venerdì 27 dicembre 2019
L'odore
In fondo alla strada, sulla sinistra, si apriva un vicolo cieco. Non aveva un nome perché nessuno lo cercava ed anche il sole ci faceva capolino solo sporadicamente, tanto nessuno passava di lì. Solo un portoncino interrompeva la monotonia dei tre muri che ne delimitavano il perimetro ed un gatto più nero del demonio vi si aggirava libero con aria da padrone. La bottoniera accanto ai due piccoli battenti di legno mostrava pulsanti per almeno una decina di famiglie, ma gli spazi per i nomi erano vuoti e pieni di povere, come se l’edificio fosse disabitato o volesse scoraggiare l’intrusione di qualsiasi estraneo. Solo una di quelle finestrelle, in un angolo e quasi scolorito, riportava un numero: tre. L’uno e il due, se c’erano mai stati, se ne erano andati e quelli dopo venivano lasciati nel limbo dei mai nati. Uno scatto faceva aprire l’anta d’ingresso e quel rumore manovrato da lontano quasi sorprendeva nel silenzio immobile di un budello dimenticato di città. Ci doveva essere qualcuno acquattato in qualche parte che ancora voleva comunicare col mondo, forse aspettava da tempo un visitatore, magari non sperava altro che di sentire dei passi nell’androne, giù da basso. Ma ci voleva, se non coraggio, almeno un certo spirito d’avventura per entrare nella casa e lasciare che dietro le spalle si richiudesse la barriera tra una specie di tana dagli ignoti meandri ed il resto del mondo. Una guardiola chiusa e deserta, con un quotidiano lasciato sul tavolino di formica che riportava notizie di un tempo con la stessa ansia dei titoli di sempre, bollette della luce e pubblicità di sconti imperdibili nell’angolo vicino al sottoscala, qualche foglia e cartaccia che sembravano parte stessa dell’arredo di un architetto dal gusto decadente. La luce proveniva dalla gialla lampadina di una plafoniera stile déco sempre accesa e da un lucernario lontano, in corrispondenza della tromba delle scale. Niente ascensore. Due rampe di gradini e poi, finalmente, l’interno tre. L’odore. L’odore di quell’ appartamento era un biglietto da visita che lo faceva conoscere senza averlo mai visto, che presentava i suoi inquilini prima ancora di averli incontrati.
mercoledì 18 dicembre 2019
Elementare, Watson
Io non gliel’ho detto mai, ma questa
sua presunzione di avere il cervello più fino di qualsiasi altra persona, mi ha
sempre urtato profondamente. Nel mio ruolo di biografo ufficiale di Sherlock
Holmes, ho descritto il mio supposto amico come una persona eccezionale, di
grande sensibilità ed altruismo. In realtà, è ora che lo confessi, il detective
privato più famoso di Londra è un gran fanfarone, tutto fumo e pochissimo
arrosto. Per farvi un esempio:
-Allora Watson, com’era il tempo a
Leigh on Sea?
-Perbacco Holmes, come avete fatto a
capire che torno adesso da una gita al mare?
-Ah, ah, ah! Elementare, per non dire
puerile. Avete il tacco della scarpa destra con ancora un po’ di fanghiglia
appiccicata ed un piccolo rametto di “crithmum maritimum”, o finocchio di mare,
infilato tra i capelli. Si tratta di una pianta alofila (dal greco halo = sale
e phile = amico) che alligna nei terreni salmastri e, con particolare vigore,
nella contea dell’Essex. Poi ricordo che tempo fa, sfogliando una rivista illustrata,
ve ne usciste con un apprezzamento particolarmente vivace su quella cittadina.
E quindi…
-Già, già.
-Ritengo inoltre che abbiate assai
gradito il pasticcio di montone servito dal “Blue Boar”, il pub locale. E, con
sufficiente certezza, non vi sarete fatto mancare una buona pinta di birra ed
una chiacchierata con l’ostessa che, vi dirò di più, è una giovane dai capelli
rossi e ben in carne.
-Santi Numi! Questa poi…Come sapete
dove mi sono fermato a mangiare e addirittura l’aspetto della proprietaria del
locale?
-Osservo e deduco. Sul bavero della
vostra giacca si nota distintamente una briciola di pasta brisee che, a pranzo,
si serve spesso ripiena di montone, e poi dovreste spazzolare via quel capello
fulvo che spicca nettamente sulla vostra spalla. Lo dico per voi e per non
indurre strani pettegolezzi. In quanto al nome del locale, siccome anch’io mi
recai un lustro addietro da quelle parti, ricordo come solo al Blue Boar vidi
servire ai tavoli una piacevole donna formosa dalla capigliatura color del
rame.
-Come al solito mi stupite, Holmes.
