Dovevo
andare a trovare un’amica che abita in un vicoletto di Trastevere. Era una
mattina di prim’estate quando la primavera lascia la sua aggressività e
l’estate ancora non coinvolge con la sua indolenza. Un bel sole pieno
rischiarava il cielo colorandolo di quell’azzurro, profondo e spendente, che il
Vanvitelli, forse perché straniero, seppe rendere così bene dipingendo scorci
dell’Urbe. Con lo scooter lasciai il Lungotevere ingolfato di automobili,
autobus e motorini e, girando in una traversa, arrivai in piazza di Piscinula.
La zona è pedonale e, quindi, oltre alle macchine parcheggiate dei residenti,
il traffico era scarso. I ristoranti erano ancora chiusi e qualche negozio
stava tirando su le saracinesche con la calma e la rassegnazione fatalistica di
chi non sa quello che potrà fruttare la giornata. Solo qualche vuota bottiglia
di birra gettata a terra testimoniava la movida notturna che aveva impazzato
fino a qualche ora prima. Due giovani turisti, forse fidanzati, studiavano con
attenzione una mappa rigirandola più volte tra le mani per trovare il bandolo
di quell’intricata matassa di vicoli. Mi diedero l’impressione di essere
australiani, forse perché lui portava un cappello alla Coccodrile Dundee e lei mostrava
un’aria sportiva e determinata che, immagino, poteva aver maturato
esercitandosi con boomerangs ed a contatto di koala e canguri. Parcheggiai
accanto ad un muro di mattoncini rossi che incastonava, per decorazione,
qualche piccolo antico frammento di lapide o di bassorilievo. Spengendo il
motore, la prima cosa che mi colpì fu il silenzio. A poche decine di metri
scorreva il gorgo infernale del traffico metropolitano con le sue cacofonie e
le nevrosi di chi era obbligato a sguazzarci dentro, qui sembrava di essere
nella piazza di un paese la domenica mattina. I palazzetti medioevali facevano
da quinta per una rappresentazione ai limiti dell’irreale. Volutamente,
ristetti un momento. Alzai lo sguardo sulle facciate degli edifici medioevali con
quasi tutte le persiane ancora serrate. Nel rosso dei mattoni spiccava il verde
dei balconi pieni di piante e vasi di fiori. Più su, attici e altane facevano
debordare dalle ringhiere rampicanti e fogliame, in una composizione
disordinata che sottolineava l’armonia di un insieme di forme architettoniche
ed intarsi naturalistici. Beh, sono romano e quindi ebbi un po’ di pudore a
rimanere col naso per aria come il più sprovveduto dei pellegrini. Lasciai il
casco sotto la sella del mio destriero di latta e mi inoltrai nelle stradine
verso la mia meta. Se sulla piazza c’era qualcuno, nelle traverse non si vedeva
anima viva, salvo qualche solitario gatto in cerca della coazione tra i rifiuti
della sera prima. In pochi minuti arrivai dall’amica che mi stava aspettando.
“Caffettino?” “Perché no? Dove ce lo prendiamo?” “Vieni, nella prima stradina a
destra, oltre la vecchia Sinagoga, c’è un bar.” “Quale Sinagoga?” Replicai non
vedendo alcun Tempio. “Vedi quella loggetta, lì all’angolo? Sotto c’è un
portoncino che dà accesso al luogo di culto ebraico più antico di Roma.” Chissà
quante storie, sicuramente molte anche dolorose, doveva aver visto quel luogo
quasi nascosto agli occhi prevaricatori, e sicuramente non benevoli, della Roma
papalina e dei gentili. Forse, dove io stavo passeggiando in quel momento, dei gendarmi
avevano strappato un figlio ad una donna giudea per costringerlo al battesimo,
ed i sampietrini si erano bagnati delle lacrime di quella madre disperata. A
distrarmi da quelle immagini, colsi nell’aria un profumo. “C’è un forno da
queste parti?” Chiesi alla mia compagna, avvertendo un ammaliante effluvio di
pane caldo. “Non un forno, ma un Mastro Fornaio, conosciuto fino ai Castelli,
che fornisce di rosette e ciambelline.” Non potevo ignorare quell’esempio di
magistrale artigianato, ovvero m’era venuta l’acquolina in bocca. “Rinuncio al
caffè per un pezzettino, piccolo, di pizza bianca. Se sei d’accordo.” “Il caffè
viene dal Brasile, il pane dalla nostra vita. Andiamo!” Fece lei, senza bisogno
di essere troppo convinta. L’insegna diceva “Pane e Pasta” sopra una piccola
porta a vetri quasi soffocata dalla parete bugnata di un palazzo del
cinquecento. Varcammo quella soglia e fu come se avessimo pronunciato il
fatidico “apriti, Sesamo!”. Ci trovammo in un ambiente grande che, in passato,
doveva essere stato le stalle della nobile magione. I soffitti, alti e a botte,
racchiudevano tre stanze arredate con banconi a vetri, moderni ed eleganti, che
esponevano ogni possibile gioiello di gastronomia, pasticceria e prodotti per
gourmet. “Dottò, che je pozzo dà?” Rimasi un momento frastornato
dall’abbondanza dell’offerta e dall’indecisione su come poter soddisfare le
mille tentazioni che mi avevano assalito. Forte della mia stoicità, dissi:
“Solo un pezzo di bianca, per favore.” Il garzone mi guardò sottecchi
riconoscendo la falsità delle mie parole chiaramente denunciata dallo sguardo
avido che saltava da un occhio di bue ad una ciambellina al vino. “Je la spacco
e ce metto un velo de stracchino con du fojette de cicorietta, fresca fresca,
colta da mi madre e strascicata ar punto giusto?” “Faccia lei.” Risposi non
volendomi opporre a quello che il destino mi aveva riservato. Ho i baffi.
Risparmio l’immagine del formaggio che, addentando la pizza, strabordò
inzaccherandomi les moustache. Dico solo che, più avanti nella giornata, passando
la punta della lingua agli angoli della bocca, risentii vaghi sentori di quel
sapore e, siccome non c’è nulla di più evocativo dell’olfatto o del gusto,
ripensai a quella mattina perfetta tra la bellezza di Roma, la cordialità dei
suoi abitanti ed i tanti piccoli piaceri e meraviglie che questa immensa città
fa trovare a chi vuole e sa cercarli.
Posso dire:
“Sordi, Scola, Magni hanno descritto Roma, anche indirettamente, come è, o come
era al loro tempo. Sorrentino non è romano e, a parte copiare Fellini, non c’ha
capito niente, anzi gnente!”
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