domenica 27 dicembre 2015

Il Treno

Il rumore rimbalzava tra le pareti di lamiera come nel ventre di un enorme tamburo lanciato a cento chilometri all’ora verso una meta indefinita. Il vento penetrava da mille spifferi tra le porte scorrevoli e nel soffitto di quel carro fatto per trasportare bestiame e non di certo esseri umani. Avvolto da una coperta di mille colori, in un angolo era rannicchiato qualcuno che stava scappando. Poteva essere un uomo con i lunghi ed incolti capelli di un vagabondo, oppure una donna che ormai aveva perso la sua femminilità, certamente era un’anima persa in una corsa che era divenuta la sua padrona. Il mondo sfilava sui fianchi del treno mescolando paesaggi e città in una striata melma che niente lasciava distinguere se non la solitudine. Non importa da cosa fuggisse, solo il Signore era stato suo compagno nelle cento, poi le duecento, poi le trecento, poi le quattrocento ed ora le cinquecento miglia che ormai separavano quel vagabondo da casa sua. Un giorno aveva detto: “Vado via.” e la strada l’aveva chiamato affascinandolo con la prospettiva di mille occasioni e di grandi libertà. Poi quella stessa infida amica l’aveva fatto inciampare in incontri sbagliati, in illusori miraggi ed in tante piccole e grandi buche che avevano sfiancato i suoi sogni al punto di spengere anche la speranza. Fino a che non si ritrovò, forse per l’ultima volta, prima di perdersi definitivamente. In quel momento udì un fischio in lontananza ed a quello si aggrappò saltando sul vagone buio di luce che, tra scintille e rombi, tagliava la pianura ferendo la natura con la violenza del suo passaggio. Lo mordeva la fame e la disperazione mentre, col capo chino, non trovava più neanche una lacrima a consolare un muto pianto. L’ultima sua amica, ormai inutile e vuota di spirito come lui, era rotolata in un angolo unendo il sordo tintinnio del suo vetro con lo sferragliare delle rotaie. “Perché?” si chiedeva per l’ennesima volta e “Se solo…” si rispondeva ancora, per dividere con il destino la colpa che sentiva solo sua. La gioventù l’aveva lasciata tra le braccia di tante sirene con le quali aveva cantato noncurante degli avvertimenti, la maturità non aveva mai saputo cosa fosse per finire poi sull’ultimo tratto della vita senza nessun giaciglio che potesse accogliere la sua stanchezza. Ma il treno non sentiva il peso di tanta pena ed ancora, miglia su miglia, proseguì la sua corsa incurante, come le stelle.       

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