirci uomini ci illude di scegliere, o meglio ci fa credere che il risultato delle nostre azioni sia la conseguenza di decisioni prese con una logica frutto dell’esperienza. Invece ogni giorno tiriamo i dadi attenti solo a non puntare troppo, ma se usciremo da questa sala giochi che si chiama vita con le tasche piene, non di soldi ma di consolazioni, oppure avremo solo passato il nostro tempo soffiando sui pugni per ingraziarci la sorte senza altro risultato che un sobbalzo del cuore, dipenderà solo da uno scherzo giocato alle nostre spalle. Un filosofo greco diceva che per essere felici bisogna eliminare due cose: il timore di un male futuro e il ricordo di un male passato; questo non ci riguarda più, quello non ci riguarda ancora. E allora bisogna impegnarci per lasciare aperte tante strade al fato, consapevoli che sarà poi lui ad avere l’ultima parola. Nonostante.
Ci sono persone il cui destino è incrociarsi. Dovunque siano, ovunque vadano, un giorno s’incontreranno e si prenderanno per mano.
venerdì 28 giugno 2019
Le sorelle
-Ragazzi,
attenzione! Sono arrivate le Gibellini. – I cosiddetti ragazzi erano quattro
attempati signori seduti attorno al tavolino di un bar, e chi aveva parlato era
un loro coetaneo che sembrava essere il caporione della combriccola. Si
chiamava Gibbo, Gianbattista per l’anagrafe, e siccome era riuscito a rimanere
scapolo nonostante gli agguati delle donne del paese nettamente in maggioranza
rispetto ai maschi, vantava una superiorità morale dettata da quello che lui
diceva essere un carattere libero e indipendente. Avere poi intrattenuto per
lungo tempo una relazione segreta, a tutti nota, con una donna sposata di un
paese vicino, gli dava quel tocco trasgressivo e cosmopolita che, in un borgo
di poche anime, lo rivestiva di un “glamour” altrove ingiustificato. Si era
messo in pensione più o meno a quarant’anni quando una modesta eredità gli
aveva permesso, con il massimo sollievo, di tirare in barca ogni possibile remo.
Da allora la sua principale occupazione era stata di impicciarsi dei fatti
altrui, con grande divertimento suo e di coloro che, a turno, non ne erano il
bersaglio. Dalla sua esclusiva postazione presso il Bar dello Sport nella piazza
principale del paese, il vecchio signore osservava, chiosava e commentava ogni
avvenimento partendo dalla vita della piccola comunità fino a spaziare nei
massimi sistemi del governo nazionale o della politica estera. Nessuno, da
Trump alla vecchina in chiesa, si salvava dai suoi giudizi caustici ed
impietosi, ma spesso arguti e perciò molto ascoltati. Gibbo ci sapeva fare e la
sua finta bonomia induceva spesso qualche sprovveduto a metterlo a parte di
confidenze personali a condizione che rimanessero segrete. Lui spergiurava di
essere una tomba, ma poi girava le notizie sottobanco al momento giusto, non
tanto per malizia quanto per il puro divertimento di agitare le acque chete di
un paese che, affermava, gli andava troppo stretto.
-Perché
hanno sempre quell’aria funerea? – Chiese l’amico “Aperol con scorzetta”.
-Non conoscete
la storia? – Disse Gibbo accomodandosi bene in vista del racconto. –Se
promettete di tenerla per voi, ve la racconto e capirete.
-Vai avanti.
- Lo incitò “vin santo e due
cantuccini”.
-Bene. Le
Gibellini, lo sapete, vivono da sempre in maniera molto modesta, hanno poche
disponibilità economiche e si arrabattano come possono. Però, qualche tempo
addietro, capitò loro quella che sembrava una fortuna insperata. Una vecchia
zia, molto bigotta, rimase vedova entrando in possesso di una vera e propria
fortuna fatta di contanti, immobili e titoli di stato. Loro due, le Gibellini
intendo, sono le uniche future eredi della signora, salvo un altro cugino che
vive lontano. Quindi erano tutte eccitate nella prospettiva, un domani la zia
fosse passata a miglior vita, di scrollarsi di dosso un’esistenza fatta di
stenti e concedersi finalmente qualche lusso. Avevano fatto i loro calcoli.
