Un vento freddo spazzava le vie di New York. Il berretto di
lana ben calato sulla fronte ed il bavero alzato del giaccone per cercare di ripararsi
in qualche modo ed il ragazzo, a passo svelto, si avviò su per la Columbus
Avenue nell’upper west side di Manhattan.
Voleva arrivare nei pressi del Dakota Building ed
appostarsi, per qualche tempo, nella speranza di vedere il suo idolo. Possedeva
tutti i suoi dischi prima come componente, anzi, come “anima” dei Beatles poi
come solista. La poesia delle sue canzoni aveva sempre toccato il suo animo
fino a giungere al culmine con “Imagine” che descriveva un’utopia al cui
raggiungimento avrebbe sacrificato tutta la sua vita.
Arrivò in vista dell’imponente edificio che già nelle
dimensioni e nell'architettura di un gotico ottocentesco, incuteva una
soggezione che teneva distante chi non si poteva permettere, per motivi
economici, di varcare il grande portone di quercia.
Si fermò all’angolo della strada insieme con un altro
sparuto gruppetto di fan al corrente, come lui, che John abitava là con la sua
compagna. Era verso l’ora di cena e c’erano buone possibilità di vedere il loro
idolo tornare a casa per godersi la propria intimità. L’attesa non fu neanche
tanto lunga. Dall’angolo verso Central Park una limousine nera imboccò la
strada fermandosi davanti al portone. Uno chauffeur in livrea si affrettò a
scendere ed ad aprire la portiera posteriore. Ne scese velocemente ma senza urgenza
una figura snella e dinoccolata tutta vestita di nero, con un cappello che
poteva essere da prete o da cow boy ed i tipici occhialini dalle lenti tonde.
John si avvide della piccola folla che lo stava aspettando e fece un distratto
saluto verso di loro con un gesto della mano, ma senza guardarli come non
degnandoli di nessuna importanza se non quella di essere adepti di una divinità
alla quale tale tributo era, in qualche modo dovuto. Dopo di lui, con movenze
compassate ed un atteggiamento sicuro di sé, lo seguì quella che per tutti i
“veri” fan era la sua anima nera. Partì una bordata di fischi all’indirizzo di
Yoko Ono che, probabilmente, neanche li sentì in parte dispersi dal vento e,
per il resto inadeguati ad intaccare la sua presuntuosa vanità.
Mark David Chapman sentì, in quel momento, che c’era
qualcosa che non andava. Quello era il ragazzo di Liverpool che aveva composto
“working class heroe”, che partecipava alle marce per la pace e per la fine
della guerra nel Viet-Nam, che si mostrava tanto anticonformista da farsi
fotografare e riprendere dai media di tutto il mondo in un bed-in di
contestazione al sistema? Aveva ammirato John perché aveva lasciato il gruppo
che voleva dire soldi a palate, notorietà, successo e fama planetaria per
seguire l’amore di una donna obiettivamente brutta anche se, forse,
intelligente o pseudo intellettuale. Nelle prime canzoni sembrava rimpiangere Strawberry
Fields, i giardini di Liverpool nei quali, scavalcato il muretto di recinzione
andava a giocare da piccolo, e la gente semplice di quella città di lavoratori
portuali. Poi, in molte delle interviste che aveva visto o letto, aveva fatto
di tutto per spiazzare gli interlocutori con uno spirito cinico e tagliente al
limite della provocazione sino alla famosa frase nella quale affermava la
superiore popolarità dei Beatles rispetto a quella di Gesù Cristo.
Insomma, nella testa di Chapman, John era il portabandiera
di una classe operaia che, finalmente, contestava il potere della ruling class
oppressiva e sfruttatrice.
Era una sua idea velleitaria ed, in qualche maniera,
romantica dove un paladino senza macchia né paura prendeva le parti degli umili
contro…lo sceriffo di Nottingham.
Forse, in parte, l’ispirazione di John sia per le canzoni
che per le sue esternazioni, teneva conto di quelle motivazioni, ma era
evidente a tutti, meno che a Mark, che era principalmente una star di prima
grandezza in un mondo che accettava, e dal quale veniva accettato, per la sua
capacità di attrarre consensi, ovvero, introiti.