-Elementare, Watson, elementare.
Così lui fece bella figura facendomi
sembrare uno sprovveduto. Salvo sapere successivamente che, poco prima che
salissi le scale verso il nostro appartamento, un vetturino aveva lasciato
nelle mani di Holmes una sciarpa che avevo dimenticato al pub con la preghiera
di consegnarmela unitamente ai saluti dell’ostessa ed all’invito a rinnovare la
visita per gustare nuovamente il montone. Altroché capacità deduttive: fumo,
solo fumo.
Comunque, non era questo che volevo
raccontare.
Era la sera della vigilia di Natale,
io ed Holmes avevamo cenato abbastanza presto facendo onore ai manicaretti
preparati dalla signora Hudson con la cura e la devozione richiesti dalla
solenne ricorrenza. Eravamo ormai al Christmas Pudding, accompagnato da una
dosa generosa di Porto, quando il mio commensale, forse intenerito
dall’atmosfera festiva, si abbandonò a confidenze per lui del tutto inusuali.
-Caro Watson, - mi disse a bassa voce
con aria sognante – ricordo quando io e mio fratello Mycroft aspettavamo questa
magica notte con ansia e trepidazione. Come tutti i bravi bambini, eravamo
soliti preparare una letterina per Babbo Natale che poi consegnavamo per la
spedizione nelle mani di nostro padre. Mi dovete credere, eravamo assolutamente
sicuri che, durante la notte, il vecchio panzone vestito di rosso ci avrebbe
portato i regali richiesti e, per l’emozione, non riuscivamo a chiudere occhio
fino a tarda ora. Naturalmente il giorno dopo trovavamo vicino al camino, o
sotto l’albero, tanti pacchetti ed, in qualche modo, ci sentivamo ricompensati
per tutti i buoni voti riportati a scuola durante l’anno trascorso. Da lì,
forse, nacque la convinzione che le azioni di ciascuno vengono sempre ripagate
con la moneta corrispondente: chi ben si tiene, ne ricaverà vantaggio, ma chi
si comporta male ne subirà le nefaste conseguenze.
-Amen! –Interloquii con la lucidità
concessami dall’ennesimo bicchierino sorseggiato con gusto – Così deve essere:
a ciascuno il suo e…amen! – Mi rendo conto che avrei potuto fare di meglio in
sede di commento, ma fu già tanto riuscire a liberare la lingua dalle pastoie
del liquore.
-Però, fedele amico, l’esperienza
della vita mi ha poi insegnato che non sempre il destino si comporta in maniera
corretta. Spesso i buoni soffrono mentre i malvagi godono, e solo chi ha fede
in una ricompensa futura da riscuotere in un’altra vita può credere ancora che
valga la pena camminare rettamente in questo mondo pieno di ingiustizie.
-Sento dell’amarezza in queste parole,
Holmes. In fondo se Babbo Natale continua a tornare tutte le notti di ogni
ventiquattro dicembre, ci deve essere una brace di speranza che arde ancora
sotto la cenere della disillusione, e ciascuno di noi può sempre aspettarsi un
dono.
-Ho sempre saputo che siete un
sognatore ed un eterno bambino, caro il mio dottore. Ma la mia lente
d’ingrandimento non ha mai rilevato le impronte del passaggio di nessun Babbo
Natale ed ormai ho smesso di credere alle favole da molto tempo.
Finimmo la conversazione con qualche
altra rimembranza dei tempi andati e quando la pendola batté le undici, cedemmo
al richiamo del sonno. Io mi ritirai nella mia stanza con un trattato di
anatomia da sfogliare per fini soporiferi, ed Holmes prese con sé una scatoletta
che sapevo contenere quei medicinali ai quali ricorreva sempre più
frequentemente.
Non riuscii a finire il capitolo
riguardante la rotula e le sue articolazioni, che caddi nel sereno oblio dei
giusti. Ma il ripieno del tacchino servito per cena non ebbe la creanza di
transitare velocemente attraverso il mio stomaco, anzi si soffermò a lungo
causandomi un senso di disagio che innescò mille fantasmagorici sogni ed uno
sgradevole senso di pesantezza. Pertanto non saprei dire se fu immaginario o
reale il trambusto che mi parve di udire proveniente dal salotto in un’ora
imprecisata della notte. Comunque non ci feci caso più di tanto, impegnato
com’ero a combattere a fianco di Don Chisciotte contro degli strani mulini che
al posto delle pale mostravano la faccia scorbutica della signora Hudson.
La mattina successiva i fumi notturni
si dissolsero ed aprii gli occhi sentendomi di ottimo umore e con una strana
eccitazione addosso. Spalancai la finestra della mia camera abbeverandomi
dell’aria fresca mentre un pallido sole faceva sembrare bella anche Baker
Street, a quell’ora deserta ed imbiancata da un rilucente manto di candida neve
appena caduta.
