martedì 30 aprile 2019

Il giocatore


Ero giovane, allora. Una sera d’estate, sul traghetto da Civitavecchia a Olbia, non avevo sonno e uscii sul ponte per godere della brezza marina e del cielo stellato. Non so che ora fosse, certamente tardi, tutti dormivano e la grande nave avanzava maestosa e lenta come un gigantesco cetaceo fatto d’acciaio e vetro. Il rollio dell’imbarcazione, unito al battito ritmico e continuo dei pistoni, trasmettevano la sensazione di essere trasportati da un organismo vivente del quale si poteva percepire il sordo battito del cuore proveniente dai remoti meandri di un’enorme carcassa. Può essere che a volte il mostro si sentisse solo, ed allora dai grandi sfiati in plancia emetteva un barrito potente come quello di cento elefanti. Il mare scivolava ai lati della chiglia lasciando una scia d’argento, mentre sotto la superficie un nero profondo nascondeva un mondo fatto di mistero.
Mi appoggiai al parapetto e guardai all’insù. Chi vive in città non riesce a vedere cosa ha sopra la testa, ma quando mancano le luci d’intorno, o sono soffuse, nel cielo si accendono una moltitudine di scintille e la volta celeste sembra un immenso drappo di velluto scuro ricamato con i diamanti più puri e freddi. E’ uno spettacolo sempre uguale che si potrebbe rimirare per ore, lasciando che i pensieri negativi e le preoccupazioni si perdano tra stelle e pianeti scivolando sulla Via Lattea verso ignote galassie e nuove illusioni.
All’epoca, fumavo. E bevevo. Senza esagerare per nessuno dei due vizi, almeno quasi mai. Forse la sfilai da un pacchetto di HB o di Kent, non credo Marlboro, comunque mi accesi una sigaretta schermando la fiamma del cerino con la mano. Per completare la mia piccola orgia privata, tirai fuori dalla tasca una fiaschetta di metallo, di quelle che usano i cacciatori, piena di un bourbon aromatico e forte. Qualche boccata, un sorso ogni tanto, e la mente vagava in libertà.
-Ehi, scusa. – Feci un balzo, spaventato da un’improvvisa voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi un uomo alto e magro vestito in maniera curiosa. Sembrava un cow boy da saloon o un croupier da film in costume. Indossava dei pantaloni neri con un gilet di seta rosso scuro e sotto una camicia bianca con i polsini chiusi da gemelli dorati. Ciò che stonava di più in quell’ambiente marinaro erano soprattutto gli stivaletti con la punta ricamata e il cappello a larghe tese calato sugli occhi. –Mi faresti accendere? – Chiese con voce rauca.
-Certamente. – Risposi porgendogli la scatoletta dei cerini. Con calma l’uomo s’infilò in bocca un sigarillo tirando profonde boccate ed espirando il fumo con voluttà.
-Senti. – Proseguì lui. – Facciamo un baratto. Tu mi dai un po’ di quello che hai nella fiaschetta ed io, in cambio, ti darò qualche consiglio. – Figuriamoci, non accettavo suggerimenti neanche dai parenti, pensa un po’ se starei stato a sentire le baggianate di un tipo strano. Però ero curioso e qualche sorsata di whisky non la si nega mai a nessuno. Gli passai il liquore, si attaccò e deglutì molte volte. Poi cominciò:
-Vedi figliolo, ho passato la mia vita leggendo i volti delle persone: dal loro sguardo posso capirne le emozioni ed indovinare come hanno intenzione di giocare. Adesso vedo dell’inquietudine nei tuoi occhi. Stammi bene a sentire, mi ringrazierai. – Ero molto scettico, ma lo lasciai proseguire. – La vita, ragazzo, è come una partita a poker e devi sapere come comportarti. Quello che vivrai ogni giorno consideralo come se fosse la tua mano di carte. Devi decidere quando passare, quando chiudere o quando andare via. Devi essere bravo a bluffare, ma non contare mai i soldi mentre il gioco è in corso. Avrai tempo per farlo quando tutto sarà finito. Ogni giocatore d’azzardo sa che il segreto per sopravvivere è distinguere cosa scartare e cosa tenere, perché ogni mano può essere vincente o perdente, dipende come si affronta. Il meglio che puoi sperare è di alzarti dal tavolo senza averci lasciato le penne, in attesa della partita perfetta. Comunque sia, che vada bene o che vada male, l’importante è giocarsela fino alla fine. E non conta la fortuna, perché il tuo full d’assi può sempre incontrare un poker contro, e quello che sembrava una svolta promettente ti farà precipitare in un burrone. – Lo interruppi.
-Sei un giocatore professionista? – Ghignò.
-Sono uno che scommette. Sulle carte e sulla vita. Ed è quello che capita a tutti: una perenne scommessa contro il destino. Ma il fato lo si può sfidare e, se si è abili abbastanza, forse si può riuscire a non farsi fregare. Forse. – Mise la bocca sotto al collo della fiaschetta scuotendola per farne uscire le ultime gocce, poi me la restituì con un cenno di ringraziamento. Senza dire altro, si voltò e andò via. Lo vidi sparire attraverso un boccaporto seguito dal rumore dei suoi tacchi sul metallo e dalla nuvoletta azzurra del sigaro.
Rimasi solo sul ponte chiedendomi se quelle chiacchiere avessero un senso o fosse stata solo una scusa per finire il mio liquore. Negli anni successivi, qualche volta, ci ho ripensato perché non sempre ho saputo quando passare, quando chiudere o quando andare via.

