Il
mendicante sentì tintinnare una moneta sul selciato accanto a lui ed allungò
una mano per prenderla, ma non vedeva ed, a tentoni, spazzò per terra
raccogliendo solo polvere ed un altro frammento di disperazione. I viandanti
gli passavano accanto con passi frettolosi in una confusione disordinata che
somigliava al frenetico ronzio di un alveare quando tra le api cade un corpo
estraneo a disturbarle. Nessuno si fermava, ma spesso le persone si scontravano
tra loro e poi si toccavano in segno di scusa o solo per scansarsi. Anche se il
negozio del barbiere lungo la via aveva esposto un cartello di chiusura in
vetrina, molti uomini provavano a spingere la maniglia trovando la porta
serrata. Qualcuno scendeva dal marciapiede per attraversare la strada, ma a
pochi era concesso di raggiungere il lato opposto rimanendo incolume. Le
macchine non si fermavano mai e la fortuna non era sempre dalla parte dei
pedoni che tentavano l’avventura. Le stesse autovetture spesso cozzavano tra
loro, poiché nessuno rallentava agli incroci, ed ai bordi delle carreggiate si
ammucchiavano rottami e pezzi sparsi di ferraglia. Il motivo per il quale in
città regnava quel caos era semplice ed evidente: tutti gli abitanti vivevano
senza la testa. Non si conosceva la causa della malformazione né era spiegabile
il mistero per il quale i corpi conducevano un’esistenza pressoché normale pur
con quella amputazione. Sia i maschi che le femmine potevano provare dei sentimenti
ed, in qualche maniera, si nutrivano e lavoravano. I bambini nascevano dalle
loro unioni e crescevano, quando con molta buona sorte riuscivano ad evitare i
continui pericoli. Esisteva l’amore e l’amicizia, ma tutto si esprimeva tramite
il tatto, visto che sopra al collo non c’erano labbra per baciare, occhi per
riconoscersi o orecchie per sentire. Era quella la normalità nella piccola
città e nel resto del mondo, per quanto quegli abitanti ne sapessero. Ma la
natura ogni tanto si diverte a fare degli scherzi e tanto fu lo stupore della madre
di Davide quando si avvide che il figlio era nato con un cranio sviluppato. La
povera donna mantenne il segreto sperando che forse, un giorno, quell’escrescenza
sarebbe caduta da sola. Il ragazzo crebbe con due grandi occhi blu ed una folta
chioma e, solo fra tanti, poteva udire il rumore del mare e cantare delle melodie
che s’inventava, perché nessuno sapeva cos’era la musica. Era consapevole della
sua diversità e un po’ se ne vergognava, ma gli altri, non vedendolo, non se ne
accorgevano quasi mai. Un giorno incontrò una ragazza con appesa al collo tronco
una catenina con scritto “Alice” e se ne innamorò. Lei aveva una figura sinuosa
e bellissima e le sue mani, affusolate e pallide, sembravano due farfalle
svolazzanti mentre cercava di farsi capire o di esprimere qualche concetto.
Davide la toccò per presentarsi e guidò i polpastrelli di lei sulla sua figura
per darle un’idea di sé, ma stette bene attento a non portare l’esplorazione
oltre il collo per non rivelare la sua deformità. S’incontrarono più volte,
dandosi appuntamento su di una panchina nel giardino comunale, ed anche se solo
lui poteva sentire il profumo dell’erba o vedere il colore del cielo, nei loro
cuori nacque la passione. Il ragazzo avrebbe protetto la sua innamorata e
quello che lui aveva in più nei sensi, Alice l’avrebbe compensato con la dolcezza.