-Watson, Watson, non dovevate! – Il
richiamo stentoreo della voce del mio amico mi giunse imperioso da oltre la
porta. Evidentemente si doveva essere alzato prima di me ed ora, in salotto,
richiedeva la mia presenza.
-Cosa? - Urlai di rimando, solamente
per avere una risata come risposta. Incuriosito affrettai le abluzioni
mattutine per raggiungere Holmes.
-Allora Sherlock, che vi prende? Cosa
non avrei dovuto fare? – L’investigatore con la pipa stretta tra i denti e con
indosso una sgargiante vestaglia di velluto rosso, mi guardò con aria
maliziosa.
-Questo pacchetto con scritto sopra il
mio nome. Eravamo d’accordo di non farci alcun regalo quest’anno, ma mi accorgo
che non siete stato di parola.
-Veramente Holmes, io…
-Aspettate! Anche questo…Mi accorgo
adesso che vi siete voluto disturbare addirittura con un altro presente. Fatemi
vedere. – Pronunciando queste parole, l’uomo si chinò per raccogliere un’altra
scatola che era scivolata dietro una poltrona vicino al camino.
-No, questo non è per me. Capisco che
abbiate voluto creare un clima festoso, ma giungere fino al punto di incartarvi
da solo un regalo e scriverci sopra il vostro nome, mi sembra un po’ eccessivo.
-Ma, vi assicuro…
-Siete impagabile, Watson. Avete
voluto farmi una sorpresa che non ricevevo dai tempi dell’infanzia. Non so come
ringraziarvi.
-Un momento, Holmes, fatemi parlare.
Questo fatto dei pacchetti…non è opera mia! E’ la prima volta che li vedo e rimango
allibito quanto voi.
-Cosa intendete dire? Volete affermare
di non essere stato voi a portare in casa le due strenne? E’ uno scherzo?
-Lungi da me prendervi in giro o
raccontare menzogne. Vi ripeto che non ho mai visto quei pacchetti.
-Beh, siamo in presenza di un mistero!
Voi non avete comprato alcun regalo, io non ci ho pensato minimamente, e allora
come può essere? – La mente allenata del detective si mise in funzione
automaticamente. – Teniamo presente che: ieri sera i pacchetti non c’erano; l’appartamento
è stato chiuso a chiave per tutta la notte; altre entrate nascoste in questi
locali non ce ne sono; nessuno ha il movente per farci dei regali di Natale. Va bene, Watson, procediamo nell’analisi. Apriamo,
con cautela, gli involucri e vediamo cosa contengono. – La cautela non fu
considerata minimamente, anzi ci precipitammo a scartare ognuno il suo regalo
con la frenetica curiosità di due bambini. Quando vidi il mio rimasi a bocca
aperta. Si trattava di un’antica promessa di Ippocrate stampata su pergamena
che avevo visto da un libraio antiquario ripromettendomi di acquistarla senza
però decidermi a farlo.
-E voi Holmes, cosa avete trovato? –
Mi accorsi che l’algido investigatore aveva gli occhi lucidi mentre tirava
fuori dalla scatola una piccola scultura in ceramica raffigurante un cane dal
manto nero e dalle lunghe orecchie.
-E’ Brutus, il mio cane di quand’ero
ragazzo. Fu l’unico amico per buona parte della mia giovinezza e il compagno di
tante giornate solitarie. Mi capiva e sapeva consolarmi come nessun altro e
quando morì piansi tutte le mie lacrime. Non l’ho mai dimenticato. – Restammo
entrambi assorti e pensierosi per alcuni istanti, stupiti di quei regali tanto adatti
ad ognuno di noi.
-Comunque Holmes, al di là del fatto
che questi doni ci facciano piacere, la domanda rimane: chi è il latore? E come
ha fatto ad indovinare cosa portarci? Ma, soprattutto, come è potuto entrare in
salotto? Siete voi il detective: orsù, fate onore alla vostra fama! – L’investigatore
raccolse il guanto di sfida lanciato alla sua intelligenza. Cominciò a
camminare per la stanza sbuffando fumo dalla pipa come la ciminiera di una
locomotiva e nello stesso tempo parlottava tra sé gesticolando come un
invasato.
-Nessuna entrata…salvo, naturalmente,
la canna fumaria del camino…due pacchetti ben incartati…il mio nome in forma
confidenziale…anche Watson…rumori nella notte…fuliggine sul tappeto…porte
sbarrate…niente di rubato…coincidenza con la festività…
-Ebbene? – Lo sollecitai
distogliendolo dalla sua maratona casalinga.
