lunedì 29 agosto 2022

Fado el Pessoa



Quella notte era dolce a Lisbona. La luna si specchiava nel Tago e il castello dalla collina di San Giorgio come sempre rimaneva di vedetta per proteggere la città da invasori che non sarebbero più arrivati. Per le strette strade del centro un vociare di gioventù in cerca della vita e uno sferragliare di vecchi tram che rimandavano a storie di banale quotidianità. Piccoli ristoranti e bar con tavolini sulla strada spargevano spazzi di luce su marciapiedi male illuminati. Uno scroscio di risa, il richiamo di una ragazza, l’acciottolio delle stoviglie e i brindisi di qualche compagnia d’amici erano la colonna sonora di una città che si accompagnava nella notte. La locandina di un locale con la porta rossa e stretta annunciava uno spettacolo di Fado interpretato da una cantante dagli occhi tristi. Entrai e mi sedetti da solo, in disparte. Era occupata forse la metà della ventina di tavolini disposti davanti ad un piccolo palco. Coppie di amanti, forse clandestini, che si sfioravano la mano, coniugi anziani che sorseggiavano del liquore in piccoli bicchieri come stessero sorbendo una medicina e un signore con cappotto e cappello fuori stagione e gli occhiali spessi dalla montatura pesante. Chissà cosa stava scrivendo quell’uomo sul taccuino che teneva a portata di mano. Versi, impressioni poetiche o la lista della spesa? Sulla ribalta scarsamente illuminata un paio di sedie e un microfono erano in attesa dei musicisti. Avevo già sentito brani di Fado interpretati da Amalia Rodriguez, ma preferivo le cantanti di oggi. Quasi tutte con una voce calda, scura, che gorgheggiano facendo nascere suggestioni da parole gutturali con la erre arrotata. Non capivo niente di quelle rime, ma la magia della musica mi trasmetteva dolci sensazioni e una sorta di struggimento che non doveva essere molto lontano dal significato dei brani. Dalle quinte uscirono due chitarristi che presero posto sulle sedie incominciando a pizzicare le corde degli strumenti e, poco dopo, si presentò la cantante. Prima che cominciassero l’esibizione, con un cenno chiamai il cameriere e mi feci portare una bottiglia di Porto, era inevitabile. La donna, sotto a un timido occhio di bue, parlò brevemente alla sala ricevendo un applauso di cortesia e poi chinò il capo tenendo l’asta del microfono con la mano. I lunghi capelli neri le coprivano il volto e dopo un momento di silenzio, la musica attaccò. Un brano dopo l’altro, più o meno ritmato, ma sempre con una sfumatura che, in qualche maniera, mi ricordava il blues del Mississippi: un urlo del cuore di chi non ha altro per farsi sentire. Parole strane, per me senza significato, facevano brillare qualche lacrima, ma anche nelle canzoni allegre si sentiva una sorta di amara e spavalda sfida al destino, come la risata del torero nell’ora fatale. Applaudivo alla fine delle canzoni e mi rabboccavo il bicchiere. Applaudivo e rabboccavo. Alla fine dello spettacolo feci fatica ad alzarmi ma, se solo avessi potuto, mi sarei avvicinato alla cantante per abbracciarla, mi sentivo suo fratello, forse un po’ anche il suo amante. Per il tempo dello spettacolo mi aveva preso per mano e portato nel “barrio”, intorno ad un falò o sulla riva del mare. Tutto secondo la mia interpretazione, perché magari aveva cantato altro, ma non importava. All’uscita del locale vendevano dei CD dell’artista, ne comprai uno certo che l’avrei risentito provando ancora le medesime emozioni.

A casa non avevo il Porto e il CD mi sembrò una nenia, lo buttai in fondo a un cassetto e mi tenni il ricordo.