Davide era deciso a chiederle di sposarlo e quindi, in un giorno di primavera,
le diede appuntamento andandole incontro con un grade fascio di primule e
giaggioli tra le braccia. Quando s’incontrarono si vedeva chiaramente, dal
fremito del corpo e dalla mimica delle mani, che Alice era felicissima, e di
slancio lo abbracciò. Carezzava il suo amato e lo stringeva con ardore, ma
nell’entusiasmo le sue estremità salirono su per il collo di Davide. Invece di
trovare un troncone, come in lei stessa ed in tutti gli altri, Alice sentì qualcosa
di inaspettato: una cosa tonda piena di umidi anfratti e pelosa. Lo allontanò
bruscamente ritraendosi schifata. Il suo amore era un mostro! Si spaventò
moltissimo e corse via agitando le braccia disperata. Davide sentì crollargli
il mondo addosso. Poteva capire la ragazza, ma lui non aveva nessuna colpa
nell’essere com’era. In fondo quello che avrebbe dovuto importare era solamente
il sentimento che sentiva dentro di sé e non il suo aspetto esteriore. Passò
giornate piangendo e maledicendosi. Cosa contava bearsi dei tramonti o del canto
degli uccelli, a cosa gli servivano queste superflue capacità se non poteva
essere felice? Non dormì per molte notti interrogandosi su come avrebbe potuto
convincere Alice ad accettarlo o sulla maniera di farsi in qualche modo
perdonare per la bugia che le aveva detto. Era stata una piccola menzogna
dettata dalla paura di un rifiuto, ma anche se lei non avesse tenuto in conto
l’inganno, certamente non sarebbe mai stata in grado di vincere la repulsione nel
sentire una testa quando l’avrebbe toccato. Si arrovellò ancora per giorni,
finché per caso non si trovò a sfogliare un vecchio libro con delle
illustrazioni che doveva appartenere ad un’altra era o ad un mondo perduto. Lì trovò
la soluzione del suo problema ed il suo volto, dapprima perennemente
corrucciato, si aprì in un largo sorriso. Si armò di una certa quantità di travi
e di legname e si procurò gli attrezzi necessari. Passò anche dal fabbro che,
pur non capendo il motivo della richiesta, gli fornì quanto di meglio aveva in
bottega. Si mise quindi al lavoro di buona lena per fabbricare il macchinario
che aveva in mente. Segò, piallò, inchiodò, passò funi e grasso per lubrificare
ingranaggi e guide di scorrimento, e dopo un certo tempo poté finalmente
rimirare la sua opera compiuta. Il manufatto era imponente e lucido di cera e
vernice, e Davide lo guardò compiaciuto e soddisfatto, era sicuro che avrebbe
funzionato alla perfezione. Chiuse il libro con la figura che l’aveva ispirato
e lesse la didascalia scritta sotto: “ghigliottina”. Tutti i corpi di sua
conoscenza vivevano senza testa e non c’era pertanto alcuna ragione che anche
il suo non avrebbe fatto lo stesso, e quindi si stese sulla panca appoggiando
il collo in corrispondenza della lama. In mano teneva la corda per sbloccare la
caduta della mannaia, ma prima di procedere guardò per un ultima volta in
direzione della finestra. In quel momento pioveva e le gocce d’acqua avevano
disegnato un reticolato iridescente sui vetri, mentre uno spicchio di luna
cercava di farsi largo tra le scure nubi spandendo un lattiginoso chiarore che si
rifletteva sui tetti bagnati delle case. Davide era consapevole che avrebbe
perso questo e tutti gli altri spettacoli della natura, ma pensando ad Alice,
con un sospiro, tirò la fune e la macchina fece il suo dovere. La testa rotolò
sul pavimento con gli occhi chiusi ed un sorriso sulle labbra. Dopo qualche
minuto di immobilità, Davide si rialzò dal ceppo anche se un po’ malfermo sulle
gambe. Barcollò in direzione della porta ed, a tentoni, trovò l’uscita
dirigendosi verso l’abitazione della sua amata. Doveva abituarsi alla sua nuova
condizione e spesse volte inciampò andando a sbattere contro altre persone o i
muri delle case. Casualmente dette un calcio ad un bastone e lo raccolse per
aiutarsi, mentre sentiva il cuore traboccante di gioia.
Lungo il
corso di quella città, per molti anni a venire, due amanti senza testa
passeggiarono tenendosi per mano. Lei aveva qualche fiore di primula e
giaggiolo appuntato sulla veste e lui si appoggiava ad un bastone. Anche senza
occhi, si vedeva che erano felici.
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