venerdì 28 gennaio 2022

LA PORTA GRIGIA

 

Sicuramente caricare la lavatrice non era il migliore dei passatempi, ma Giovanna lo faceva volentieri perché a lei piaceva moltissimo stendere il bucato. Dopo che la macchina aveva terminato i suoi cicli, la donna raccoglieva i panni umidi in una bacinella di plastica blu e si avviava verso la terrazza condominiale per sciorinarli al sole. Chiudeva alle sue spalle la porta dell’appartamento, prendeva l’ascensore di servizio, quindi una piccola rampa di scale e si trovava di fronte ad una porticina di ferro grigia. Posava in terra il catino e spingeva l’uscio avanti a sé fino a spalancarlo. La penombra del vano scale veniva improvvisamente inondata di luce. Nei giorni d’estate il chiarore del sole era come uno schiaffo sul volto della donna, l’accecava per un momento e poi l’abbracciava col suo calore. Ma anche quando il tempo si presentava nuvoloso sembrava di entrare in un’altra dimensione, ad un passo dal cielo. Il terrazzo era di tutti, ma siccome non c’era quasi mai nessuno, Giovanna lo sentiva esclusivamente suo. Col bucato in braccio, usciva fuori e restava per un momento ferma, incantata. Sempre. Il panorama non era mai uguale, dipendeva dalle stagioni, dal clima o dall’orario. Ogni volta cambiavano i colori mentre il cielo virava dal turchese intenso al grigio piombo. A volte veniva accolta dallo stridio delle rondini che passavano veloci a poca distanza da lei, poteva ammirare il gioco fluido degli storni che in gruppo disegnavano nel cielo figure senza senso, oppure guardare un gabbiano dalle ampie ali, così fuori posto nel suo nuovo habitat cittadino. D’autunno le nuvole galoppavano nel cielo una appresso all’altra cambiando forma come plastilina nelle mani di un bambino, mentre in estate appariva tutto immobile con i tetti delle case e le cupole che rimandavano il calore come cocci di terracotta appena sfornati. Capitava che uno sbuffo di vento la cogliesse di sorpresa alle spalle quasi la volesse spingere a volare mentre, nel silenzio di quel mondo a parte, abbandonava ogni cupo ed inutile pensiero. Si avvicinava ai fili tesi tra due spranghe e dalla tasca del grembiule recuperava una manciata di mollette. L’aveva trovate nello sgabuzzino, perdute da chissà quanto, erano ancora quelle di legno con la molla in acciaio. Usava sempre le stesse perché erano fatte con materiali provenienti dalla natura e rimandavano alla sua infanzia, quando anche gli oggetti più insignificanti venivano prodotti per durare. Stendeva le lenzuola umide aspirando l’odore del bucato, un sentore di pulito che la riportava all’innocenza. In quel momento, sulle labbra le nascevano melodie o mantra improvvisati che davano voce al suo cuore ingolfato, mentre ogni cosa riprendeva la sua giusta dimensione. Lasciava la fatica su quelle corde e, come in un rito pagano, affidava il suo lavoro al Sole perché lo purificasse e le venisse restituito sotto forma di amore. Erano sensazioni vaghe che assomigliavano lontanamente alla felicità, ma che da questa si discostavano per il pudore di vivere qualcosa di non meritato. Momenti che Giovanna aspettava come remunerazione del suo sacrificio, gemme di vita che celavano il fiore della speranza mentre ritrovava se stessa assolvendosi da nessuna colpa. Prendeva una camicetta di sua figlia e dentro di sé le sorrideva, un capo di biancheria di suo figlio e lo accompagnava con un pensiero d’affetto, una camicia del marito e ne toglieva qualche piccola piega come gli stesse mandando una carezza da lontano. Il quotidiano compito di stendere i panni durava pochi minuti, forse un quarto d’ora, poi Giovanna riprendeva la bacinella azzurra ormai vuota, la metteva sotto al braccio e tornava verso la porticina di ferro grigia. L’apriva superandola e poi la richiudeva alle sue spalle lasciando la luce per immergersi nella penombra delle scale condominiali. Sarebbe tornata l’indomani e chissà per quante altre volte ancora. O forse no. 

 

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