Sarà stata
la centesima sigaretta che si accendeva per poi spengerla dopo poche boccate.
Non gli andava di fumare, ma tantomeno voleva pensare, e quel gesto ripetitivo
ed inutile contribuiva a distrarlo dalla sua ossessione. La macchina correva
lungo i tornanti sconosciuti per non perdere l’appuntamento che avrebbe potuto
cambiare il suo destino. Quel viaggio nella notte rappresentava bene la sua
vita: sempre avanti senza sapere cosa ci fosse dopo una svolta, nel buio,
accompagnato dalla solitudine e col cuore in gola. Ma forse tutto questo stava
per finire. Aveva fretta, nei brevi
tratti di rettilineo spingeva sull’acceleratore e poi frenava bruscamente
quando si presentava la curva successiva. Sapeva di rischiare, ma in qualche
modo doveva dare sfogo all’adrenalina che aveva in corpo. Sulla provinciale non
c’era illuminazione pubblica ed il fascio dei fari nell’oscurità bucava con
violenza il nero compatto che sembrava volesse inghiottirlo. Teneva gli
abbaglianti sempre accesi e il motore a pieni giri, con lo sguardo fisso e quasi
febbrile oltre il parabrezza, per poi rallentare di colpo con la mano sulla
levetta delle luci quando gli capitava di incrociare qualche rara autovettura che
sopraggiungeva in senso inverso.
Da Zà
Mariuccia, si erano detti per telefono, e improvvisamente gli erano esplose
nella mente mille immagini di un tempo passato, in un caleidoscopio fatto di
una felicità piena di dolore. La gioia era nel passato e la pena la stava
vivendo da allora, ma quell’incontro poteva ridargli quello che non osava
neanche sperare. Sapeva cosa avrebbe dovuto dirle e quello che lei si aspettava
di sentire e, a bassa voce tra il rombo del motore, le parlava con le parole
che mille volte si era rimproverato di non averle mai detto. Ricordava quando,
un anno prima, proprio sulla terrazza di quel ristorante, si erano tenuti per
mano incuranti della gente attorno. Piccole onde sciabordavano sulla banchina
del porto sotto di loro, la luna pennellava d’argento il blu intenso del mare e
una leggera brezza trasportava odori di salmastro e voci lontane. Ma per loro
non esisteva altro che quel tavolino quadrato dove un mondo di speranze li
avvolgeva come un sipario che escludeva ogni altra platea di spettatori. Un
cameriere gli chiese se volesse ancora vino, ma lui era già ebbro anche da
sobrio mentre la sera scivolava verso una notte che non avrebbe più
dimenticato.
Pensava e
immaginava, sperava e pregava, fremeva e desiderava, al volante dell’auto
lanciata nell’oscurità. Forse si distrasse. Improvvisamente: il riflesso
dettato dallo spavento, lo stridio delle gomme sull’asfalto, l’auto che girava
su se stessa e poi la sensazione che fosse finita. La macchina andò a sbattere
contro un paracarro ed arrestò la sua corsa. Il motore ruggì, sbuffò e tacque
mentre, per inerzia, l’ammasso di rottami si mosse scivolando su una piccola
scarpata ai lati della carreggiata.
Uscì
dall’abitacolo pressoché incolume. Solo qualche livido e un forte mal di testa.
Si portò subito la mano sulla tasca per cercare il cellulare. Doveva dare
l’allarme per l’incidente, ma soprattutto doveva avvertirla che avrebbe
tardato, che l’aspettasse. Non trovò il telefonino, l’aveva perso. Cercò sul
sedile e poi intorno alla carcassa dell’auto, ma senza risultato. Era isolato,
lungo una strada poco frequentata e distante da ogni centro abitato. Aveva
calcolato che per arrivare a Maratea ci sarebbe voluto ancora almeno mezzora di
macchina e quindi a piedi come minimo tre ore. Se ce l’avesse fatta. Nel
frattempo lei l’avrebbe chiamato senza ricevere risposta. Probabilmente avrebbe
atteso seduta al ristorante spilluzzicando qualcosa ed evitando lo sguardo
pietoso dei camerieri verso una donna che sedeva da sola in un tavolo
apparecchiato per due. Ma dopo aver fatto finta di mangiare per ingannare il
tempo, si sarebbe alzata credendo che lui si fosse comportato come l’ultima
volta quando l’aveva lasciata senza una spiegazione, per non farsi più sentire.
La immaginava sbattere il tovagliolo sulla tavola ed allontanarsi con lo
sguardo fiero che ben conosceva dove lampeggiava un “mai più” rivolto ad una
storia che si era illusa di poter riaccendere.
Rassegnato,
faticosamente risalì il terreno scosceso per raggiungere la strada. Si sedette
su un pezzo di guard-rail in attesa di vedere qualche macchina o per trovare la
forza di mettersi in cammino verso il paese. Che senso aveva ancora Maratea, a
che serviva il mare e la fredda luna se lei non c’era più? Si sentiva solo, in una
notte priva di ogni significato. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno. Poi
alzò lo sguardo verso il monte che dominava quel tratto di costa. La parete
incombeva oscura e severa perdendosi verso l’alto a monito di chi avesse avuto
la presunzione di sentirsi poco più di niente in confronto alla maestosità
della natura. Nuvole basse sfumavano il contorno della vetta nascondendo la
fine della montagna come se la sommità si perdesse dritta nell’infinito.
Lontano, ammantato da veli di vapore, un Cristo benedicente illuminato dal
basso, col capo chino, sembrava guardarlo con pietosa compassione. Bianco,
nella fissità della pietra, prendeva vita a seconda delle ombre che le nuvole
spinte dal vento facevano scorrere sul suo volto. Lo vide e provò una consolazione inaspettata.
Non era mai stato particolarmente credente, ma forse tutte le preghiere che
negli anni avevano raggiunto quell’immagine di Dio, in qualche maniera gli
avevano dato la forza di rispondere a chi si rivolgeva a Lui. E allora, anche
lui gli indirizzò l’invocazione più semplice: aiutami!
Non passò
nessuno ancora per molto tempo. Si avviò da solo verso il paese, ma ormai
l’estate era finita.
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