-Allora, caro Watson, è un classico
delitto della porta chiusa. Salvo che qui non c’è crimine, piuttosto un’azione
gentile. Il meccanismo però è lo stesso: apparentemente senza soluzione.
Nessuna possibilità di entrare, né di uscire, e solo un elemento nuovo sulla
scena che prima non c’era. Non si tratta di cadaveri, bensì di regali, ma
sembrano incongrui ugualmente.
-Quindi?
- Pertanto, in questi casi, si ricorrere
alla teoria dell’esclusione.
-Che dice…
-Enuncia come al momento in cui, per
un certo accadimento, vengano eliminate
tutte le cause impossibili, le ipotesi che rimangono, anche se improbabili,
devono corrispondere alla realtà dei fatti.
-Nel nostro caso?
-Non può essere entrato nessuno, ma
c’è un personaggio che non passa attraverso le porte e che conosce i desideri
di tutti. Si muove soltanto la sera di Natale e porta la felicità in ogni casa.
Non si fa vedere, ma lascia il segno del suo passaggio nel cuore di chi crede
in lui. E’ un signore anziano che però non invecchia mai, esattamente come i
sogni che ci portiamo dentro fin dall’infanzia. Viene cercando di fare meno
rumore possibile e poi si allontana nel cielo notturno. Insomma, l’identikit è
chiaro: si tratta di Babbo Natale!
-Perbacco Holmes, è non era mai
capitato di vedervi felice per “non” aver preso un colpevole!
-Buon Natale, Watson!
-Buon Natale, Holmes! – Arrossisco
mentre lo scrivo, ma devo confessare che per la prima volta, e forse l’ultima,
ci abbracciammo sorridendo come due bambini. Magari quest’ultima frase la
cancello.
domenica 15 dicembre 2019
E penso a te
E’ una
storia finita, chiusa, passata. Un giorno d’autunno, mentre una pioggerella
leggera piangeva sul parabrezza, hai aperto la portiera della macchina e sei
scesa senza voltarti indietro. Lasciavi con me una parte della tua vita ed io
non riuscivo a dire niente. Avrei voluto, e quante volte mi sono maledetto per
una mano non allungata, per una voce non urlata, per un orgoglio idiota. E poi
più niente, come se niente fosse mai esistito, come se tutti i semi di un amore
non avessero generato altro che terra brulla. Un momento e si chiude una
finestra, come se quel campo di grano non si stendesse fino all’orizzonte, come
se il sole non splendesse più, come se il buio della stanza fosse normale. E
dentro un boato rompe l’anima, mentre i tacchi delle tue scarpe fanno
scricchiolare la ghiaia di un vialetto che ti porta lontano, oltre il mio
sguardo. Va bene, se per te va bene, ma non mi puoi impedire di pensarti. Di
lavorare e pensarti; di parlare con lei e di pensarti; di ridere con qualcuno
che non riconosco e di pensarti. In questa maniera sto ancora con te, col tuo
ricordo. E ti parlo, anche se non rispondi; ti prendo per mano, anche se non
sento il tuo calore; ti sorrido, anche se non vedo i tuoi occhi. Non so dove ti
trovi adesso, ma non sei lontana da me perché a me sei legata dalla memoria di
tante sere passate in nessun posto, di tanti abbracci pieni di noi due insieme,
di tanti attimi lunghi come l’infinito. Ma se nella scintilla guizzante del
fuoco di un camino improvvisamente ti apparirà la nostalgia di un ricordo, se
nel brivido dei primi freddi avrai voglia di tornare sotto quella vecchia
coperta di pile, se un tramonto al mare ti sembrerà privo d’emozione, pensami
anche tu. In quel momento mi ritroverai ed io saprò che mi stai pensando perché
non c’è fine ad un amore, se amore è stato.
sabato 14 dicembre 2019
Una visita inaspettata.
Questo è il
momento della giornata che preferisco. Il capo è all’ultimo piano della nostra
casa in arenaria rossa al centro di Manhattan, Fritz sta in cucina
probabilmente sperimentando nuovi abbinamenti tra spezie e salse ed io ho tutto
il tempo di leggere i giornali del mattino seduto alla mia scrivania. La pace
dura esattamente due ore, dalle nove alle undici del mattino, quando per
nessuna ragione al mondo si può distrarre il mio caro datore di lavoro da
quello che lui ritiene essere il suo vero compito nel mondo: la cura delle
orchidee. Dopo quell’ora l’ascensore interno riporta al piano terra il
giardiniere di vocazione e cominciamo a darci da fare per guadagnare la
pagnotta quotidiana, magari con un bel po’ di companatico vista la mole del
titolare. Chiedo scusa, non mi sono presentato: Archie Goodwin, braccio destro,
ma più spesso gambe ed occhi, del ben noto investigatore privato Nero Wolfe
famoso per la sua perspicacia e per la pigrizia ai limiti dell’accidia. Dove
lui non arriva per mancanza di voglia, io mi precipito e dove spesso io scorgo
la nebbia, lui squarcia i veli della conoscenza facendo girare le rotelle ben
oliate della sua materia grigia da concorso. Qualche mio amico della settima
avenue, non particolarmente raffinato, direbbe che siamo come culo e camicia e
non avrebbe torto. Adesso che abbiamo fatto conoscenza ed in considerazione
dell’attuale periodo dell’anno, desidero raccontarvi una storia capitata
giustappunto nei giorni precedenti il Natale di qualche tempo fa.
