sabato 10 maggio 2014

Al Prado.

Cosa c’è nella mente di un artista? Può l’arte essere visionaria, quasi preveggente? Una porta sul futuro o nel profondo che sveli quello che alle persone normali non è dato vedere? Fra pochi giorni tornerò a Madrid e, se avrò tempo, farò una nuova visita al Prado per vedere le opere di uno degli artisti che più mi ha sconcertato nel suo cammino espressivo. Quando si entra nel museo che gli spagnoli esibiscono orgogliosamente al centro della loro capitale, molto dello spazio è dedicato a Francisco Goya. Nella mia mediocre ignoranza, o cultura, la prima volta che visitai quelle sale, avevo come riferimento la famosa Maja sia “vestida”, ma soprattutto “desnuda”, che una qualche pruriginosa curiosità mi aveva destato da quando, fin da piccolo, l’avevo vista sui libri di storia dell’arte. Nella prima visita al museo, passai per una sala al pian terreno dove è esposto “Guernica” di Picasso. Lo credevo più piccolo, come dimensione. In quell’occasione, capii come vedere le foto dei quadri sui libri, non renda l’impatto che l’opera, vista da vicino, trasmette all’osservatore. Non è la rappresentazione di una testa di cavallo o una lampadina in una scomposizione di volumi, ma pura angoscia e grido di dolore. Salendo di un piano, sorvolando il cortigiano Velasquez, cominciano le sale dedicate al Goya. Prima ritratti di nobili rampolli o scene dipinte su commissione al fine di abbellire piacevolmente le pareti di qualche dimora reale. Poi, in uno spazio a parte, di non grandi dimensioni, ed anche non particolarmente bella o affasciante, la famosa Maja. Non si sa come, il pittore le fa quasi una radiografia, non facendole spostare un muscolo togliendole i panni di dosso per mostrare quello su cui Rubens avrebbe abbondato generosamente. Poi si passa nella sala contigua e si ha l’impressione di avere sbagliato sezione del museo. Ti avvicini alla targhetta sotto al quadro e vedi che quel dipinto, su fondo scuro, dal quale emerge un viso stravolto con gli occhi sbarrati e allucinati, appartiene allo stesso Goya. Il personaggio sta dilaniando un corpo che sembra umano con la disperazione o la follia che sole possono indurre a tale immondo comportamento. Mi venne subito in mente il dantesco conte Ugolino con “la bocca sollevò dal fiero pasto il peccator forbendola ai capelli del capo che egli avea sul retro guasto.” Mi sembrò che fosse la rappresentazione del volto di un uomo che trasforma la sua natura per abbandonarsi all’istinto bestiale. Solo l’animo sensibile ed empatico di un artista, può immaginare e rappresentare una situazione tanto estrema ed al limite dell’assurdo. In realtà il titolo del quadro è “Saturno che divora i figli”. Non conosco la storia, o la mitologia, alla base del dipinto, ma non penso abbia molta importanza. L’impressione che maggiormente ricevetti da quella visita al Museo del Prado, fu la conoscenza di questo artista che, per vivere agiatamente, dipinse ritratti un po’ cochon, o di maniera, per la corte iberica, ma dentro di sé sentiva urgere la necessità di manifestare l’espressione delle strazianti contradizioni dell’animo. Ecco, forse, quello che differenzia un artista dall’uomo comune. Egli vede, o sente, oltre. L’unica condizione è che deve essere sincero al limite del sacrificio, altrimenti, specialmente in questi tempi di cinico mercantilismo, rende irriconoscibile quella piccola fiammella di divinità che è l’arte. 

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