venerdì 29 gennaio 2016

Ho del sale nei capelli

Ho del sale nei capelli. Faccio scorrere le lunghe ore della notte pensando e scrivendo di me, di noi, della vita. Ma cosa ne so dell’esistenza? Niente, se non che ne so niente, e di questo sono certo. Ho corso, tanto, e adesso mi sono fermato, trovando il mio posto in un luogo che non c’è. Perché se io non mi sento di appartenere alla mia realtà, non riconosco nemmeno quello che mi circonda. Anzi, amo questo non luogo in quanto mi consente di non vivere, mentre sopravvivo. Cosa c’è di meglio di essere trasparente di fronte agli altri? Mi permette di guardare senza essere visto, di parlare senza essere ascoltato, di essere qualcosa di utile, come un frigorifero, senza essere giudicato. E in questa bolla, sopravvivo per non morire, senza avere nessuna preferenza tra una delle due scelte. Ci ho messo molto ed ho molto imparato per arrivare dove sono ora. Non è stato facile spengere, ad una ad una, tutte le illusioni, ogni speranza e qualsiasi ambizione. Sono stato aiutato nell’allontanarmi da tutti gli affetti, da ogni amicizia e da qualsiasi amore, ma, con fatica, adesso posso dire di esserci riuscito. E ne sono fiero. La mancanza dei desideri ed il distacco dai sentimenti conduce al nirvana, o forse solo allo stordimento. Quando finì tutto, dovetti cercarmi un lavoro che nutrisse quello di me che non era morto. Lo stipendio di portiere di notte mi ha consentito di sostentarmi, ed il lavoro dietro al bancone di un alberghetto mi ha dato la possibilità di sparire. Adempio al il mio dovere dando le chiavi ai clienti e facendo pagare il prezzo della camera. Non devo fare altro che indicare il numero di una stanza e, se proprio mi gira, biascicare un ringraziamento ormai automatico e senza significato. Mi dicono che a New York ci sono dei nuovi hotel dove, al ricevimento, si trova una macchina, un robot, che legge il documento del cliente e sputa una chiave. Credo che sarà la mia futura reincarnazione. Ecco, questo sono io, ma…non me lo dovevano fare. La clientela del motel era sempre quella, su e giù coppie uguali una alle altre, non le vedevo più: solo gente senza volto. Ma sono rimasto lì, come uno stupido, vedendo quei due arrivare un mattino, puliti ed educati, sembravano finti. Detti loro la chiave della stanza meno schifosa: la numero tre. Poi li accompagnai al piano, e porgendo un asciugamano pulito, chiusi la porta della camera sul loro sorriso. Era un grigio mattino quando, non vedendoli scendere, andai ad aprire la porta della loro camera. Se ne erano andati lasciando, nel letto, solo i loro corpi. Lo so che non c’entro, però non è giusto! Morire a vent’anni, e poi proprio qui. Soli, senza fiori né gente, li hanno incartati in bianchi lenzuoli e portati via con un furgone. Avranno avuto i loro motivi, ma di una cosa sono sicuro: là dove stanno adesso, insieme, staranno benone. Non so il perché, forse sono un vecchio pazzo, ma non mi va’ più di dare a nessuno la chiave del numero tre.

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