lunedì 15 aprile 2019

Certe notti



“Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei. Certe notti la strada non conta
e quello che conta è sentire che vai.” A squarciagola Mario cantava il Liga scimmiottando il cipiglio tipico del rocker emiliano. Alla guida del suo camion percorreva la via Emilia forse per la decima volta in quel mese ed ormai gli sembrava di guidare col pilota automatico. Attraversava paesotti e cittadine, costeggiava i campi arati, scavalcava su ponti di ferro piccoli rivi ed il fiume gigantesco e placido che dominava la pianura. Ogni tanto, seguendo il nastro d’asfalto, si tuffava in qualche boschetto di betulle che con gli alti tronchi tutti in fila, rompeva la monotonia di una campagna piatta ed infinita. Conosceva ormai ogni svolta e tutte le traverse che sgusciavano via dalla strada principale; avrebbe addirittura potuto elencare la successione delle trattorie indicando per ciascuna la rispettiva specialità e la qualità del lambrusco. Era in confidenza con tutte le ostesse e si fermava volentieri da quelle che non solo gli portavano i piatti in tavola, ma lo facevano anche sentire in famiglia con la loro bonomia sempre paciosa e talvolta maliziosa. Qualcuna era anche belloccia, spesso in carne, con fianchi generosi e seni prosperosi che mettevano di buon umore solo a guardarle. Non poche volte Mario aveva scambiato una carezza per un sorriso e qualche mezz’ora con pochi soldi di ringraziamento. “Certe notti fai un po' di cagnara che sentano che non cambierai più. Quelle notti fra cosce e zanzare e nebbia e locali a cui dai del tu.” Il camion di Mario si distingueva per un festone di luci sopra la cabina e la scritta dietro al cassone che riportava il soprannome con il quale era conosciuto: “Il Tigre”. Le professioniste lungo la via lo riconoscevano da lontano e quando l’incrociavano gli facevano sempre un cenno di saluto che lui ricambiava sporgendosi dal finestrino e chiamandole per nome. Affermare che fosse felice sarebbe esagerato, ma la sua vita gli piaceva ed era consapevole che questa era una fortuna riservata a pochi.

