mercoledì 2 novembre 2022

Il Cecere

 

Studiare gli piaceva, ma non più di tanto. Faceva i compiti diligentemente: lettura, matematica, storia e religione, ma solo il lunedì, poi metteva tutto in cartella e scendeva nel giardinetto sulla piazza. C’era sempre qualche amichetto e, a seconda del numero, si organizzavano partite a pallone o gare di nasconderella e chi s’accecava doveva contare dietro al tronco di uno dei tanti carrubi del parco. I carrubi facevano cadere in terra le carrube, una specie di grandi fagioloni dall’odore dolciastro. Si diceva che fossero commestibili, ma nessuno le aveva mai assaggiate né aveva la minima intenzione di farlo. Nel pomeriggio dei giorni feriali il giardinetto era frequentato solo da bambini accompagnati dalle madri o da qualche servetta. Le tate professionali si riconoscevano per la figura paciosa e sovrabbondante, l’immancabile collana di corallo, dono della padrona alla nascita del pargoletto, e per la “crocchia” di capelli ben stretta sulla nuca. Prevalentemente si sentiva parlare in ciociaro, ma non mancava qualche balia veneta che ogni tanto sbrodolava un’invocazione somigliante tanto a una affettuosa bestemmia. All’epoca il bambino aveva sette o otto anni e, come per tutti i suoi coetanei, il mondo gli sembrava una continua scoperta. Quell’appezzamento di prato e ghiaia ritagliato in mezzo al traffico cittadino era per lui un microcosmo. Osservava le formiche in fila con il carico di un filo d’erba o giocava con un girino nella piccola vasca della fontanella. Scopriva la ritrosia delle lumache che, toccate sulle corna, si rintanavano nella loro casetta fatta di guscio e la fatica di qualche bacherozzo intento a spingere una palla di “cacca” più grande di lui. Su qualche ramo più basso dei grandi alberi guardava i nidi degli uccelli e a volte capitava che scoprisse un passerottino caduto per terra che sembrava implorasse aiuto. Una volta ne aveva raccolto uno organizzando una specie di pronto soccorso in una scatola di scarpe, ma l’esito delle cure si era rivelato infausto per il piccolo paziente, e quindi decise di non intervenire più lasciando la natura libera di tessere i suoi disegni. Accadeva che talvolta i suoi amichetti non andassero al giardino o che dovessero tornare presto a casa, e allora lui restava solo con la tata. Si sedeva su una panchina e studiava i “grandi”. In quelle ore dedicate al lavoro, oltre alle accompagnatrici dei bambini, solo qualche persona anziana sostava nel giardino con la sporta della spesa o vecchi, più sperduti dei passerotti, con lo sguardo vacuo di chi non sa cosa fare e col dubbio se valga la pena di farlo. Ma, quasi sempre, c’era l’uomo col “cecere”. L’aveva chiesto alla tata, quell’escrescenza sul volto, prominente e pendula, si chiamava così, quasi a ricordare un cecio buttato in faccia alle persone. Era un omone, almeno per lui che era così piccolo, sempre vestito con un paltò di colore indefinito e col cappello in testa. Sedeva, leggeva il giornale, si alzava per fare un giretto, sorrideva a chi incrociava, poi si accomodava nuovamente su una panchina…col cecere pendulo. Non sembrava cattivo, forse non aveva famiglia, ma quel ciccio di carne era qualcosa che al bambino metteva i brividi. Il piccolo immaginava l’uomo farsi la barba e circumnavigare quel promontorio di carne prominente sulla guancia, con circospezione e prudenza. E poi chissà se lo strano polipo sarebbe cresciuto ancora, a dismisura, senza limiti. Forse un giorno l’uomo si sarebbe presentato ai giardinetti con delle bretelle attaccate alla nuca per sorreggere la massa estroflessa o con una carriola adatta a portare l’indesiderato peso. Magari quel cecere era il baby di una forma aliena o una specie di peste che si sarebbe trasmessa a tutto il genere umano, chissà? Il ragazzino era seriamente preoccupato e anche un po’ schifato. Finché un giorno, guardando attentamente, ma senza farsi accorgere, la guancia dell’uomo, il bambino vide che, alla base del ciccio, l’uomo aveva stretto un filo bianco, come quello da cucire. Lo sta strozzando, pensò. Sta togliendo vita all’alieno e combatte per estirpare quel parassita aggrappato ai suoi succhi vitali. Per qualche giorno l’uomo non si presentò da quelle parti, ma era comprensibile: la battaglia stava divampando cruenta e senza pietà. Poi tornò, senza cecere. Aveva avuto la meglio! Il bambino ne fu felice. Non disse niente alla tata, ma da quel giorno ebbe una preoccupazione in meno: gli umani potevano stare tranquilli, gli alieni non avrebbero vinto!