Vedere Lennon che con fare altezzoso scendeva da un’auto che
lui non avrebbe potuto permettersi di noleggiare neanche per un’ora con lo
stipendio di una settimana, fece infuriare il ragazzo.
Sapeva, ovviamente, che l’ex Beatle era una persona ricca,
ma immaginava che il suo eroe disprezzasse il denaro. Non pretendeva che
vivesse al Dakota addirittura controvoglia, ma almeno dimostrando comprensione
per chi, come lui, lo andava a salutare per poi tornare negli slums della
periferia.
Quel gesto distratto con la mano, il passo veloce a il
rifugiarsi nel nido dorato, la mancanza di uno sguardo che lasciasse intendere
che lui stava, in realtà, lavorando da dentro il sistema per scardinare le basi
di quella schifosa società, ebbene, il tutto non era accettabile.
Aveva dato a lui ed ai suoi compagnucci molta parte dei suoi
risparmi per collezionare tutti i dischi, le riviste, le foto e quant’altro lo
facesse sentire vicino al suo idolo. Erano almeno dieci anni che sognava non un
incontro, ma almeno un contatto visivo con quella specie di semi-dio. Ma ora
aveva tutto chiaro. Si era illuso. Era stato ingannato insieme a tanti della
sua generazione. Tutte le esternazioni le composizioni, le parole della carriera
di Lennon avevano avuto un solo scopo. Comprarsi un grande appartamento nel
Dakota Building al quale arrivare scendendo dalla macchina più lunga e costosa
possibile e poi rifugiarsi in un caldo ambiente dove, si immaginava, un
maggiordomo avrebbe servito a lui ed alla giapponese caviale, e champagne in
coppe d’argento e cristallo alla faccia dei poveri imbecilli che l’avevano
aspettato in strada.
Mark tornò a casa e quella notte non riuscì a dormire tanta
era la rabbia. I giorni successivi invece di razionalizzare le sue emozioni e
di mettere tutto nella giusta prospettiva, la sua mente si accese di una febbre
sempre più divampante. Si dette malato al lavoro e, come tante volte aveva
fatto in precedenza, si stese sul letto della sua camera mettendo sul
giradischi un long playing di John. Quello che fino ad allora l’aveva fatto
sognare, adesso gli provocava una irritazione incontenibile che sfogava
scalciando i cuscini e dando pugni sul muro. Si attaccò ad una bottiglia di
Jack Daniels leccandosi le ferite sulle nocche delle mani che quelle sfuriate
gli avevano provocato. Non era giusto che una persona tanto amata da milioni di
altre avesse preso in giro tutti in quella maniera. Forse gli altri erano
ancora accecati dalle belle melodie, ma lui aveva capito e, adesso, sapeva cosa
fare.
La sera dell’8 dicembre del 1980, Mark David Chapman si
avvicinò a John mentre l’artista stava rincasando con Yoko aprendo il portone
della sua abitazione e lo chiamò “Ehi mr. Lennon!” L’ex Beatle, forse pensando
si trattasse di un fan che voleva un autografo, si voltò. Mark tirò fuori una
pistola ed esplose cinque colpi in successione che ferirono mortalmente il
cantante. Yoko dapprima rimase impietrita e poi urlò tutta la sua disperazione.
Si buttò in ginocchio e prese tra le braccia la testa del suo compagno di vita.
Dal viso esangue scivolarono gli occhiali dalle lenti tonde che Yoko, automaticamente,
raccolse, inconsciamente sperando che avessero potuto ancora servire. Questi
occhiali, tramite i quali guardava l’amore nei suoi occhi, sporchi del suo
sangue, Yoko li conserva ancora come una reliquia.
L’assassino fu preso, a Central Park fu organizzata una
veglia di preghiera e di ricordo. Il mondo, con varie sfumature fu scioccato,
disperato, incredulo, sconvolto o solamente avvilito nel prendere atto che un
protagonista di un’epoca aveva lasciato questo mondo.
Yoko Ono fece risistemare la parte di parco di fronte al
Dakota creando un giardino che si chiama “Imagine”. Chi mette piede sulla
pietra con incisa quella parola, per un momento, fa anche lui parte di un’anima
universale e del sogno evocato dalla poesia di quella canzone.
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