L’ammontare del patrimonio diviso fra loro due sarebbe stato veramente una
manna dalla quale attingere senza più patemi d’animo. In realtà avrebbero
dovuto dividere per tre, ma spartire quello che il destino aveva loro
riconosciuto a compenso di tanto sacrificio, sembrava quasi una bestemmia.
-Ho capito.
– Intervenne “caffè corretto” - Però la
legge è legge. Il cugino aveva tanto diritto quanto loro. O no?
-Certamente.
– Riprese Gibbo. – Ma dopo tanta fame la voglia di saziarsi è senza limiti.
Comunque le sorelle pensarono come potessero fare per dirottare dall’asse
ereditario il cugino sgradito e, dopo lungo arrovellamento, ad una venne l’idea
geniale.
-Ma và? –
“Un gelatino solo frutta” che fino a quel momento era stato zitto, dette il
segno della sua presenza subito ripreso da “caffè corretto” che era sempre il
più nervoso di tutti:
-Vuoi
tacere? Sempre a dire la sua col gelatino in mano. Statte zitto! Continua
Gibbo.
-Dicevo:
un’idea geniale. La zietta era tutta casa e chiesa, aborriva qualsiasi
debolezza della carne e resisteva ad ogni tentazione del demonio. Non era
indulgente con se stessa né tantomeno con gli altri dai quali pretendeva
moralità e decenza. La montagna di soldi dei quali disponeva rimaneva perlopiù
integra visto che per le proprie necessità bastavano pochi spicci subito
compensati dagli interessi sugli investimenti. Mentre, e qui casca l’asino, il
cugino era uno scapestrato di prim’ordine. In particolare uno scialacquatore da
primato, uno che amava giocare al Casinò dove era sempre accolto a braccia
aperte e saluto come un affezionato perdente. Come poteva una donna tanto
morigerata pensare di lasciare una parte dei suoi averi a qualcuno che li
avrebbe dilapidati senza alcuna remora ed in breve tempo?
-Remora? Ma
non è un pesce? – Gli interventi di “Cucciolone” erano sempre fuori luogo, ma
era rimasto un bambinone e veniva perdonato. Gibbo non se ne curò, continuando:
-Quindi,
pensarono, se la vecchia avesse visto da vicino come viveva il nipote, ne
sarebbe rimasta sconvolta escludendolo all’istante dalla propria successione.
Progettarono un piano. Avrebbero convinto l’anziana parente a fare un viaggio a
Saint Vincent con la scusa di andare a trovare la Superiora di un convento
nelle vicinanze che si diceva in odore di santità. Poi, sul posto, con qualche
inganno, avrebbero trascinato la zia al Casinò dove stazionava quasi
perennemente il cugino. Lei avrebbe visto l’abominio di un comportamento
scellerato ed irresponsabile e, sconvolta, avrebbe abbracciato le Gibellini
disconoscendo la demoniaca parentela.
-Sembra
perfetto. – Disse “prosecuccio”
-Anche a
loro sembrava perfetto e, vi dirò, non ebbero nemmeno tanta difficoltà a
mettere in atto i loro propositi. La zia, forse annoiata, si convinse subito e
tutte insieme partirono per la Valle. Una sera, non so con quale pretesto, le
tre pie donne entrarono nello sfavillante Casinò de la vallée. Non vi dico
l’impressione. Gli stucchi, la bella gente, le risate, il rumore dei bicchieri
e il richiamo dei croupier, tutto improvvisamente le aveva fatte precipitare in
un mondo fino ad allora ignoto e misterioso. Le sorelle, mentre cercavano con
lo sguardo il cugino rimanendo prudentemente in disparte dalla folla, si
accorsero di un fenomeno inaspettato e strabiliante. La vecchia zia sembrava
aver ripreso vigore. Gli occhi scintillanti, le guance rubizze, un fremito
d’eccitazione. “Voglio provare” disse e con fare incerto ma resoluto, si
avvicinò al tavolo della roulette. – Qui, solo per amore del “coupe de
theatre”, Gibbo si tacque aspettando qualche reazione da parte degli amici.