Una sera Mario guidava più stanco del solito. Aveva fatto tre consegne tra Formigine e Montecchio ed ogni volta si era lasciato convincere a dare una mano nello scarico. Era un lavoro pesante e delicato, specialmente se si trattava di cartoni di vino che rischiavano sempre di cadere mandando in frantumi le bottiglie. Doveva tornare a casa e si teneva sveglio cantando appresso alla radio. I fari rompevano il buio tutt’intorno ed il muso del vecchio Ducato fendeva la notte come la prua di una nave in un mare di tenebra. Non bastava la fioca luce gialla di qualche lampione a dissolvere il soffice velo di una nebbia fitta a banchi come improvvisi sbuffi di un’irraggiungibile locomotiva. “Certe notti ti senti padrone di un posto che tanto di giorno non c'è. Certe notti se sei fortunato bussi alla porta di chi è come te.” Forse per l’ora tarda il traffico era molto scarso e sembrava di viaggiare soli in un mondo desolato di macchine e persone. Improvvisamente Mario vide, in lontananza, sul ciglio della strada, una donna con la mano alzata nel classico gesto dell’autostoppista. Non era sua abitudine caricare estranei, ma quella figura solitaria, con un trench stretto in vita sotto la pioggerella che sembrava averle inzuppato i capelli, lo fece rallentare. Sembrava una giovane magra e piccolina, persa e forse bisognosa d’aiuto. Mario si fermò.

-Dove vai? – Le chiese.

-Non molto lontano, – rispose lei – ma di notte ho paura ad andare per i campi. Può darmi un passaggio? – La ragazza pronunciò queste parole con lo sguardo quasi sempre basso o sfuggente, poi, in attesa della risposta, alzò il viso e guardò Mario dritto negli occhi. L’autista restò un momento sconcertato dagli occhi della giovane che sembravano stonare in un viso quasi da bambina. Avevano un’espressione vissuta, quasi antica, di quelle che si vedono nei vecchi quando ripensano alla loro vita, ma nello stesso tempo celavano un fondo di ironia, forse di divertimento. Era una cosa strana, un po’ inquietante, ma le gocce che le rigavano il volto ed il lieve tremito che a tratti scuoteva il gracile corpo della ragazza, convinsero l’uomo.

-Vieni, sali. Come ti chiami?

-Grazie, Veronica. E lei?

-Io, Mario. Ma dammi del tu. Dove ti porto?

-Fra cinque chilometri c’è un gruppo di case che si vede dalla strada. Puoi lasciarmi vicino alla chiesa poco prima, che poi da lì sono due passi.

-D’accordo.

Durante il tragitto restarono quasi sempre in silenzio. Mario si sentiva un po’ a disagio, e per lui era una sensazione nuova. La ragazza non sembrava una di campagna, anzi pareva uscita da una di quelle illustrazioni che ritraggono le signorine per bene dell’ottocento. Si teneva composta sul sedile, con le diafane mani dalle lunghe dita incrociate sul grembo. Lui ogni tanto le lanciava uno sguardo di sottecchi, ma lei non se ne accorgeva, o faceva finta.

-Ti posso chiedere quanti anni hai, Maria?

-Ventidue, compiuti da poco.

-Avrai un bel moroso, vero? – Cercò di scherzare l’uomo.

-L’avevo, è morto in guerra.

-Oh, mi dispiace. Un militare?

-Alpino. – “Durante una missione all’estero.” Pensò Mario ma non ebbe il coraggio di chiederlo. Dopo questo beve scambio di battute tacquero nuovamente entrambi, lasciando solo la radio a rompere il silenzio. “Non si può restare soli, certe notti qui, che se ti accontenti godi, così così. Certe notti son notti o le regaliamo a voi. Certe notti qui, certe notti qui, certe notti qui, certe notti…”

-Ferma, va bene qui. – Mario accostò al ciglio della strada.

-Aspetta. - Disse lui – Le case non sono poi tanto vicine. Se vuoi, parcheggio e ti accompagno.

-No, no, grazie. Non ti preoccupare, costeggio la Chiesa e sono arrivata.

-Come vuoi. Allora, ciao Veronica.

-Ciao Mario, mi ha fatto piacere incontrare un gentiluomo. – Beh, l’avevano chiamato in tante maniere durante la sua vita, ma gentiluomo…

La ragazza scese dal Ducato e si avviò lungo il marciapiede per un breve tratto, dopo di ché prese uno sterrato e sparì inghiottita dal buio. In quel momento si alzò una folata di vento impetuoso che scosse le fronde degli alberi ai lati della strada in maniera violenta. Rumore di foglie, il sibilo del vento tra i rami, colpi secchi e forti tonfi, tutto in un turbinio di tempesta inaspettato. Durò poco, poi la raffica passò e la nebbia avvolse nuovamente il paesaggio. Sulla via Emila tornò una quiete densa e colma di tutti i segreti che la pianura non voleva rivelare.