venerdì 7 ottobre 2022

Un Fiore


Mi piacerebbe che sul nostro pianerottolo ci fosse un banchetto di fiori. Fisso, ventiquattr’ore al giorno, con un omino gentile che non si stancasse mai di aspettare e rimanesse sempre disponibile per chi avesse bisogno di lui. Dovrebbe essere fornito di fresie in primavera e grandi peonie, di quelle sfumate sul colore del rosa e con l’aspetto un po’ decadente, verso maggio. Mazzi di lavanda nel mese di luglio, ciclamini all’inizio dell’inverno e rose tutto l’anno. Sotto Natale non dovrebbe offrire quelle piante rosse abbastanza banali, ma proporre composizioni di agrifoglio e bacche con rami di abete e stecche di cannella per spargere intorno l’odore delle Feste. Visto lo spazio disponibile, non mi aspetterei di trovare un vasto assortimento, ma sarebbe sufficiente che, come nei migliori negozi di alimentari, esponesse sempre delle primizie o delle ricercatezze selezionate fra le migliori sul mercato in quel momento. Il fioraio dovrebbe anche essere una persona provvista di un certo gusto estetico poiché sarebbe suo compito abbinare la tinta della carta crespa con i nastri ed fiori tra loro, in una armonica composizione di colori e profumi. A disposizione terrebbe dei semplici biglietti per accompagnare il dono floreale con brevi dediche o pensieri affettuosi. Non dovrebbero essere dozzinali, ma fatti con un bel cartoncino color crema che resistesse al tempo, magari in fondo ad un cassetto, per ricordare un momento o quella persona cara. Insomma, tutto molto curato e ben tenuto. Già, ma l’obiezione del venditore di fiori sarebbe inevitabile ed ovvia: per i miei affari non c’è abbastanza passaggio sul pianerottolo, direbbe. Ed avrebbe ragione, al nostro piano ci sono solo due appartamenti e il mio dirimpettaio ha una bella terrazza con molte piante e non credo sarebbe un gran cliente. Però, caro fioraio, io le vorrei spesso regalare un fiore quando di notte la guardo dormire, e poi quando torno a casa le vorrei portare un fiore che parlasse per me. Ancora un fiore quando, come adesso, scrivo pensando a lei, ed un altro da lasciare sul tavolo in cucina per accompagnare la colazione. Un fiore per ogni parola non detta, un fiore per ogni pensiero tenuto segreto, un fiore per ogni volta che la rivedo, un fiore per quando mi sta vicino. Ancora fiori che dicano: grazie, che dicano: il tempo non esiste, che dicano: sono qui. E poi fiori per festeggiare una ricorrenza o solo un altro giorno vissuto insieme, per rallegrare la casa o per vederla sorridere. Fiori da lasciare in un piccolo vaso di vetro sul lavandino, sulla scrivania dove lavora, da infilare tra le pagine della sua agenda fitta di impegni. Un altro fiore, solo uno, per non finire mai di darle un fiore.
Come vedi, caro fioraio, sul mio pianerottolo la clientela sarebbe sicuramente poco numerosa, ma se il tuo mestiere è anche spargere un po’ di amore, qui non ti mancherebbe il lavoro.

