venerdì 4 ottobre 2013

Il Viaggio

L’aereo delle American Airlines atterrò all’aeroporto di Anchorage in perfetto orario. La tratta non era molto frequentata e la Compagnia l’aveva instituita soprattutto per tenere fede allo slogan “Dovunque in America”. Dalla scaletta scese qualche uomo d’affari, che si riconosceva dal lap top sotto al braccio, un paio d’eschimesi che sembravano, comunque, fuori posto ed un giovane con lo zaino in spalla. Era quasi sera, ma, a quelle latitudini, il sole sembra non voler cedere mai il suo posto ed una luce ancora vivida, radente l’orizzonte, accecava gli sguardi dei viaggiatori. Si avviarono tutti verso il nastro che avrebbe riconsegnato i bagagli meno il ragazzo che, non avendo valigie, si diresse direttamente verso l’uscita. Fuori dall’aeroporto, ma verso dove? Aveva intrapreso quel viaggio, alla fine dei suoi studi, per diversi motivi. Non avrebbe saputo dire quale fosse il predominante. C’era la voglia d’avventura, il desiderio di allontanarsi dalla quotidianità, una ricerca di introspezione, l’amore per la natura e tanti altri che, presi singolarmente, non avrebbero avuto la forza di spingerlo a quel passo, ma tutti insieme lo stavano trascinando verso una meta che solo loro conoscevano. Il giovane ristette fuori dalla porta scorrevole dell’edificio mentre un brivido di freddo gli fece immediatamente capire dove si trovava e dove aveva l’intenzione di andare. Non era del tutto folle. Il periodo era l’inizio dell’estate e, quindi, teoricamente il più “caldo” per addentrarsi nel territorio vicino al polo. Ma tutto è relativo e per lui che veniva dalla California, l’impatto era quasi violento. “Bene” pensò “incominciamo a metterci alla prova”. Tirò fuori dallo zaino un giaccone e, raccolte le idee su come orientarsi, si avviò verso la stazione dei pullman. L’idea era quella di prendere una corriera che, aveva saputo, conduceva fino al villaggio inuit di Gilong (versione fonetica di un nome eschimese assolutamente impronunciabile) e poi, da lì, incamminarsi verso il Polo Nord. Non era importante raggiungere il traguardo. Come aveva sentito dire da qualcuno, l’importante non è la destinazione ma il viaggio. E lui, durante il cammino, aveva l’intenzione di trovare o, almeno tentare di avvicinarsi, a quelle verità che da sempre sono le domande che l’Uomo si pone. Nessuno, mai, ha trovato le risposte. O, meglio, le risposte sono tante quante sono gli esseri umani. Qualcuno le sa esternare meglio, altri le tengono dentro di se, ma sono tutte ugualmente valide ed ugualmente false. Forse la giovinezza l’illudeva proprio di questo: di riuscire a capire. Non ci sono riusciti i filosofi greci…Ma torniamo al nostro protagonista. Comprò il biglietto e si sedette sul primo bus che indicava la sua destinazione. Il suo vicino gli chiese da dove venisse. Non era andato fino a là per fare amicizie o conversazione e non voleva risultare socievole né tantomeno simpatico. Rispose “Cazzi miei” e mise fine ad ulteriori amichevoli approcci. Dopo dodici ore di strada, con varie soste fisiologiche, arrivarono finalmente…dove? Era una baracca con un cartello che diceva presuntuosamente “Gilong – Stazione finale della Corriera- Benvenuti nel Grande Nord”
Il ragazzo scese ed, ora, al piumino aggiunse i guanti ed il cappello di lana. Avevano passato la notte sul bus e le prime ore del mattino accolsero i viaggiatori con l’illusione di una piacevolezza che presto si sarebbe dimostrata falsa. Il sole splendeva e l’aria era tersa, quasi tagliente. Respirare in California ti portava l’odore salmastro del mare o, nelle città, la puzza comune a tutte le metropoli. Qui c’era un profumo nuovo. Sempre di ossigeno si trattava, ma puro, sembrava appena fatto, come fosse un aerosol da inspirare per liberare le vie respiratorie. Una medicina o un