Dopo un momento di silenzio, una macedonia di gelato, aperol e caffè esplose
tutta insieme:
-Allora?
-Allora
accadde quello che le Gibellini non avevano previsto. La zia fu contagiata dal
vizio e si fermò nel paese valdostano per più di un mese andando tutte le sere
a giocare. Praticamente nacque una seconda volta. Scoprì che nella vita c’è
anche un lato giocoso e folle e che spesso è quello più divertente. Non solo,
capì che i soldi sono un mezzo, ma il fine è la felicità. – Per la prima volta prese la parola un
“bourbon con ghiaccio”:
-Concludi. –
Disse quasi imperiosamente.
-Lo vedete
da soli. Le Gibellini stanno sempre più avvilite rimproverandosi di aver creato
una macchina mangia soldi al posto di una zia sparagnina. L’avidità di non
voler spartire la futura eredità rischia di privarle di qualsiasi lascito dopo
che zia si sarà giocata anche la camicia. In definitiva: chi troppo vuole nulla
stringe. Non so neanche se mi fanno pena.
Il sole era
al tramonto sulla piazza del paese. Le attività commerciali, a mano a mano,
tiravano giù le saracinesche ed ai the con pasticcini si stavano sostituendo
gli spritz con patatine.
mercoledì 19 giugno 2019
L'attesa
Era una di
quelle giornate che sembrano una presa in giro. Nella conca delle Dolomiti il
Creatore aveva messo in scena un apparato completo di luci, colori e profumi
per mostrare a tutti quanto fosse bravo. Una cartolina in tre dimensioni che
appariva così bella e maestosa da rendersi incredibile per chi, come lui,
veniva dalla città. Com’è possibile, si chiese, che questo scorcio di bellezza,
questa promessa di paradiso, faccia parte del medesimo pianeta dove regnano
caos e disordine? Dove l’aggressività viene assurta a valore morale e l’egoismo
domina i comportamenti. Perché Dio si rifugia in nicchie dorate
disinteressandosi del resto del mondo? Qualcuno, da lassù, si diverte
illudendoci che ci sia un’altra possibilità, ma poi volta pagina repentinamente
concedendo solo un barlume di speranza, giusto per non arrendersi. L’uomo, quel
giorno, in quella cornice, incontrò lei. Si innamorò, e mancava solo un Cupido
svolazzante al ritmo di una canzoncina di Disney per completare la favoletta di
un amore sbocciato a prima vista. Ma tant’è: diventarono amanti. Però lui
doveva tornare in città, mentre lei non poteva lasciare il paesino tra le
montagne. Ogni fine settimana l’uomo prendeva il treno che prima velocemente e
poi col lento ritmo di un regionale dalle tante fermate, lo riportava dal suo
amore. Le prime volte si faceva prendere dalla smania, dall’impazienza in vista
dell’incontro, sbuffava e malediceva quella carretta arrancate su strade
ferrate inerpicate sulla costa dei monti. Poi si rassegnò ed, anzi, cominciò ad
assaporare quei momenti di pace, viaggiando abbandonato tra le braccia di un
ammasso di ferraglia. Finalmente ritrovò il tempo per pensare, e nella carrozza
sempre più vuota man mano che la stazione di arrivo si avvicinava, sbrigliava
la fantasia immaginando il futuro. Come con uno zaino ormai inutile
da portarsi appresso, improvvisamente scaricava il fardello delle proprie ansie
sentendosi più leggero e solo un poco più felice. Pensava anche, e soprattutto,
a lei e di come sarebbe stato bello sentire ancora l’odore antico delle
lenzuola asciugate al sole, di come sarebbero rimasti abbracciati a lungo e di
quanto avrebbero riso. Il paesaggio cambiava e lui continuava a farle domande
di cui inventava la risposta, la trascinava a correre nei prati, si fermava sdraiandosi
per terra a rimirare una quantità di stelle mai vista prima. Non era mai sazio
della sua compagnia, in attesa d’incontrarla.
Al termine
del viaggio per raggiungere la sua amante, l’uomo si rese conto che la vera
notte d’amore era quella che ogni volta passava nello scomodo scompartimento di
un treno in corsa verso di lei.
giovedì 13 giugno 2019
I ragazzi del '72
Esterno giorno/notte.