lunedì 29 agosto 2022

Fado el Pessoa



Quella notte era dolce a Lisbona. La luna si specchiava nel Tago e il castello dalla collina di San Giorgio come sempre rimaneva di vedetta per proteggere la città da invasori che non sarebbero più arrivati. Per le strette strade del centro un vociare di gioventù in cerca della vita e uno sferragliare di vecchi tram che rimandavano a storie di banale quotidianità. Piccoli ristoranti e bar con tavolini sulla strada spargevano spazzi di luce su marciapiedi male illuminati. Uno scroscio di risa, il richiamo di una ragazza, l’acciottolio delle stoviglie e i brindisi di qualche compagnia d’amici erano la colonna sonora di una città che si accompagnava nella notte. La locandina di un locale con la porta rossa e stretta annunciava uno spettacolo di Fado interpretato da una cantante dagli occhi tristi. Entrai e mi sedetti da solo, in disparte. Era occupata forse la metà della ventina di tavolini disposti davanti ad un piccolo palco. Coppie di amanti, forse clandestini, che si sfioravano la mano, coniugi anziani che sorseggiavano del liquore in piccoli bicchieri come stessero sorbendo una medicina e un signore con cappotto e cappello fuori stagione e gli occhiali spessi dalla montatura pesante. Chissà cosa stava scrivendo quell’uomo sul taccuino che teneva a portata di mano. Versi, impressioni poetiche o la lista della spesa? Sulla ribalta scarsamente illuminata un paio di sedie e un microfono erano in attesa dei musicisti. Avevo già sentito brani di Fado interpretati da Amalia Rodriguez, ma preferivo le cantanti di oggi. Quasi tutte con una voce calda, scura, che gorgheggiano facendo nascere suggestioni da parole gutturali con la erre arrotata. Non capivo niente di quelle rime, ma la magia della musica mi trasmetteva dolci sensazioni e una sorta di struggimento che non doveva essere molto lontano dal significato dei brani. Dalle quinte uscirono due chitarristi che presero posto sulle sedie incominciando a pizzicare le corde degli strumenti e, poco dopo, si presentò la cantante. Prima che cominciassero l’esibizione, con un cenno chiamai il cameriere e mi feci portare una bottiglia di Porto, era inevitabile. La donna, sotto a un timido occhio di bue, parlò brevemente alla sala ricevendo un applauso di cortesia e poi chinò il capo tenendo l’asta del microfono con la mano. I lunghi capelli neri le coprivano il volto e dopo un momento di silenzio, la musica attaccò. Un brano dopo l’altro, più o meno ritmato, ma sempre con una sfumatura che, in qualche maniera, mi ricordava il blues del Mississippi: un urlo del cuore di chi non ha altro per farsi sentire. Parole strane, per me senza significato, facevano brillare qualche lacrima, ma anche nelle canzoni allegre si sentiva una sorta di amara e spavalda sfida al destino, come la risata del torero nell’ora fatale. Applaudivo alla fine delle canzoni e mi rabboccavo il bicchiere. Applaudivo e rabboccavo. Alla fine dello spettacolo feci fatica ad alzarmi ma, se solo avessi potuto, mi sarei avvicinato alla cantante per abbracciarla, mi sentivo suo fratello, forse un po’ anche il suo amante. Per il tempo dello spettacolo mi aveva preso per mano e portato nel “barrio”, intorno ad un falò o sulla riva del mare. Tutto secondo la mia interpretazione, perché magari aveva cantato altro, ma non importava. All’uscita del locale vendevano dei CD dell’artista, ne comprai uno certo che l’avrei risentito provando ancora le medesime emozioni.

A casa non avevo il Porto e il CD mi sembrò una nenia, lo buttai in fondo a un cassetto e mi tenni il ricordo.

domenica 10 luglio 2022

Una Storia da Raccontare

 

Quel vecchio ha una storia da raccontare. Una storia che non sa quando ha sentito, se ha letto da qualche parte o se nasce dai suoi sogni. Una storia che narra di infiniti orizzonti, ma che non ha un inizio; una storia che descrive piccole cose, ma non ha una fine. Un racconto slegato dove tutto ha un senso, parole in libertà che si annodano con la poesia. Ce l’ha chiara, quel vecchio, la storia, ma gli mancano le parole, o forse ne ha troppe che premono per uscire dalla sua bocca, che vogliono farsi sentire o perdersi nell’aria come foglie cadute da un albero, che narrano di vita e di rimpianto. Vorrebbe raccontarla a chi vive di malizia e a chi si riscopre bambino, a chi si ferma per un attimo e a chi quell’attimo non lo trova; a chi ancora non è stanco e a chi sfoglia con curiosità, a chi chiede e a chi non ne ha il coraggio. Una storia dove non ci sono protagonisti, dove la musica parla suggerendo senza dire, che si svolge su un palcoscenico costruito sulle nuvole mentre di quinta è il cielo. Una favola o un dramma, un fatto o una fantasia, per ridere, pensare, lasciarsi andare e non piangere. Senza significato, che non sia possibile ricordare, che lasci solo una sensazione, un timido languore di angoli nascosti. Il vecchio comincia a raccontare mentre il sole tramonta, ma non dice mai “c’era una volta” e la notte amica accompagna le sue parole. A volte si ferma, ma la storia, una volta nata, non è più sua e vive come quelle piccole testarde falene che non hanno pace finché non si bruciano sulla fiamma. La fiamma di qualche anima inquieta o di una speranza celata, di un diapason all’unisono col cuore del vecchio che quella storia fa vibrare.

Quel vecchio io lo voglio ascoltare, lo conosco.  

domenica 20 marzo 2022

Alla Via Così!