miracolo. Si mise gli occhiali da sole e non dette ascolto al suo corpo che reclamava per la mancanza di sonno che il viaggio aveva provocato. Stava benissimo. Era dove voleva essere e stava andando dove voleva andare. Ma da che parte? E’ facile immaginare e programmare nell’immaginazione, ma poi, al momento di vivere, come si fa? Si pentì di essere stato tanto scostante con il suo compagno di viaggio che, forse, avrebbe potuto fornirgli qualche indicazione. Si avvicinò all’unico addetto alla stazione che, orgogliosamente, esibiva un cappellino con visiera e stemma ad indicare il suo ruolo dirigenziale. “Mi scusi, saprebbe dirmi chi mi può indicare come raggiungere il Polo Nord?” L’impiegato, era un piccolo inuit che sarebbe stato meglio vestito con una pelle di foca piuttosto che con quella banale divisa capostazione, lo guardò stupito. Poi nei suoi occhi incominciò ad apparire una traccia di divertimento. Dopo l’ilarità si tramise agli angoli della bocca finché non scoppiò in una, giustificatissima, risata al cospetto di una domanda totalmente idiota. “Dove vuoi andare tu?” “Al Polo Nord” rispose il ragazzo come avesse detto al Mc Donalds più vicino. “Stai scappando?” Il ragazzo ci pensò su un momento. In realtà, in un certo senso, forse sì. Però non nel significato che intendeva l’omino. “No, certo. Voglio solo arrivare al Polo Nord.” “Vuoi un consiglio?” chiese il solerte impiegato “prendi la corriera di ritorno e non sfidare chi è più grande di te” Un’illuminazione. Era esattamente questo che stava facendo e cercando. Voleva sfidare chi l’avrebbe sicuramente battuto per vedere se avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo e quanto avrebbe resistito ai suoi colpi. “Dimmi solo se c’è qualcuno che mi possa indicare la strada.” Uno sguardo di compatimento ed un’esitazione per poi non doversi rimproverare niente ed il capostazione, quasi malvolentieri, gli disse “Al villaggio c’è una guida. Orma ha ottant’anni e non si muove più. Però conosce il pack come tu conosci le strade di Manhattan (ma se era californiano?). Vai da lui e, se lo convincerai delle tue motivazioni, forse, ti darà la sua bussola con la quale raggiungerai quel posto dove non c’è niente ma per il quale in tanti hanno sacrificato la vita.”
“Grazie” e andò all’indirizzo indicatogli. Una casa bassa, due piani appena, al centro del villaggio. Decorosa anche se, evidentemente, povera. Con il dovuto rispetto si affacciò all’uscio e chiese della guida. Una donna, forse la figlia o una delle mogli, l’accompagnò in una camera all’interno. L’ambiente era buio, ma non aveva bisogno di luce in quanto il vecchio era palesemente cieco e sedeva su una malandata poltrona che sembrava avesse preso le sue forme e fosse diventata un tutt’uno con lui. “Maestro” chissà perché gli venne di rivolgersi con quest’appellativo al vetusto personaggio “indicatemi la strada per il Polo Nord”. “Quanti anni hai figliolo?” “Ho gli anni che mi fanno desiderare questo viaggio” “Perché vuoi fare il Viaggio figliolo?” “Perché il Viaggio mi chiama” “Che sei disposto a lasciare e che vuoi ricevere?” “Tutto o niente, dipende da quello che troverò” Il vecchio stette in silenzio per un po’. Poi aprì gli occhi mostrando le orbite bianche lattiginose ed emise il suo verdetto: “Non sei giovane, non sei vecchio, non sai chi sei e forse non lo saprai mai. Il Polo non ti sarà amico, ma un avversario leale. Lo combatterai con le tue forze. Lui vincerà, ma tu avrai misurato chi sei e quanto vali e questo, credo, è quello che cerchi. Qualcuno più saggio di me una volta disse “conosci te stesso”. Quindi, figliolo, il cimento è solo tuo. La donna che ti ha accolto, ti darà le giuste indicazioni e se mai lo Spirito Che Tutto Governa ti toccherà, tornerai da me e mi darai, ancora una volta, una giustificazione alla mia vita.”