Mario accese il motore e riprese il suo viaggio. Dopo qualche minuto si accorse che, sul sedile accanto al suo, Veronica aveva dimenticato una piccola borsa. “E adesso? Forse le servirà. Guarda tu cosa mi tocca fare…” Disse tra sé mentre, di malavoglia, sfruttava uno slargo per fare inversione di marcia. Velocemente tornò al punto dove aveva lasciato la ragazza sperando di raggiungerla. Scese e si avviò, con passo veloce, per il sentiero che lei aveva imboccato. La mole della Chiesa era vicina ed un piccolo cimitero con vecchie lapidi ed angeli di marmo faceva da quinta ad una facciata ornata da colonne. Lo sguardo dell’uomo fu attirato da una delle pietre che spuntavano dal terreno. Non era più grande né più lavorata delle altre, anzi era quasi del tutto coperta da un’erba rampicante e pendeva su un lato, in procinto di cadere. L’uomo non si spiegò mai perché si sentì quasi costretto a fermarsi davanti a quella tomba, ma lesse distintamente il nome della povera defunta: “Veronica…1898 – 1920”. Aprì la borsetta. Non trovò niente tranne un bocciolo di rosa ormai secco, ma il profumo che ne scaturì non lo dimenticò mai più.

Mario percorse tante altre volte quel tratto della via Emilia, sempre sperando in cuor suo di rivedere quella fanciulla d’altri tempi. Ma forse era stato solo un sogno nella notte solitaria di un autista di camion.

“Certe notti sei solo più allegro, più ingordo, più ingenuo e coglione che puoi. Quelle notti son proprio quel vizio che non voglio smettere, smettere, mai. Certe notti qui, certe notti qui, certe notti qui.”




sabato 13 aprile 2019

Souvenir

Si trovava proprio all’incrocio di due vicoli, nel cuore della città vecchia: un portoncino a due ante, di legno scuro finemente lavorato con tante piastrelle intarsiate ognuna con un fiore diverso. Finiva ad arco, incastonato in una cornice di pietra chiara dalla cui chiave di volta scendevano tralci scolpiti con una fantasiosa vegetazione ricca di palme, serpenti ed uccelli in volo. Due grandi batacchi a forma di zampa di leone suggerivano che quella meraviglia di un artigianato antico avesse un uso pratico, oltre alla sua semplice funzione estetica, anche se i cardini ormai saldati dalla ruggine apparivano come dei sigilli apposti per la custodia di mondi segreti. Nei bianchi muri a calce ai due lati della porta non si affacciava alcuna finestra ma, come schizzi di un pittore impressionista sopra una grande tela, erano infissi una moltitudine di portavasi con piante fiorite dai colori vivaci. Nel vento leggero si avvertiva il profumo dei gerani e delle rose mischiato con l’odore salmastro del mare non lontano. In giro non c’era nessuno, mentre gli unici rumori provenivano dal fondo della stradina, oltre la curva, dove forse un ciabattino ritmava il suo lavoro al battito di un martello. Mi sembra anche di ricordare la voce lamentosa di una cantante di flamenco sfuggire da dietro le persiane chiuse di una casa un poco più avanti, ma probabilmente è solo la suggestione della memoria. Non saprei dire che ora fosse, ma la luce era intensa in una giornata di sole pieno durante un agosto di tanti anni fa. Nessun regista potrebbe mai ricreare un simile momento perché alla scenografia perfetta faceva eco un’emozione del cuore che colorava ogni cosa di magia. Le dissi di avvicinarsi al portoncino per scattare una foto. Lei andò, mise le mani dietro la schiena e si appoggiò al legno. Incrociò le gambe e con un rapido movimento gettò indietro i capelli. Poi mi guardò e sorrise alla Kodak, o forse a me. Scattai e qualche volta, ancora oggi, riguardo quel souvenir di Malaga e di noi.

martedì 9 aprile 2019

Sai?