-Archie, il
campanello. Vada lei ad aprire, Fritz è alle prese con la “béarnaise” e non può
essere distratto, pena l’impazzimento della salsa e la rovina della pietanza.
-Per carità,
non sia mai che succedesse una tale tragedia! Corro, agli ordini! – Non mi
dispiaceva che qualcuno suonasse alla nostra porta, spesso significava un nuovo
caso di cui occuparci con relativa parcella necessaria per quadrare i conti di
casa e soddisfare gli esosissimi sfizi del capo. Come d’abitudine, prima
d’aprire, sbirciai dallo spioncino. Un tizio mascherato da Babbo Natale era in
attesa al di là del portone. Non prometteva un granché, ma non si butta via
niente ed aprii.
-Vorrei
parlare con Nero Wolfe. - Disse un vocione dietro la barba bianca
-Chi devo
annunciare? – Chiesi con un velo d’ironia.
-Mi può
chiamare Klaus, per il momento.
-Si
accomodi, vedo se può riceverla. – Lasciai il panzone rosso vestito nella sala
d’attesa ed entrai nello studio. Nero Wolfe era impegnato a contare i tappi a
corona delle bottiglie di birra che aveva bevuto fino a quel momento ordinatamente
conservati nel cassetto della scrivania. Come ogni saggia persona, sa dosare i
suoi eccessi, almeno fino a quando non ritiene di superare i limiti, e quel
trucco gli serve per non andare oltre.
-C’è Babbo
Natale che chiede di essere ricevuto. Cosa devo dire?
-Archie, non
sono in vena di scherzi. Ho trovato della cocciniglia particolarmente
aggressiva sulla punta di una foglia di Ancamptis pyramidalis e la cosa mi
preoccupa moltissimo.
-Capisco il
dramma, ma in sala c’è veramente un Santa Claus, o supposto tale, che chiede di
lei.
-Forse mi aiuterà
a distrarmi, faccia passare. – Disse con compiacenza il mio “coequipier”. Feci quanto richiesto e l’uomo mascherato
prese posto sulla poltroncina di marocchino rosso di fronte alla scrivania
dell’investigatore.
-Buongiorno.
– Esordì compito il nostro ospite con un timbro di voce degno del miglior basso
da opera lirica. – Mi permetto di disturbarla per una questione della massima
urgenza che mi sta particolarmente a cuore. Ho saputo della sua fama d’investigatore
e credo di avere proprio bisogno del suo aiuto. – Il principale alzò la manona
per stoppare l’interlocutore.
-Un momento,
prima di tutto lei chi è e perché va in giro vestito così?
-Il mio
nome, al momento, non ha importanza. Come ho detto al suo segretario, può
chiamarmi Klaus o Nicola, faccia lei. Per quanto riguarda il vestito, beh, mi
sembra in tono col periodo, no? – Conoscendolo, intuivo come, dentro di sé, Nero
Wolfe stesse combattendo un’aspra battaglia tra due opposte fazioni. Una premeva
per cacciare immediatamente ed in malo modo l’intruso, l’altra spronava a
recepire lo stimolo della curiosità. Vinse la seconda. Il boss si accomodò bene
sulla poltrona di dimensioni XXXL, poggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse
la punta delle dita disponendosi all’ascolto.
-Va bene,
signor…Klaus, dica pure.
-Ecco, si
tratta di una persona scomparsa.
-La fermo
subito, caro signore. Per un problema del genere la polizia è molto meglio attrezzata
di me. Loro hanno una quantità di uomini e mezzi da impiegare nella ricerca.
Sicuramente avrebbero molte più chance di successo delle mie.