Così fece. La donna, sulla soglia, sul far della sera, gli indicò una stella.  Quella era la direzione. Quante volte aveva guardato il cielo e scrutato gli astri. Mai avrebbe immaginato che quella stella, più brillante delle altre, era quella che avrebbe guidato il suo cammino. Adesso era un suo seguace e non l’avrebbe persa per niente al mondo. Al villaggio fece le adeguate provviste, si equipaggiò al meglio possibile, diede un’occhiata ad un barometro che, a mezzogiorno, segnava zero gradi e la mattina del 3 agosto prese la via, vogliamo essere aulici, del suo destino.
Secondo i suoi calcoli, sarebbe dovuto arrivare alla meta in quindici/venti giorni a seconda del tempo meteorologico e della sua resistenza fisica. Il primo giorno fece venti chilometri. Poi si accampò. Montò la tenda che aveva comprato, scaldò sul fornelletto una razione di cibo e stanco, ma soddisfatto, si infilò nel sacco a pelo incurante del vento ed ignorando, volutamente, il senso di solitudine ed abbandono che la situazione induceva. Stessa cosa il secondo giorno e poi il terzo. Sembrava che niente ostacolasse il suo cammino verso la meta. Era quasi troppo facile. Dov’era la sfida? Va bene il freddo, ma era attrezzato. Va bene la fatica, ma era preparato. Il Polo si avvicinava e lui, invece di essere, in qualche modo, contento ed appagato, sentiva che mancava qualcosa.
Dopo undici giorni di pack si svegliò, la mattina, ancora pronto a fare il suo percorso. Si avviò, trascinando sulla slitta, che aveva portato appositamente, tutti i suoi averi verso il traguardo. Il suo animo era combattuto. Contento e immerso in quell’esperienza, ma non bastavano la fatica, il sacrificio, il coraggio, la solitudine e tutti i disagi patiti per giustificare il viaggio.
Verso sera, ormai stanco, stava per fermarsi e montare la tenda per la notte quando, in lontananza, forse a 200 metri, vide una casupola. Niente più che una baracchetta con il tetto in lamiera e le pareti fatte con assi di legno. Dalla porta, schiusa, veniva una luce che, nel crepuscolo, si rifletteva sul ghiaccio con un effetto irreale.
La curiosità di capire chi potesse vivere, anche provvisoriamente, in quel posto, fu troppa ed anche la voglia, dopo tanti giorni, di incontrare un altro uomo lo spinsero a raggiungere la catapecchia.
Si avvicinò guardingo. “Ehilà! C’è nessuno?” non ebbe risposta. Si avvicinò all’uscio e, con cautela, lo dischiuse. La baracca era vuota. C’era un lume a petrolio che stava esaurendo il suo combustibile ad illuminare l’unica stanza. L’impressione era come se fosse stata abbandonata da poco. Meglio, come se qualcuno, per uno strano presentimento, avesse sentito l’avvicinarsi di un’altra anima in pena ed avesse voluto lasciare il suo rifugio dove aveva ritrovato quella pace che augurava al nuovo venuto.
Non si sa perché il ragazzo percepì subito questa sensazione e dimenticò immediatamente il suo proposito di raggiungere il Polo. La sua meta era lì. In quella baracca qualcun altro aveva trovato se stesso e quello era il proposito del suo viaggio.
Prese le sue cose, si sistemò alla meglio e poi uscì rivolgendo lo sguardo alla volta celeste. Nella purezza della notte le stelle scintillavano, la via lattea sembrava un’autostrada verso l’infinito e la piccolezza dell’essere umano non aveva senso in confronto all’immensità del creato.




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