 

Ho deciso: sarò un vecchio molto elegante. Un tocco di gel per tenere i riccioli bianchi in ordine, senza sconvolgimenti da parte di refoli inaspettati, e il mio “Joe Malone” personalizzato spruzzato con discrezione. I jeans li lascerò ai giovinastri e solo qualche “cinque tasche” in drill di cotone potrà essere ammesso tra il casual estivo. Guiderò una macchina che, come me, non darà peso ai suoi anni ed ad ogni colpo di tosse del motore risponderò con una mia eco, in un’improbabile dialogo fra vecchi collaboratori. Non me la prenderò se uno scapestrato, inopinatamente prepotente, mi ruberà il parcheggio che avevo puntato per primo, ma lo degnerò solo di un’alzata di sopracciglio tanto schifata che parlerà per me. All’impiegata delle poste che a causa di una mia leggera vacuità uditiva si mostrerà spazientita dopo aver ripetuto per la dodicesima volta l’importo che le avrei dovuto corrispondere a fronte del suo servizio, farò un sorriso che le insegnerà della vita più di quanto abbia fatto sin’allora la sua distratta genitrice. Se la carta di credito s’impunterà ostinata su un pagamento on line chiedendomi i codici di riconoscimento di tutti i miei conviventi e parole di verifica tanto indiscrete quanto perse nei meandri della memoria, la butterò sopra la spalla sinistra come si fa apotropaicamente col sale per scongiurare ulteriori fastidi. Dispenserò perle di saggezza tanto profonde e fumose che la sibilla cumana in confronto farà la figura di una scolaretta. Ogni tanto azzarderò una burla, un calembour, un piccolo lazzo col mio solito humor apprezzato da pochi eletti, sempre meno. A tavola spiluccherò finger food, tapas o canapè accompagnati da proseccucci millesimati dal fine perlage, aborrendo le amatriciane con doppia razione di guanciale croccante. Non spero che la Roma possa vincere ancora qualche trofeo, domestico o cosmopolita, e pertanto non dovrò placare alcuna soverchiamente volgare emozione, ma mi appassionerò a gare di pesca con la mosca o a tornei di badminton tra collegiali inglesi. Insomma, blasé e snob come il portiere di un circolo per soli gentlemen della city, in attesa che il tempo sfogli a suo piacimento i giorni della vita.  

Ma questo quando diventerò vecchio, per il momento mi incazzo ancora come un picchio, mi abboffo come uno scaricatore e aspetto solo che Mourinho si azzardi a perdere un derby per...

venerdì 18 febbraio 2022

L’ETICA DEL MARPIONE, OVVERO: QUANDO UN OSSIMORO FA LA DIFFERENZA.

 

Qualche tempo fa, in treno, stavo andando a Milano per lavoro. Dopo aver occupato il posto a me assegnato, mi guardai distrattamente intorno. C’era poca gente sul vagone, ma il mio occhio insofferente alla cacofonia cromatica venne subitaneamente attirato da una sciarpa patchwork in confronto alla quale qualunque abbigliamento sfoggiato da uno zingaro in vena di eccentricità sarebbe risultato sobrio. Grande come un lenzuolo matrimoniale, più colorata del cappottino di Dolly Parton bambina, di un materiale simil-seta lucido e viscido come la pelle di un mamba africano, era annodata ad un intuibile collo di un rubizzo passeggero seduto a ore 2 rispetto alla mia postazione. L’uomo sembrava sulla mezza età; l’addome strabordante da una cintura ai limiti della resistenza ed una delicata filigrana di capillari purpurei ad ornamento del naso, testimoniavano con certezza che il verbo “continenza” si coniugava raramente nel suo lessico familiare. Anche lui mi notò e con inquietudine mi accorsi che stava dando il via ad una complessa manovra di disincagliamento dal sedile per appropinquarsi a me.

-Buonasera. – Disse con un mal addomesticato accento dal quale trapelava un retrogusto di nduja e aglio odoroso.

-Buongiorno. – Precisai, volendo sottolineare come il saluto fosse inappropriato in presenza di invadenti lame di luce fendenti dai finestrini a palese testimonianza del sole allo zenit.

-Scusate il disturbo, siete salito a Roma, nevvero? – Continuò – Mi stavo chiedendo se, per caso, voi conosciate qualcuno al Ministero dei Lavori Pubblici. – La consecutio era quantomeno labile, assumendo che l’essere partito da Termini fosse requisito sufficiente per appartenere al sottobosco della parastatalità. Come disse Totò in una famosa macchietta spacciandosi per il Pasquale che non era, “chissà questo dove vuole arrivare?” sogghignai tra me decidendo di assecondarlo.

-Beh, fra noi a Roma ci si conosce un po’ tutti. – Gli dissi per incoraggiarlo, celando la mia misantropia patologica.

-Bene. Permettete che mi presenti. – Fece il tizio coniugando il nome proprio di un patrono dal sangue ballerino con un cognome frutto della Ruota degli Innocenti. E si sedette di fronte a me.

-Molto lieto, - risposi- Mario Rossi. – In quel momento ritenni che fosse utile dire una piccola bugia da usare come preservativo nei confronti di un’eventuale contaminazione di confidenza. – Come posso esserle utile?