-Si, si lo
so, ma ci sono un paio di difficoltà. La prima è che devo trovare l’uomo entro
dopodomani, venticinque dicembre, e l’altra è che se ne sono perse le tracce da
circa quarant’anni. Inoltre non ha commesso alcun reato ed ormai la maggiore
età l’ha passata da un pezzo. Così, capisce, la polizia non mi darebbe alcun
ascolto, anzi credo mi potrebbero anche cacciare in malo modo. – Devo dire che,
richiesto di un parere, avrei condiviso ed avallato il punto di vista delle
forze dell’ordine, ma ormai l’interesse era stato stuzzicato e Wolfe stette al
gioco.
-E come
pensa che io possa riuscire in questa impresa che appare impossibile?
-Lei avrebbe
un punto di vantaggio dal quale partire. Sono infatti al corrente delle sue
origini montenegrine ed anche quella persona viene da là. Probabilmente lei ha
ancora qualche contatto in loco e potrebbe chiedere delle informazioni.
-Va bene, mi
dia indicazioni più dettagliate. A proposito, ha una foto del ricercato?
-Sì, ma è
molto vecchia. – Rispose Klaus tirando fuori da un tascone una istantanea
ingiallita dal tempo e tendendola verso Wolfe. - Si vede l’uomo insieme ad
altre persone fuori da un bar di Podgorica. Guardi, è quello col cappello e il
bavero del giaccone sollevato.
-Non si
capisce niente. Il nome, l’età e il più recente domicilio conosciuto.
-Si faceva
chiamare Brat, non so se sia il primo nome o il cognome. Più o meno dovrebbe
avere la nostra età e l’ultima volta che lo vidi viveva in Novaka Miloševa.
-Uhmmm.
Descrizione fisica?
-Corpulento,
alto, capelli scuri e occhi neri. Un bell’uomo, possente, sempre pronto alla
risata e gran compagnone.
-Due domande
ancora. Perché lo sta cercando, e come mai lo deve trovare necessariamente
entro il venticinque? – Il nostro ospite ci pensò un po’ su, si vedeva che era
emotivamente scosso.
-Ho lasciato
una questione in sospeso tanti anni fa e, avvicinandomi ad un’età avanzata, non
vorrei vivere il rimanente del mio tempo col rimpianto di un passo non fatto. Non
si preoccupi, non c’è niente di illegale e le mie intenzioni sono del tutto
benevole, mi piacerebbe solo riannodare un filo spezzato dal destino. La data è
obbligata dalla mia partenza. Il ventisei devo assolutamente recarmi altrove e,
se non trovo Brat in tempo, ho paura di non incontrarlo più.
-Tra
l’altro, bisogna mettere in conto che nel frattempo potrebbe essere morto. Ne è
consapevole? – Disse cinico Wolfe.
-Certamente,
ma almeno me ne farò una ragione. Comunque onorerò ugualmente la sua parcella.
-Per questo
tratterà con Goodwin. Adesso vada e torni domattina, non prima delle undici,
faremo il punto della situazione. Archie, accompagni il signore alla porta.
Buongiorno. – Dopo che il cliente fu uscito, tornai alla mia postazione accanto
al capo. Lo trovai col capo appoggiato allo schienale della poltrona, gli occhi
chiusi e le labbra intente nella solita ginnastica fuori e dentro della bocca.
Il segnale significava che il grand’uomo, grande in tutti i sensi, stava
meditando e per me era tassativamente proibito disturbarlo. Presi il New York
Times e lo aprii alla pagina delle corse dei cani. Andai alla colonna con le
quote per le scommesse ed anch’io cominciai a meditare.
Il
pomeriggio passò senza che, apparentemente, Wolfe stesse occupandosi del caso.
Svolgeva le sue normali attività e sembrava di ottimo umore senza alcun pensiero
per la testa. Io cominciavo ad innervosirmi. Se non gli interessava aiutare
quell’uomo avrebbe potuto dirlo chiaramente senza illuderlo a vanvera. Decisi
di sollecitarlo e lo raggiunsi in cucina, il regno di Fritz Brenner chef di
alto livello tanto bravo quanto permaloso. Vidi i due intenti in una
discussione impegnativa. Dovevano essere in disaccordo su qualcosa perché, pur
senza alzare i toni, le voci erano taglienti ed il nervosismo nell’aria quasi
palpabile.
-Non vorrei
contraddirla, caro Fritz, ma la “fricandeau” si cucina solamente con la polpa
di vitello, ovvero la parte anteriore della coscia di un animale non più
vecchio degli otto mesi. Altrimenti parliamo di un altro piatto.
-Mi
dispiace, monsieur, ma nei locali stellati di Marsiglia dove per molto tempo ho
esercitato la mia missione, la fricandeau si prepara con ogni taglio di animale
giovane e tenero. Quindi quest’agnello in casseruola fa esattamente al caso
nostro e si può ben vantare del titolo della ricetta.
-Non credo.