Carrellata in piano sequenza dall’esterno del ristorante fino alla sala interna.
La MdP si muove dal parcheggio, attraversa un tunnel di rincospermo fiorito e poi inquadra alcuni camerieri che salutano accoglienti. Si sbuca in un ampio salone con molti tavoli, alcuni già occupati da gruppi di commensali. Zoom in soggettiva fino al primo piano di un grande tavolo con attorno una ventina di signori con dei calici in mano intenti a chiacchierare piacevolmente. Scrosci di risate e pacche sulle spalle. Sullo sfondo il sole che tramonta sul Tevere.
MdP sul capotavola che invita gli amici a prendere posto. Dopo che tutti si sono sistemati, Alessandro batte sul bicchiere con un coltello per richiamare l’attenzione e, alzandosi in piedi, prende la parola.
ALESSANDRO – Compagni, amici… - Viene subito interrotto da Carlo all’altro capo della tavolata:
CARLO – Eh, no! A me compagno non lo puoi dire. Lo sai che il mio cuore è tutto spostato a destra e sentire quell’appellativo mi manda la cena per traverso.
ALESSANDRO – Già, dimenticavo, scusa. Allora: amici… - L’architetto interrompe:
ANDREA – Ti prego, amici: puro stile democristiano, prima repubblica. Ci siamo turati il naso per votarli tante volte ed ora ne riesumiamo le spoglie. Non credo sia il caso, evita.
ALESSANDRO, leggermente innervosito, ma ancora composto – Come volete. Posso dire almeno: carissimi? Si offende qualcuno? – I convitati si guardano l’un l’altro facendo taciti segni di approvazione. – Bene, allora: carissimi. – continua A. – Ci ritroviamo dopo tanto tempo e ne siamo tutti felici. O no? – Qualcuno fischietta, altri ridacchiano, uno o due fanno i vaghi. Dopo qualche attimo di suspense, si levano timidi “certo, e come no, te credo”. Il marchese fa sentire il suo “ca va sans dire”, noblesse oblige.
ALESSANDRO – D’accordo. Però mi piacerebbe che questa agape fraterna, come definiscono le riunioni mangerecce i nostri beneamati Freres, non rimanesse fine a se stessa. Che dalla reunion di una classe di cotanto spessore sgorgasse qualcosa per rendere onore alle individualità di ciascun partecipante lasciando il segno tangibile di una collettività particolare.
STEFANO (quello già simpatico, ma attualmente odioso per la sua inopinata somiglianza con George Clooney. Gli altri, adiposi, invidiano), sottovoce rivolgendosi al vicino – Ahò, ma che stà a batte a scudi? Noi stamo fucilati, ovvero non c’ho ‘na lira, nun ce provasse minimamente.
STEFANO (aka: il tapiro) – Ummhhh, casca male!
ALESSANDRO – No, ho capito, tranquilli! Non si tratta di una colletta. – Sospiro di sollievo, più o meno mascherato, da parte della totalità degli astanti – Intendevo che mi piacerebbe fare qualcosa insieme a voi per unirci ancora di più dando uno scopo ai nostri incontri. Non ho un’idea particolare, vorrei capire se siete d’accordo e se magari c’è qualche proposta.
PAOLO, spingendo con l’indice al loro posto gli occhiali scivolati sulla punta del naso- A Mà (ssimo), me passi i frittini, se non li mangi più? – Occhiataccia generale. – Volevo dire: non saprei, ma va bene.
LIVIO – Sarebbe bello, ma cosa potremmo fare?
MdP, carrellata intorno al tavolo sul viso attonito degli amici. Giovanni guarda Massimiliano che, in sequenza, rivolge lo sguardo a Valerio. La Mpd si sofferma su quest’ultimo. Si percepisce che nel cranio dell’individuo abituato a “too far”, bolle qualcosa, ma forse sta pensando al Kentucky, nel senso del bourbon o dei cavalli. La Mpd continua: Roberto, poi Mauro, dopo Stefano, quindi Nicola per fermarsi ancora su Stefano, un altro. Breve esitation, sottofondo musicale “tubular bells” di Mike Oldfield, ripartenza col viso di Andrea, Massimo e Stefano (ancora…). Solo su quest’ultimo, la musica improvvisa una breve svisata proveniente da una Fender d’annata. Poi la Mpd finisce il giro di nuovo con Carlo, Livio, Roberto e Massimo. Nessuno sembra avere voglia di parlare.