-Lasciate che ve lo spieghi. – Si mise comodo, per quanto il sedile gli concedesse, e prima di cominciare tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un secondo lenzuolo king size, stavolta tutto bianco, o quasi. Tirò un respiro che avrebbe potuto competere con l’inalazione di Maiorca prima di buttarsi in apnea, e poi soffiò attraverso le narici con un impegno degno di migliore causa. La sirena del Titanic sarebbe risultata più discreta in confronto al barrito provocato, e non stetti ad indagare sulla corrispondente produzione. Poi, liberato, e felice del suo exploit, continuò. – Dovete sapere che io vengo da un paese bellissimo, vicino al mare e con tanta terra coltivata tutt’intorno. La mia occupazione è fare favori, mi piace. La gente mi vuole bene e quando qualcosa preoccupa un mio concittadino o magari ci sta qualche problema economico, io intervengo cercando di risolvere per il meglio.

-Meritorio. – Commentai “tranchant”.

-Già. – Si concesse una pausa socchiudendo gli occhi come compiacendosi per la propria munificenza forse sprecata per i villani di quel paese. – Allora, dicevo, possiedo una certa disponibilità di denaro, non molto mi dovete credere, ma abbastanza per fare del bene. Eh, intendiamoci, non sono un santo. Una piccola carezza, un leggero guadagno, me ne deve venire, altrimenti andrei presto a zappare la terra e se qualcuno mi prega di togliergli un fastidio, poi chiederò un favore, mi sembra giusto. Così come qualche soldo anticipato mi deve tornare più grasso. – Il tizio proruppe alle sue stesse parole in una risata tanto sgradevole quanto inquietante.

-Interessante, - intervenni – ma non vedo…

-Oheeee! Avete fretta? Tanto qui dovete stare, no? Allora, faciteme o’ piacere, statemi a sentire.

-Certamente, caro.

-Okkei. – Accortosi di avermi un po’ spaventato, il tizio sfoderò un sorriso da trentadue denti. O meglio, trentadue sarebbero stati se ci fossero stati, in realtà ne apparvero una quindicina ben distanziati e sui toni dell’ocra/terra di Siena. – Scusate, ma se perdo il filo… E quindi…fra le tante mie attività io sono anche un costruttore. Ho edificato una serie di palazzi da quindici piani proprio sulla costa, in prossimità del mare, che sono una bellezza! Per la verità, qualche Pretore senza gusto estetico e contrario alla modernità, provò a obiettare qualcosa, ma poi dopo che malauguratamente ebbe trovato sul proprio letto le spoglie del suo precocemente defunto animale domestico, si rese conto che nella vita ci sono cose più importanti di qualche colata di cemento qua e là.

-Eh, la libertà d’impresa viene ostacolata! – Simpatizzai con l’imprenditore.

-Esattamente! Comunque, qualche tempo fa ho ricevuto una donazione da parte di un paesano a seguito di un debito non onorato. Si tratta di un lotto di terreno di circa mille metri quadri e vorrei costruirci sopra un altro edificio sullo stile degli altri. Il vecchio proprietario ha firmato il passaggio di proprietà volentieri, anzi volentierissimo. Avreste dovuto vedere com’era contento di sbarazzarsi di quel pezzo di terra pur di allontanare la fastidiosa sensazione di freddo che avvertiva sulla tempia causata dallo strumento di lavoro di un mio socio.

-Capisco. – Ribattei io, già estremamente pentito per aver derogato dalla regola aurea che recita: “solitudo sola beatitudo”, ma incapace di svincolarmi.

-Lo vedete che mi capite? In fondo siamo tutti e due sulla stessa barca, no?

-Abbia la compiacenza, di quale barca stiamo parlando?

-Eh, caro il mio signore di Roma, voi siete un furbacchione! – Ammiccava, sogghignava e sottecchiava come un allibratore con la soffiata vincente nei confronti di uno scommettitore indeciso. – Noi uomini di mondo siamo! Comunque, torniamo al mio piccolo “bussinnesse”. A me serve qualcuno ai Lavori Pubblici che porti una strada dalla statale al mio terreno, altrimenti sarebbe difficile vendere gli appartamenti di un palazzo quasi irraggiungibile.

-Capisco, ma forse potrebbe pensare lei stesso a fare una via d’accesso. Non credo che si sia mai fatto tanti scrupoli in merito ai permessi. O sbaglio?

-Sissignore, io sono uomo di sostanza non di scartoffie. Se c’è da fare faccio e poi le cose si aggiustano.

-E allora a che le serve una concessione dal Ministero?