-Io credo di
sì. – Sarebbero andati avanti per ore e forse sarebbe scoppiata una faida sanguinosa
che avrebbe coinvolto le generazioni future. Intervenni.
-Mi dispiace
interrompere la dotta tenzone, ma vorrei ricordare che abbiamo un cliente che
si aspetta di essere servito dalla nostra opera. Per il momento, mi sembra che
non abbiamo fatto ancora niente di niente. E’ corretto? – Wolfe mi rivolse uno
sguardo di compatimento ai limiti del disgusto e con aria offesa, rispose:
-Ormai lo
dovrebbe aver capito, Goodwin, io lavoro anche quando sembra che non lo stia
facendo. E se non lo avesse ancora recepito, se lo metta bene in testa per le
prossime volte. Non posso sopportare un grillo parlante alle spalle,
specialmente quando fa osservazioni sconsiderate ed inutili.
-Bene, lo
terrò presente. – Non mi ero offeso, battibeccavamo spesso e circa una volta al
mese venivo licenziato per poi essere riassunto sbollita l’ira del momento.
Pertanto incalzai. –Ma per il nostro Klaus, di vermiglio abbigliato, come
dobbiamo muoverci? Chiamo Orrie Cather per mandarlo in giro, mi attacco al
telefono con lo stato balcanico, mi metto in contatto col Consolato del
Montenegro? Insomma cosa faccio?
-Niente,
Archie. Non deve fare niente, si rilassi e mi lasci parlare con il signor Fritz
prima che vada avanti propugnando la sua eresia. – Mi rassegnai e tornai nello
studio per evadere un po’ di scartoffie. Per vedere cosa si sarebbe inventato
Wolfe dovevo solo tenere a freno la mia curiosità fino all’indomani mattina,
quando sarebbe tornato il cliente. Ero quasi sicuro che questa volta avremmo
dovuto rinunciare all’incarico, ma la conseguente brutta figura non sarebbe
stata nella consuetudine del capo. Aspettai il giorno dopo.
Quando alle
undici e tre minuti Wolfe entrò dalla porta laterale del suo ufficio senza
salutare nessuno e si sedette alla scrivania imbronciato e lunatico come spesso
gli succedeva, il signor Kalus era già al suo posto nella poltrona degli ospiti
ed io pronto con il taccuino in mano per stenografare l’andamento
dell’incontro.
-Bene, bene.
– Esordì l’investigatore. – Ho lavorato alacremente sul caso. – A me non era
sembrato affatto, ma naturalmente non lo dissi. –Non è stato facile fare
ricerche a distanza di così tanto tempo e di migliaia di chilometri. Abbiamo
dovuto attivare tutte le risorse a nostra disposizione e mettere in campo ogni
capacità investigativa. – Cosa stava succedendo? Lo stimatissimo signor Nero
Wolfe stava mentendo ad un cliente magari solo per intascare il rimborso spese?
Non lo potevo credere.
-Quali sono
i risultati? – Chiese mr. Klaus.
-Non abbia
tanta fretta. – Rispose il capo. – Devo dire che il primo indizio per arrivare
ad una conclusione me l’ha fornito il nome stesso della persona scomparsa:
Brat. Come lei sa, il croato è la mia lingua madre e, anche se non lo parlo da
decenni, ancora ricordo il significato delle parole. A questo punto ho
ricostruito una specie di identikit dell’uomo. Grosso modo la mia età, e quindi
potevo averlo conosciuto durante gli anni della giovinezza trascorsi in patria;
una corporatura simile alla mia, pertanto non comune; tratti somatici non rari
dalle nostre parti, ma che mi hanno indotto ad immaginare una certa fisionomia.
-Vada
avanti.
-Calma,
calma. Una volta fattomi un’idea, mi si è poi posto il problema di come
raggiungere quell’individuo. Come da lei stesso affermato, la distanza fisica e
temporale era vasta, non facile da superare specialmente nel breve tempo dell’incarico
ma, come dice un noto proverbio, se Maometto non va alla montagna…E così ho
aspettato che si muovesse la roccia. - Confesso che non ci stavo capendo
assolutamente niente. Dai suoi discorsi sembrava che Wolfe avesse la soluzione
in tasca affermando di aver fatto in modo che lo scomparso si rivelasse
spontaneamente. Però io sapevo bene che non era così, vista l’assoluta
inattività dell’investigatore nelle ultime ore. E quindi?
-E quindi? –
Klaus si fece portavoce dei miei pensieri.
-Stamattina…
- Io ed il cliente pendevamo dalle labbra di Wolfe che, evidentemente, si stava
divertendo a tenerci sulla corda. – …poco dopo che Goodwin ebbe aperto la porta
d’ingresso, entrò in questa casa il ricercato. – Sbottai:
-Ma non è
venuto nessuno, tranne Klaus.