-Sai quando ti prende quella smania qui, dentro al petto, e vorresti fare qualcosa che non sai neanche tu cosa sia? Chiudi gli occhi lasciandoti trasportare dalla musica in mondi che conosci alla perfezione senza esserci mai stato, in vite che hai vissuto “se solo”, verso orizzonti che immagini di poter toccare. E stringi i pugni. Senti una voce, fai conto di Dorothy Moore, e le rispondi pur senza capire cosa ti stia dicendo perché sta parlando proprio con te, anche se è una traccia registrata. Ma forse è meglio così perché la puoi rimandare cento volte e cento volte dirà le stesse parole, mentre ti inventerai tante risposte quante sono le corde del tuo cuore che dita impietose pizzicano senza chiederti il permesso. A volte nascono dolci e struggenti melodie che vorresti continuare a sentire augurandoti che smettano subito, oppure escono solo note stonate, e forse sono quelle più giuste.

-Sai quando ti rendi conto di qualcosa e poi lo ricacci in fondo alla mente, dove vorresti nasconderlo pur avendolo sempre presente? E senti la primavera, ma non ti appartiene; e aspetti l’autunno, ma com’era una volta; ed hai paura che finisca l’inverno, perché è un’altra cosa finita. E aspiri profondamente per sentirti vivo o per mandare ossigeno al cervello sperando che ti stordisca. E’ tutto così reale che vorresti tenertene lontano buttandotici dentro, ma non ne hai il coraggio o forse te ne manca il tempo. Un altro treno, un’altra stazione, ed un cartello che scorre veloce fuori dal finestrino col nome di un posto che non conoscerai mai.

-Sai quando ti trattieni e non urli, non scappi, non balli, non ridi sguaiatamente, non prendi a pugni qualcuno o qualcosa, non voli, non dormi e non vuoi andare a letto? Ti addormenti per poco, sogni molto, sei gentile, sorridi, scuoti la testa, ci sei e fai finta di capire. Ma quanti “ma” uno in fila all’altro, per rovesciare un’affermazione o per lasciare una porta aperta. In tutto ciò forse non sei proprio tu o, invece, sei esattamente tu: la somma di ogni cosa per un totale che non torna mai. Mentre il tempo passa e non impari niente, anzi ti sembra di dimenticare le poche certezze che avevi messo in tasca.

-Sai quando lo sai che tanto non serve a niente cercare con affanno, ma non sei capace di non farlo, di fermarti, di guardarti vivere? E rincorri quello che forse non potrai mai raggiungere, e ne sei consapevole. Non ti permetti di non fare, o di fare, per riguardo a te stesso, magari agli altri e sei come una mosca nel bicchiere rovesciato. Sbatti, sbatti contro le pareti di vetro, poi ti riposi, ci pensi un po’, una rapida aggiustata alle ali e ricominci. A sbattere, senza fermarti. Chiamalo destino, tanto anche se sbraiti non ti sente. Anzi, si diverte.

-Sai che non è cortese non rispondere?

venerdì 5 aprile 2019

La Casa

Una casa non rispecchia l'animo di chi ci vive dentro, quasi mai. Potrebbe nei primi tempi, quando il gusto del proprietario e le sue inclinazioni in qualche modo influenzano gli spazi, ma spesso ci sono sistemazioni di convenienza, piuttosto che semplici mode, a dettare colori e mobilia mascherando chi ci vive. Poi, con l'andar del tempo, i diversi inquilini aggiungono, tolgono e spostano, modificando l'aspetto della casa fino a farla diventare qualcosa di completamente diverso dall'originale e con un carattere suo distintivo. Anche le persone lasciano un'ombra dietro di loro, mentre i muri delle abitazioni restano gli immoti testimoni della commedia umana. Questo vale per ogni luogo abitato, ma se gli appartamenti sono bambini con poca esperienza, le vecchie dimore, i palazzi antichi, i casali nelle campagne, perfino i ruderi ormai abbandonati sono come persone anziane che tanto hanno visto e moltissimo avrebbero da raccontare.