-Mi piacete, voi siete…un figlio ‘e ‘ntrocchia comm’amme. Avete colto il punto. Questa volta voglio fare le cose per bene perché non ci sono di mezzo solo i miei interessi. – Fui quasi stupito da questa dichiarazione di correttezza da parte di quell’uomo che fino ad allora mi era apparso così disinvolto. Forse rischiava di entrare in conflitto con qualche boss locale e aveva paura di scatenare ritorsioni o faide generazionali?

-Può spiegarsi meglio? – Sentendo le mie parole, e ricordandosi il motivo della sua titubanza, all’uomo si riempirono gli occhi di lacrime. Di conseguenza, mise la mano in tasca per riesumare il fazzolettone. Mi aspettavo di nuovo un concerto per trombone e spruzzi, ma per fortuna all’ultimo ci ripensò accontentandosi di un rapido passaggio del naso sulla manica della giacca.

-Quei poveri orfanelli! – Oggesù, pensai, vuole fare una strage! Poi continuò. – La strada dovrebbe passare attraverso la proprietà di un collegio per bambini abbandonati e io non voglio che loro subiscano un danno. Se faccio a modo mio, l’orfanotrofio perderebbe una parte del suo terreno senza avere niente in cambio, invece se interviene il Ministero con un esproprio dovrebbe risarcire quanto sottratto. In questa maniera saremmo tutti felici: io con la mia strada e gli orfanelli con un po’ di soldi.

Il ragionamento filava, ma c’era qualcosa che non mi tornava. Con la spavalderia e sprezzo del pericolo che mi sono propri, azzardai la domanda.

-Mi perdoni l’ardire, – esordii – come mai lei ha tanti scrupoli nei confronti di quei bambini quando taluno potrebbe patire la propria condizione forse a causa del suo stesso intervento?

-Non ho capito. – Disse. Presi il coraggio a due mani.

-Intendevo: perché ha tanto a cuore quelle creature quando, probabilmente, a rendere orfano qualcuno di loro può essere stato proprio lei? – L’uomo ristette serio e compunto, poi, dopo un’energica grattata sub ascellare, mi rispose.

-Io, caro signore, posso essere il peggiore degli uomini, ma non sarei un uomo se facessi del male ai piccerilli. E’ chiaro, o no?

Era un’etica di vita un po’ contorta, ma chi ero io per giudicare?

-Giustissimo. Quando torno a Roma vedrò cosa posso fare, non dubiti.

-Ehh, così mi piacete. E poi state sicuro che qualche picciolo rimarrà attaccato alle vostre dita. – In quel momento il “train manager”, ovvero il vecchio capotreno trasferito su Italo, annunciò: “Prossima fermata: Rogoredo”.

Colsi l’occasione al volo e mi scusai col mio interlocutore dicendo che ero arrivato, anche se non era vero. Scesi, ma prima di avviarmi verso un taxi, mi recai alla toilette per lavarmi le mani. Mi sentivo le dita appiccicose.

 

 

 

 

 

 

venerdì 28 gennaio 2022

LA PORTA GRIGIA

 