-Esatto,
Archie. Klaus, o meglio Brat, che in croato vuol dire fratello, è mio fratello
Miroslav che con la sua messinscena ha voluto farmi una sorpresa e mettermi
alla prova. – A queste parole i due omaccioni si alzarono dalle rispettive
poltrone e si abbracciarono. Forse per la prima volta vidi le commozione negli
occhi di Wolfe per aver ritrovato il suo familiare dopo tanto tempo. Miroslav si
strappò la barba finta con una grande risata:
-Pensavo di
metterti in difficoltà, fratellone, ma avevo sottovalutato le tue cellule
grigie che in parte abbiamo anche in comune. Mi sembrava banale suonare al
campanello e presentarmi così, semplicemente. Ho voluto divertirmi un po’ e
credo che anche tu abbia gradito la piccola burla.
-Caro mio,
ci vuole altro per mettere in imbarazzo Nero Wolfe! – Il capo se lo disse da
solo, ma in fondo aveva ragione.
Fu un Natale
particolare pieno di chiacchierate in un idioma del quale non capivo un
accidente e di grasse risate accompagnate da fiumi di birra, mentre Fritz
dovette fare gli straordinari preparando portate che sembravano più adatte ad
un battaglione di marines che a soli due ospiti. Per fortuna il cinodromo è
aperto anche durante le feste ed io, con questa scusa, me la svignai di casa.
Un Wolfe è tanto, ma due sono decisamente troppo!
sabato 7 dicembre 2019
Blondie
Un raggio di
sole per scaldare un po’. Per immaginare il calore di un abbraccio che le aveva
lasciato solo freddo. Ed una sigaretta in mano. Cosa c’è lontano, oltre quella
finestra in mezzo al verde delle colline dove la natura vive nella semplicità
di un ritmo sempre uguale? Ne è valsa la pena o è stato solo un gioco? Una
leggera brezza entra dalle imposte spalancate all’ora del tramonto, quando il
fresco della sera annuncia la notte ormai prossima ed un bicchiere è in attesa di
consolare accompagnando oltre lo sgomento. Brividi sulla pelle nuda, mentre il
pudore è come un guanto di sfida lanciato in faccia a qualcuno là fuori. Un
vestito lungo, di paillette nere, attaccato alla gruccia dentro l’armadio e le
scarpe dal tacco alto buttate sotto al letto. Passione o commedia, ancora una
volta? Ha poca importanza mentre, come in un antico rito pagano, si lascia
purificare dalla luce. Lunghi capelli biondi appena spazzolati con rapidità, un
velo di rossetto e l’ombretto con qualche sbavatura disegnano un volto triste che
parla della melanconia legata ad un’esistenza della quale ha capito bene il
significato già da molto tempo. Ma un’ombra di sorriso rivela che in realtà
tutto ha scarsa importanza; sarebbe quasi buffo se non fosse desolante ed a
volte tragico. Lei si barcamena nell’avventura della vita cancellando, o
provando a farlo, le tante mezz’ore piene di false risate e vuote di qualsiasi
intimità. Aspira voluttuosamente e sogna. La California, forse, o un nuovo inizio,
magari solo quello che potrebbe essere e che, se Dio vuole, un giorno sarà. Fra
poco si rivestirà, ha già dimenticato con chi ha diviso il letto ed è sicura
che anche lui sta fumando, in una macchina lanciata sulla statale, pensando a
sua moglie. Non c’è rimorso per una avventura senza importanza. Eppure in
questa giornata di sole che sta finendo la speranza non è morta, siamo ancora
in estate e tutto può accadere quando la pioggia è lontana ed il freddo
soltanto una minaccia. Ancora un momento, le ombre si allungano, un tremito
fugace e l’attimo si chiude. Piano, di malavoglia, schiaccia il mozzicone nel
portacenere ormai colmo, s’infila il vestito da sera, che a quell’ora sembra
solo ridicolo, ed infila le scarpe scomode. Quelle banconote sul comodino le
danno quasi un senso di superiorità nei confronti di chi le ha lasciate
pensando di comprare la parvenza di un amore per avere in cambio una bugia. Le
prende e le infila nella borsetta tra fazzoletti e bustine che promettono
protezione. Chiude la porta della stanza dietro di lei. Fuori si sta consumando
il tramonto. Il parcheggio del Motel è quasi vuoto, Frank, il gestore, si affaccia
dalla porta del suo ufficio: “Ciao Blondie!”. Lei alza lo sguardo, fa un cenno
con la mano e si avvia verso la vecchia Buick. Accende il motore ed anche le
luci della macchina: è notte, e lei ci si tuffa dentro.
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