Cinque bassi gradini portavano dal marciapiede al portone, arretrando il frontale del palazzo rispetto alla strada in una sorta di distaccata superbia, quasi con l'atteggiamento di un vecchio signore restio ad accogliere nuove conoscenze. La facciata dell'immobile si presentava in pietra bugnata fino ad altezza d'uomo per proseguire poi per quattro piani in un colore che anni d'intemperie avevano reso indefinibile. Al piano nobile, una grande porta-finestra con balcone si poneva da cappello sul portone sottostante mentre quattro altre finestre quadrate le facevano d'ali, ognuna incorniciata di travertino e con le persiane rigorosamente serrate. Ogni tanto, ad interrompere la severità della facciata, la scultura di un amorino sosteneva un cornicione sorridendo ad una naiade decentemente discinta aggrappata poco più in là. Forse l'architetto aveva voluto inserire uno spunto di Art Nouveau su un progetto altrimenti troppo austero, oppure il committente aveva dato l'indicazione di inserire qua e là un tocco leggermente osé a testimonianza della sua audacia. In paese si raccontava che il palazzotto, nella sua altera solitudine, fosse stato la cassaforte degli averi del barone De Nittis e lo scrigno della bellezza di sua moglie, nonché il baluardo alla curiosità della gente. Ma nessuno scudo, seppure fortificato, ha mai impedito la malevolenza ed il pettegolezzo. Anzi, la perversa unione della ricchezza di un uomo brutto con l'avvenenza di una baronessa nata contadina, era l'humus ideale per ogni sorta di racconto più o meno di fantasia. Le versioni su quanto accadde tra quelle mura nei primi anni del novecento furono tante e disparate, ma su di un punto concordarono senza alcun dubbio: finì nel sangue. Lei si era stancata di fare la statuina per un marito tanto devoto quanto geloso, o forse fu colpa di un lontano cugino arrivato in visita da Parigi, qualcuno si diceva sicuro che fosse stato l'effetto dell'uso smodato di assenzio, certamente partì un colpo che uccise la nobildonna. Il De Nittis, disperato, non poté più sopportare di vivere tra quelle mura che ormai vedeva lordate del sangue della moglie, né di sentirsi circondato da quello che in ogni momento gli ricordava i giorni felici. Chiuse il palazzo, partì e non se ne seppe più nulla. Non lasciò eredi o disposizioni in merito e quindi la grande casa rimase abbandonata finché, dopo molti anni, il sindaco del paese, con un provvedimento amministrativo approvato dall'unanimità del consiglio comunale, non espropriò l'immobile a favore della comunità.
Il sindaco era una persona prudente e sospettosa. Qualcuno diceva pavida e malevola, ma si trattava solo di aggettivi che mutavano a seconda della parte politica di provenienza. Prima della solenne cerimonia nella quale avrebbe preso possesso del palazzetto già De Nittis, il primo cittadino aveva intenzione di fare un sopralluogo, non voleva sorprese. Naturalmente in precedenza aveva visionato le carte catastali ed il geometra comunale si era recato sul posto diverse volte, ma lui personalmente non era mai entrato nell'edificio ritenendo che i passi ufficiali dovessero essere sempre giustificati da ordinanze che ne consentissero l'esecuzione. In un primo momento aveva pensato di farsi accompagnare da un paio di assessori, ma poi, com'era suo costume, ci aveva riflettuto sopra attentamente. Entrare in villa insieme a due figure istituzionali avrebbe conferito un aspetto ufficiale alla visita, ed era quello che lui voleva assolutamente evitare. Decise quindi di andarci da solo e, per non farsi vedere, di operare col favore delle tenebre. Il sabato sera in televisione trasmettevano "Ballando con le Stelle" su Rai 1 e "Amici di Maria" su Canale 5 calamitando davanti agli schermi casalinghi la pressoché totale popolazione del paese. Di questo si lagnavano le due trattorie e la pizzeria che con la sola affluenza del venerdì e della domenica, per colpa della De Filippi e di Milly Carlucci, non riuscivano a pareggiare i conti della settimana. Però siccome da ogni male si può trarre un bene, la sofferenza degli osti era l'occasione per il sindaco. Non si trattava proprio di "una notte buia e tempestosa" come nella letteratura, ma quella sera, verso le dieci, il tempo si presentava rigido con fastidiosi colpi di tramontana, mentre la luna sembrava anch'essa partecipare ad un ipotetico salottino televisivo, visto che dal cielo era latitante. Il sindaco si coprì bene, prudente anche riguardo alla salute, e con le chiavi strette in mano, quatto quatto, raggiunse palazzo De Nittis.