Sicuramente caricare la lavatrice non era il migliore dei passatempi, ma Giovanna lo faceva volentieri perché a lei piaceva moltissimo stendere il bucato. Dopo che la macchina aveva terminato i suoi cicli, la donna raccoglieva i panni umidi in una bacinella di plastica blu e si avviava verso la terrazza condominiale per sciorinarli al sole. Chiudeva alle sue spalle la porta dell’appartamento, prendeva l’ascensore di servizio, quindi una piccola rampa di scale e si trovava di fronte ad una porticina di ferro grigia. Posava in terra il catino e spingeva l’uscio avanti a sé fino a spalancarlo. La penombra del vano scale veniva improvvisamente inondata di luce. Nei giorni d’estate il chiarore del sole era come uno schiaffo sul volto della donna, l’accecava per un momento e poi l’abbracciava col suo calore. Ma anche quando il tempo si presentava nuvoloso sembrava di entrare in un’altra dimensione, ad un passo dal cielo. Il terrazzo era di tutti, ma siccome non c’era quasi mai nessuno, Giovanna lo sentiva esclusivamente suo. Col bucato in braccio, usciva fuori e restava per un momento ferma, incantata. Sempre. Il panorama non era mai uguale, dipendeva dalle stagioni, dal clima o dall’orario. Ogni volta cambiavano i colori mentre il cielo virava dal turchese intenso al grigio piombo. A volte veniva accolta dallo stridio delle rondini che passavano veloci a poca distanza da lei, poteva ammirare il gioco fluido degli storni che in gruppo disegnavano nel cielo figure senza senso, oppure guardare un gabbiano dalle ampie ali, così fuori posto nel suo nuovo habitat cittadino. D’autunno le nuvole galoppavano nel cielo una appresso all’altra cambiando forma come plastilina nelle mani di un bambino, mentre in estate appariva tutto immobile con i tetti delle case e le cupole che rimandavano il calore come cocci di terracotta appena sfornati. Capitava che uno sbuffo di vento la cogliesse di sorpresa alle spalle quasi la volesse spingere a volare mentre, nel silenzio di quel mondo a parte, abbandonava ogni cupo ed inutile pensiero. Si avvicinava ai fili tesi tra due spranghe e dalla tasca del grembiule recuperava una manciata di mollette. L’aveva trovate nello sgabuzzino, perdute da chissà quanto, erano ancora quelle di legno con la molla in acciaio. Usava sempre le stesse perché erano fatte con materiali provenienti dalla natura e rimandavano alla sua infanzia, quando anche gli oggetti più insignificanti venivano prodotti per durare. Stendeva le lenzuola umide aspirando l’odore del bucato, un sentore di pulito che la riportava all’innocenza. In quel momento, sulle labbra le nascevano melodie o mantra improvvisati che davano voce al suo cuore ingolfato, mentre ogni cosa riprendeva la sua giusta dimensione. Lasciava la fatica su quelle corde e, come in un rito pagano, affidava il suo lavoro al Sole perché lo purificasse e le venisse restituito sotto forma di amore. Erano sensazioni vaghe che assomigliavano lontanamente alla felicità, ma che da questa si discostavano per il pudore di vivere qualcosa di non meritato. Momenti che Giovanna aspettava come remunerazione del suo sacrificio, gemme di vita che celavano il fiore della speranza mentre ritrovava se stessa assolvendosi da nessuna colpa. Prendeva una camicetta di sua figlia e dentro di sé le sorrideva, un capo di biancheria di suo figlio e lo accompagnava con un pensiero d’affetto, una camicia del marito e ne toglieva qualche piccola piega come gli stesse mandando una carezza da lontano. Il quotidiano compito di stendere i panni durava pochi minuti, forse un quarto d’ora, poi Giovanna riprendeva la bacinella azzurra ormai vuota, la metteva sotto al braccio e tornava verso la porticina di ferro grigia. L’apriva superandola e poi la richiudeva alle sue spalle lasciando la luce per immergersi nella penombra delle scale condominiali. Sarebbe tornata l’indomani e chissà per quante altre volte ancora. O forse no. 

 

venerdì 21 gennaio 2022

Una Breve Amicizia

 Bruno era un uomo metodico. Si alzava la mattina sempre alla stessa ora e, dopo aver indossato una lunga vestaglia di lana scozzese, si preparava un caffè ristretto e molto zuccherato. Poi, si avvicinava alla finestra che dava sul terrazzo per decidere come si sarebbe dovuto vestire per affrontare la giornata compatibilmente con le condizioni meteorologiche. Il terrazzo era un po’ lo specchio del suo carattere: ordinato, ben curato, con piantine di geranio in fiore scelte perché economiche, colorate e anti-zanzare. Tutto pensato a dovere, senza slanci di fantasia ma con piante robuste e resistenti. Non mancava un albero di ulivo piantato in un grande vaso che occupava buona parte dello spazio. Era stato comprato presso un vivaio vicino alla casa di Bruno qualche anno prima scegliendolo con cura secondo i parametri dell’arborescenza, della vetustà e della robustezza, oltre naturalmente all’adeguato rapporto qualità-prezzo. Poi l’aveva fatto sistemare vicino al parapetto in corrispondenza della porta finestra in modo che l’estate proiettasse un po’ della sua ombra verso la casa e d’inverno muovesse la visuale con lo stormire delle fronde. Una mattina, mentre soffiava nella tazzina del caffè, notò che sul ramo più basso dell’ulivo c’era un ospite inaspettato. Un uccellino paffuto e arruffato, forse un passerotto dal colore marroncino stinto, zampettava su e giù come per capire dove fosse capitato. A Bruno l’animaletto fece subito simpatia e si fermò a guardarlo. Anche il volatile sembrò accorgersi dell’uomo e smise di agitarsi. Piegò il capino scuotendo le ali e poi, con un piccolo scatto, si rimise sull’attenti puntando il suo ospite con gli occhietti neri e vivaci.


