Quasi tutti
i giorni, verso metà mattinata, Sergio faceva la sua passeggiata nel parco
cittadino. Entrava dalla porta dei leoni e percorreva, di buon passo, il
sentiero ghiaioso fino al cancello che portava alla rotonda. Da qui, svoltando
sulla sinistra, affrontava la salitina verso il tempietto greco, e ritorno. A
volte si allungava fino alla terrazza panoramica, ma doveva essere una giornata
nella quale la schiena non si era fatta sentire ed il ginocchio non gli doleva,
e questo non era tanto frequente. All’uomo piaceva percorrere i viali alberati
specialmente in autunno, quando era tutto un infuocarsi dei gialli e rossi del
fogliame ed i primi freddi facevano pregustare il ritorno a casa per gustarsi
un buon tè caldo e profumato. Aveva invece in antipatia la primavera. La
trovava “cafona” con quel vestirsi di fiorellini variopinti come una contadina
nei giorni di festa. Per non parlare dell’allergia al polline e della
sensazione di essere vestito sempre in maniera inadeguata: o troppo coperto
soffrendo il caldo, o quasi estivo alla mercé dei refoli più freschi. Il giardino,
in quell’orario, era poco frequentato. I bambini erano a scuola e gli adulti in
età lavorativa stavano adempiendo ai loro compiti. Lui era ormai in pensione da
qualche anno e, con la fine della sua attività, invece di avvilirsi come
qualcuno dei suoi coetanei, riteneva di aver acquisito una saggezza nuova.
Aveva avuto sempre un carattere fumantino, anche troppo, e spesso si era
lasciato trascinare dall’entusiasmo prendendo decisioni avventate o menando le
mani invece di discutere, ma adesso si sentiva quasi “zen”, un imperturbabile
asceta. Specialmente verso i vent’anni, con l’impegno politico, non c’era fine
settimana che non facesse a cazzotti in nome di quella ideologia che in seguito
l’avrebbe tanto deluso. Sergio era stato un “compagno” duro e puro, come si
diceva allora, ed anche il bolscevico più ortodosso sarebbe sembrato pavido ed
indeciso in confronto all’incrollabile fede nel comunismo del militante
italiano. Se avesse dovuto fare un bilancio dei tanti anni passati in Sezione,
l’entusiasmo sprecato e le botte ricevute non erano stanti neanche lontanamente
ripagati dal raggiungimento di quegli ideali che sembravano allora sacrosanti. Ma
era acqua passata. Adesso, scherzando, diceva che perfino il Dalai Lama sarebbe
sembrato aggressivo a paragone della sua nuova serenità. Gli piaceva fare le
sue passeggiate in solitudine, ed anche se incontrava qualche conoscente,
spesso faceva finta di non vederlo per non dover chiacchierare.
Quella
giornata di metà aprile era nata male. Sembrava che i pollini più irritanti
avessero deciso di provocare le mucose del suo naso, e per Sergio era un
continuo starnutire e soffiare nelle migliaia di fazzolettini di carta che gli
riempivano le tasche. Non voleva darla vinta alla primavera e quindi si era
avventurato lo stesso tra i platani grondati di bianchi fiocchi e le redivive
graminacee pensando che, in qualche maniera, si sarebbe abituato ai fastidiosi
allergeni e che, dopo l’ennesimo starnuto, la parte tanto sollecitata sarebbe
diventata quasi insensibile. Ovviamente non fu così ed, ormai sfiancato
dall’impari combattimento, decise di fermarsi su una panchina per chiudere gli
occhi e sfiammare le pupille. Purtroppo la seduta più vicina era già occupata
da un signore, più o meno della sua età, che non gli sembrava aver mai visto
prima. Non ne poteva più e si accasciò vicino all’estraneo accennando un segno
di saluto che era il massimo della confidenza che era disposto a concedere. Ma
lui era l’eccezione. Gli altri suoi coetanei bramavano di attaccare bottone con
qualsiasi persona a portata di mano, e quindi:
-Buongiorno.
– disse il vecchietto arrivato prima.
-Uhmmm.
-Vedo che
lei non ama la bella stagione.
-Per me non
è bella, fottuta primavera!
-Ah ah ah.
Vedo che lei è un fan della Goggi. No, quella era “maledetta” primavera. Scusi,
sto scherzando. Mi permetta di presentarmi: Luigi de Cortes, tanto piacere.
-Piacere
mio. – Rispose Sergio, anche se pensava tutt’altro. Quel signore elegante, con
un bel panama bianco, gli dava particolarmente sui nervi. Sembrava agiato e
compiaciuto, con l’aria di leggera strafottenza tipica dei pensionati con un
cedolino di importo superiore alla media.
-Io vengo
raramente in questo giardinetto. Di solito rimango in villa o vado in campagna.
-Giardinetto…è
il parco cittadino. Mi sembra bello.