ALESSANDRO – Allora, comp.., ami…, carissimi. Buio totale?
STEFANO (uno dei tanti, a caso) – Bè, forse… - Simile al Coro nelle antiche tragedie greche, un coacervo di coreuti mugugnanti dà vita ad un cacofonico sottofondo di “Non dì cazzate, ma statte bono, è arrivato l’arrotino”, e così via in senso beffardo e dileggiatorio.
STEFANO, ignorando la plebe. – Dovremmo fare qualcosa di eclatante, che ci distingua e ci faccia ricordare. Pensavo che, siccome nessun traguardo è inarrivabile per chi sogna, potremmo porci l’obiettivo di cambiare il mondo. Non facile, ma non impossibile.
ALESSANDRO – E come?
STEFANO – La ricetta è nota da tempo, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di applicarla. O almeno di provarci. Un grande scrittore russo, di cui non pronuncio il nome perché troppo difficile, disse che la BELLEZZA può cambiare il mondo. Bellezza intesa anche come armonia, gentilezza, pace. – La Mdp coglie le espressioni attente dei partecipanti.
ALESSANDRO – Vai avanti.
STEFANO - Ebbene, fra di noi ci sono architetti, avvocati, medici, ingegneri, esperti nella viabilità, nei rapporti industriali, nella comunicazione. C’è chi ha dimestichezza con lo sfavillare delle gemme, chi cura giardini o animali, chi lavora per l’ambiente. E’ presente un professore, un paio di titolari d’impresa e qualche pensionato precoce. Insomma sono rappresentati non dico tutti, ma molti dei settori delle attività svolte in ambito sociale. Facciamo un volo di fantasia. Immaginiamo di formare un governo che abbia come programma e unico scopo quello di far vincere la bellezza sulle brutture di questo nostro mondo.
ALESSANDRO – Come potrebbe essere composto?
STEFANO – Come Presidente del Consiglio proporrei Roberto che ha commosso tutti con l’omaggio di un libretto colmo di saggezza e di un nettare di frutta e fiori, unendo il gesto gentile alla bellezza dell’intelletto e della natura. Ministro degli Esteri: Valerio, se non altro per la facilità con la quale balza da un lato all’altro dell’oceano. Interni a te, Alessandro; Difesa: senza dubbio a Carlo; Commercio Estero: Gianni; Giustizia: Stefano o Giovanni; Sanità: Massimo o Paolo; Trasporti: Stefano; Finanze: Tilly che facendo “la trota” farebbe digerire con un sorriso qualsiasi balzello.
ALESSANDRO – Agli altri?
STEFANO – Deleghe a piene mani con un solo vincolo: perseguire la bellezza in qualsiasi ambito. In televisione non si vedrebbero più programmi volgari fatti solo per solleticare gli istinti di un’audience sempre più imbelluinita. Nel sociale si valorizzerebbero gli aspetti gentili dell’animo umano che sono spesso indice di un carattere fermo e sicuro di sé, invece di manifestazioni di debolezza come oggi sono intese. Nelle città si costruirebbe con attenzione all’estetica oltre che alla funzionalità poiché la bellezza induce al pensiero elevato. L’economia non sarebbe più finanza, ma investimenti produttivi perché così darebbe frutti tangibili per il benessere della collettività. Insomma, e finisco, una visione etica del futuro che si fondi sulla bellezza. Ragazzi: una rivoluzione!
Intorno al tavolo si ricomincia a discutere animatamente.
La MdP lascia i ragazzi del ’72 facendo una carrellata fuori dalla finestra. In fondo all’ansa del Tevere s’intravede il Cupolone. Lenta zoommata verso quel capolavoro di bellezza, quasi a sottolineare le parole dell’improvvisato oratore. Si sente un lontano suono di campane e lo stridio di qualche rapida rondine in volo nel cielo di Roma.
Dissolvenza.
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