-Cirp! - esclamò, come saluto al suo nuovo amico. Il ragioniere sorrise e agitò la mano in segno di benvenuto, un gesto tanto irrazionale quanto inaspettato da uno come lui. Poi si voltò e riprese la sua giornata. La mattina dopo Bruno si alzò dal letto chiedendosi se avrebbe ricevuto ancora visite e quindi si affrettò a prepararsi il caffè. Si avvicinò alla finestra e vide che Angelo – così aveva deciso di chiamare il passerotto – era presente nel medesimo posto del giorno prima. Sembrava trovarsi bene, senza più alcuna timidezza, faceva brevi svolazzi per tornare a posarsi nel punto di partenza e si guardava intorno come se stesse prendendo le misure della sua nuova residenza. Vide l’uomo:

-Cirp! - strillò con cordialità e Bruno rispose con un “Ciao!” che non poteva essere sentito al di là dal vetro, ma che sicuramente l’uccello notò. Il ragioniere decise che, tornando a casa, si sarebbe fermato al supermercato per comprare un sacchetto di mangime da spargere sul tronco per l’animaletto. Così fece e quella sera uscì sul terrazzo per disporre sul ramo dell’ulivo una manciata di semini per Angelo. Il mattino seguente, con la tazzina fumante in mano, si affacciò per vedere se il suo nuovo amico gradisse la colazione. Il passerotto doveva aver già mangiato perché non degnava i granelli di uno sguardo, anzi sembrava che gli desse fastidio vedere sporcato il suo ramo. “Scusa” pensò Bruno rivolto mentalmente al passero “non pensavo di farti un dispetto. Non mi disturberò più, stai sicuro.” Per uno stano effetto ottico, quel giorno l’uccello appariva cresciuto, più in forma, sicuro di se. Forse era anche telepatico perché sembrò aver captato il pensiero di Bruno e si voltò di scatto puntando gli occhietti neri verso l’uomo con la fronte aggrottata.

-Cirp! - pronunziò, e Bruno capì perfettamente quello che intendeva. Secondo lui, e secondo l’interpretazione dell’uomo, il mangime non era di buona qualità e comunque, prima di prendere iniziative che riguardassero la persona del volatile, Bruno avrebbe dovuto consultarlo.

-D’accordo. - assicurò il padrone di casa. -Vai a fare del bene ai passeri…

-Cirp!

-Ho capito. Non c’è bisogno di essere sgarbati. Comunque, adesso vado a lavorare, ci vediamo domani. – Angelo si scosse facendo un’alzata di quelle spalle che non aveva e si voltò sul ramo dando la coda all’uomo come per intendere che l’udienza era finita ed adesso aveva qualcosa di meglio da fare.

-Cirp! – Il passeraccio, che sembrava più grande del giorno prima, accolse spazientito il ragioniere quando la mattina successiva l’uomo si affacciò alla finestra.

-Che ti prende oggi?

-Cirp, cirp, cirp!

-Addirittura? E che ci posso fare io?

-Cirp!

-Non è colpa mia. Lo so, è sbagliato, ma parlo con te perché non ho amici e tu lo hai capito bene. Però sei cattivo, non mi trattare male. – Angelo non sentiva alcuna compassione per quell’uomo piagnucolante. Era un essere falsamente superiore, in realtà un poveraccio che si nascondeva alla vita.

-Ci vediamo domani, se vuoi. – Bruno quasi scappò a vestirsi.

Quella notte l’uomo dormì male. Gli tornò in mente sua madre che lo rimproverava, un vecchio amico che lo prendeva in giro e suo fratello che non vedeva da vent’anni. Ripensò a quell’unico grande amore che finì senza neanche iniziare lasciandogli una strana nostalgia per quello che non aveva vissuto. Si alzò dal letto controvoglia, ma non poteva mancare all’appuntamento con Angelo.

-Ciao.

-Cirp!

-Ho capito che ce l’hai con me! Ho fatto quello che ho potuto, ma adesso sono solo. Pensavo di aver trovato in te un amico.

-Cirp! – Angelo fiammeggiava dagli occhietti neri e puntava il becco in direzione di Bruno come un dito accusatore di tutte le mancanze che l’uomo si riconosceva. Era chiaro che non aveva alcuna intenzione di essere accondiscendente, anzi sembrava goderci nel vederelo crollare davanti a lui. Bruno quel giorno non andò al lavoro, ma la mattina seguente tornò al cospetto dell’uccello.

-Sono qui, che mi devi dire?

-Cirp!

-Lo so, sono un fallito e non mancherò a nessuno. Vado in cucina. Dicono che il gas addormenta e poi tutto si risolve. Sei d’accordo?

-Cirp!

La polizia trovò il corpo dell’uomo senza vita e con la testa nel forno. Aveva lasciato un biglietto con sopra scritto: “E’ stata colpa dell’uccello.” L’ispettore che lo lesse si stupì moltissimo, non avrebbe mai creduto che quell’individuo in apparenza tranquillo e per bene nascondesse attività erotiche estreme. “Dove andremo a finire?” Pensò e, sbuffando una nuvoletta di fumo dell’ennesima sigaretta, archiviò il fascicolo che parlava di Bruno.