Cosa c’è
nella mente di un artista? Può l’arte essere visionaria, quasi preveggente? Una
porta sul futuro o nel profondo che sveli quello che alle persone normali non è
dato vedere? Fra pochi giorni tornerò a Madrid e, se avrò tempo, farò una nuova
visita al Prado per vedere le opere di uno degli artisti che più mi ha
sconcertato nel suo cammino espressivo. Quando si entra nel museo che gli
spagnoli esibiscono orgogliosamente al centro della loro capitale, molto dello
spazio è dedicato a Francisco Goya. Nella mia mediocre ignoranza, o cultura, la
prima volta che visitai quelle sale, avevo come riferimento la famosa Maja sia “vestida”,
ma soprattutto “desnuda”, che una qualche pruriginosa curiosità mi aveva
destato da quando, fin da piccolo, l’avevo vista sui libri di storia dell’arte.
Nella prima visita al museo, passai per una sala al pian terreno dove è esposto
“Guernica” di Picasso. Lo credevo più piccolo, come dimensione. In quell’occasione,
capii come vedere le foto dei quadri sui libri, non renda l’impatto che l’opera,
vista da vicino, trasmette all’osservatore. Non è la rappresentazione di una
testa di cavallo o una lampadina in una scomposizione di volumi, ma pura
angoscia e grido di dolore. Salendo di un piano, sorvolando il cortigiano
Velasquez, cominciano le sale dedicate al Goya. Prima ritratti di nobili
rampolli o scene dipinte su commissione al fine di abbellire piacevolmente le
pareti di qualche dimora reale. Poi, in uno spazio a parte, di non grandi
dimensioni, ed anche non particolarmente bella o affasciante, la famosa Maja. Non
si sa come, il pittore le fa quasi una radiografia, non facendole spostare un
muscolo togliendole i panni di dosso per mostrare quello su cui Rubens avrebbe
abbondato generosamente. Poi si passa nella sala contigua e si ha l’impressione
di avere sbagliato sezione del museo. Ti avvicini alla targhetta sotto al
quadro e vedi che quel dipinto, su fondo scuro, dal quale emerge un viso
stravolto con gli occhi sbarrati e allucinati, appartiene allo stesso Goya. Il
personaggio sta dilaniando un corpo che sembra umano con la disperazione o la
follia che sole possono indurre a tale immondo comportamento. Mi venne subito
in mente il dantesco conte Ugolino con “la bocca sollevò dal fiero pasto il
peccator forbendola ai capelli del capo che egli avea sul retro guasto.” Mi
sembrò che fosse la rappresentazione del volto di un uomo che trasforma la sua
natura per abbandonarsi all’istinto bestiale. Solo l’animo sensibile ed
empatico di un artista, può immaginare e rappresentare una situazione tanto
estrema ed al limite dell’assurdo. In realtà il titolo del quadro è “Saturno
che divora i figli”. Non conosco la storia, o la mitologia, alla base del dipinto,
ma non penso abbia molta importanza. L’impressione che maggiormente ricevetti da
quella visita al Museo del Prado, fu la conoscenza di questo artista che, per vivere
agiatamente, dipinse ritratti un po’ cochon, o di maniera, per la corte iberica,
ma dentro di sé sentiva urgere la necessità di manifestare l’espressione delle
strazianti contradizioni dell’animo. Ecco, forse, quello che differenzia un
artista dall’uomo comune. Egli vede, o sente, oltre. L’unica condizione è che
deve essere sincero al limite del sacrificio, altrimenti, specialmente in
questi tempi di cinico mercantilismo, rende irriconoscibile quella piccola
fiammella di divinità che è l’arte.
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