-Sì, abbastanza.
Anche se non è particolarmente curato. Si vede che i fiori sono stati piantati
a caso, senza tenere conto delle nuance di colore. Ma al giorno d’oggi…
-Cosa?
-Non c’è più
il senso estetico, il gusto del bello. Tutto viene fruito dalle masse che,
perlopiù, sono ignoranti e si accontentano. – Abbiamo detto che Sergio si
trovava in un momento di irritazione psico-fisica, e sentir parlare male delle
masse, di quelle stesse masse per le quali si era tanto speso, era come sale
sulle sue ferite.
-Caro
signore, non è colpa del popolo se una classe dirigente plutocratica e
dittatoriale ha sempre oppresso la povera gente. Se il proletariato avesse
avuto accesso ai privilegi di chi ha sempre comandato, avrebbe imparato anche a
combinare i fiorellini.
-Forse. La
sento particolarmente acceso sulla questione. Non mi dica che lei è un nipotino
di Stalin, quello zotico marxista.
-Non ho
questo privilegio, altrimenti avrei saputo come comportarmi con chi sfotte la
povera gente. – Mentre andava avanti questo battibecco, nella mente di Sergio
si accendevano remoti ricordi. Il suono della voce di quel tale Luigi, la sua
fisionomia, anche il modo di muoversi, gli stessi occhi con quel lampo di
sfida, gli evocavano qualcosa. Stette per qualche in momento in silenzio,
scavando e disseppellendo nei tempi andati, e poi improvvisamente se ne uscì:
-Ecco chi
sei! – Urlò in faccia all’altro. Luigi fece un salto dalla panchina degno di un
uomo assai più giovane di lui e, istintivamente, mise le mani avanti per ripararsi
da quella furia inaspettata.
-Chi sono?
-Sei “Giggi
er fascio” che guidava un gruppo de’ disgraziati a incendiarci le vetrine fuori
dalla Sezione del Partito!
-Noooo, e tu
sei Sergio detto “er tromba” per come urlavi ai tuoi compagni in occasione dei
comizi.
-Esatto. – Gli
rispose il primo che sentiva rinascere tutte le antiche rivalità e gli
incominciavano a prudere le mani. –Ecco perché sei così stronzo. Ahò, non sei
cambiato per niente, non te so’ bastate tutte le mazzate che hai preso.
-Guarda, che
se le ho prese le ho anche date. Mi ricordo ti inseguii col casco in mano per
insegnarti a vivere. Come scappavi…
-Chi
scappava? A bello, aridimmelo se c’hai er coraggio. – Urlando e sbraitando,
Sergio prese l’altro per il bavero della giacca alzando il pugno pronto a
calarlo con forza, ancora una volta, sull’aristocratico naso. Anche Luigi era
pronto al combattimento: rosso in faccia e digrignando i denti sembrava un
mastino pronto al balzo verso il collo del nemico.
In quel
momento passò un bambino di circa sei anni che, vedendo i due anziani
personaggi dai capelli bianchi e con le rughe sul volto in piena lite e pronti
ad azzuffarsi, si fermò guardandoli stupito.
-Cosa state
facendo? Ma non vedete che siete due vecchi? I nonni non possono litigare,
ormai sono vecchietti.
La vocina
del fanciullo paralizzò i contendenti, e quella parola: “vecchi” li
schiaffeggiò entrambi con la violenza della verità. Si scostarono e si
ricomposero, un po’ vergognandosi del brutto spettacolo che stavano offrendo di
sé.
-Hai
ragione. – disse Sergio. –Siamo vecchi ormai, e dovremmo essere saggi o quanto meno
cercare di dare il buon esempio. Scusaci, ci stavamo comportando male. – Anche Luigi
si rivolse al piccolo:
-Si, certo,
stavamo giocando. In fondo ci conosciamo da tanti anni, abbiamo vissuto
esperienze simili e tutt’e due abbiamo un lungo percorso di vita. Potremmo dire
di essere quasi amici. – Riprendendo il solito aplomb, Luigi si rivolse a
Sergio:
-Mi sovviene
la poesia di De Filippo: “’a livella” quando dice che, di fronte alla morte, le
umane passioni perdono di significato. Certamente noi ancora non siamo
trapassati, ma forse dovremmo mettere tutto nella giusta prospettiva e non
sottoporre le nostre coronarie ad ulteriori sforzi, nevvero? – Sergio lo guardò
perplesso, ancora accaldato dal recente sforzo.
-A Luì,
senza passione se more, anche se forse c’hai ragione e dovremmo prenderla con
più calma. Ma poi, la morte? Come te viene in mente? E parla per te! – Con queste
parole, ed un’energica grattata nelle parti basse, Sergio diede un buffetto al
piccolo impiccione, si alzò e riprese la sua passeggiata. Gli rimase per sempre
il rimpianto di quell’ultimo pugno non dato.
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