Infilò la chiave e spinse con cautela l'anta del grande portone. Si aspettava fosse pesante e che dai vecchi cardini provenisse almeno un cigolio a causa della ruggine, ma la porta non oppose alcuna resistenza scivolando verso l'interno silenziosa ed invitante.
-Fin qui, tutto bene- pensò il sindaco, ma fu l'ultima volta che si rassicurò. Entrò velocemente e chiuse subito l'uscio dietro di sé, passasse mai qualcuno. Poi, con un pizzico d'orgoglio per la capacita da poco acquisita di padroneggiare uno smartphone nuovo di zecca, aprì l'app della torcia e si fece luce. L'atrio della vecchia casa era imponente. Un grande scalone partiva dal fondo della stanza per sparire verso l'alto, mentre ai lati porte aperte lasciavano intravedere altri vani oscuri. Pochi i mobili, forse per la maggior parte già trafugati, soltanto una grande cassapanca appoggiata al muro ed un'enorme specchiera dalla cornice dorata in parte rotta e velata da stati di polvere e sporcizia. Il primo cittadino era un tipo pragmatico e privo di fantasia, ma provò la strana sensazione di esser entrato nelle fauci di un mastodontico animale, dove la scala rappresentava la lingua ed i varchi davano l'idea di orifizi aperti verso un apparato digerente in attesa di essere sfamato.
-Ah, ah, ah! –ridacchiò nervosamente tra sé. -Non essere sciocco. Non sei una donnetta suggestionabile. Non c'è niente e nessuno di cui avere paura. E' solo una vecchia casa. – Non l'avesse mai pensato! La Casa sembrò avergli letto nella mente. E si offese. Le finestre erano tutte chiuse, ma in quel momento una raffica di vento, mugghiando come l'urlo di una sirena impazzita in un mare in tempesta, attraversò la stanza facendo sbattere gli antichi tendaggi. La luce del telefonino si riflesse nello specchio provocando un lampo azzurro che illuminò tutta la stanza a giorno. Nell'improvvisa chiarezza, il sindaco vide una sostanza vischiosa e maleodorante scendere dal soffitto sulle pareti. Appariva rossa come il sangue, ma era in grande quantità: il frutto di una mattanza. Dai piani superiori un'onirica folla di anime inquiete sembrava percuotere con passi frenetici il pavimento, mentre clangori e stridii riempivano l'aria annunciando nuove apparizioni. Mille piccoli occhi brillavano da ogni parte, negli angoli, sugli stipiti, sopra la scala, ed un concerto di squittii accompagnava brevi veloci corse di topi spaventati dal clamore. La temperatura di colpo scese di parecchi gradi e dalla bocca spalancata del sindaco uscirono nuvolette di vapore. Il buon uomo stava ritto e tremante, con gli occhi strabuzzati, paralizzato dal terrore di fronte ad un "Armageddon" del tutto inaspettato, spettatore suo malgrado del peggiore degli incubi. Dentro di lui si combatteva la battaglia tra la razionalità della ragione e la superstizione degli antichi racconti di paese pieni di fantasmi ed oscure presenze. I piedi non rispondevano al comando del cervello che intimava di scappare a gambe levate, ed il sindaco sembrava una statua di sale con i capelli sconvolti dalla mefitica tempesta. Poi tutto, improvvisamente, si tacque. Tornò il buio profondo ed il silenzio di tomba, mentre dalla sommità dello scalone apparve un etereo ectoplasma con le sembianze della baronessa. Con le braccia aperte fece cenno al sindaco di raggiungerla per un abbraccio mortale. Fu troppo. Come una lepre spaventata da un colpo di fucile, l'uomo si riscosse precipitandosi fuori dal palazzo. Era pallido in volto e sbattuto come un cencio. Una frezza bianca gli comparve tra i capelli per rimanere per sempre a ricordo di una notte di tregenda.

Il portone si richiuse dolcemente, mentre dall'interno della Casa si sentì una voce argentina ridere di un riso senza allegria.