venerdì 4 ottobre 2013

Rica Hotel, Gamla Stan

La nave si avvicinava lenta al molo di attracco. Uno sbuffo sonoro annunciò il suo arrivo a chi, ancora distratto, non avesse visto quella montagna di acciaio e vetro accostarsi a terra. Le manovre furono veloci e precise come se fosse stato naturale imbrigliare migliaia di tonnellate ad una banchina ed a gavitelli che sembravano del tutto inadeguati. Si aprì una porta nello scafo che, a confronto di quella massa sembrava minuscola, ed una passerella fu agganciata a degli appositi sostegni per dar modo ai passeggeri di scendere a terra. Il porto era quello di Stoccolma. Si era ormai, alla fine di settembre e quelle erano le ultime crociere che garantivano una navigazione abbastanza tranquilla al riparo dalle asprezze del tempo previsto per i periodi successivi. La temperatura risentiva delle prime avvisaglie dell’autunno ed, anche se il sole splendeva per la maggior parte della giornata, erano pochi gli audaci che, sui ponti, si mettevano in costume. La sera erano obbligatori golfetto ed, a volte, giubbino antivento.
Un uomo che sembrava, nell’abbigliamento, fin troppo previdente, si mise in coda sulla scaletta per raggiungere la terraferma condividendo, all’apparenza, lo scopo degli altri di una visita alla città.
Indossava un trench Burberry’s doppiopetto un po’ demodé ed una sciarpa con lo stesso cheque a riparare il collo ed a coprire una metà del viso.
Fece la sua corretta fila con gli altri ma, al momento di salire sulla navetta che avrebbe portato al centro della città, si defilò ed imboccò, con decisione una stradina al lato della piazzuola di ormeggio.
L’atteggiamento non era quello di un turista. Sembrava che l’uomo sapesse esattamente dove fosse e dove si stesse recando, senza esitazioni o necessità di chiedere informazioni per orientarsi.
Percorsa velocemente la via, sbucò su una piazzetta dove, ad un parcheggio, stazionavano alcuni taxi in attesa. L’umo aprì la portiera del primo della fila e disse all’autista: “Rica Hotel, Gamla Stan”. Come per tutti i tassisti del mondo, andare in centro, vicino al Palazzo Reale, con quel traffico e a quell’ora fu quasi un sacrificio per l’autista. Con aria di condiscendenza, che voleva sottintendere il diritto ad un’adeguata mancia, mise in moto la macchina e si incanalò in quello che a lui sembrava un traffico infernale. Per la legge del contrappasso, Dante l’avrebbe condannato a guidare per l’eternità nel centro di Roma o di New York ed, in quel modo, si sarebbe reso conto di quanto fosse ingrato verso il compito assegnatogli dalla Divina Potestà.
Dopo un tragitto cadenzato da smoccolamenti in uno slang svedese e, quindi, totalmente assurdi, il taxi scaricò il suo passeggero davanti al portone dell’albergo.
Questo era un edificio ristrutturato recentemente con tutti i moderni comfort di accoglienza, specialmente per meeting di affari e soggiorni brevi, a poca distanza dalla stazione centrale e dal terminal del bus per l’aeroporto internazionale.
L’uomo pagò la corsa lasciando un’adeguata mancia che avrebbe sopito i borbottii del conducente e scese avviandosi verso la reception dell’albergo.
“Sono mr. Justin Justice” disse all’addetto al ricevimento “ho fissato una stanza per una notte” L’impiegato controllò sul computer e, riscontrata la mail di prenotazione, rispose:” Benvenuto mr. Justice. La sua camera è pronta. La faccio accompagnare.” “Un momento” disse l’uomo” la mia richiesta era per una camera con esposizione ad ovest poiché, per le ragioni del Feng Shui e del campo magnetico terrestre, posso dormire solo orientato verso quella polarità. “Ma certamente, egregio signore, abbiamo tenuto conto delle sue richieste. Le abbiamo assegnato la nostra migliore stanza con tale posizionamento e che, per di più, affaccia su Palazzo reale.”” Nessuna valigia?” “Domani mi aspettano a Uppsala dove mi fermerò più tempo e, quindi, ho fatto recapitare là tutti i miei bagagli” “Bene signore, benvenuto!”
Il portiere suonò un campanello posato sul bancone della reception ed accorse un fattorino che, presa la chiave della stanza, fece strada a mr. Justice verso i suoi appartamenti.
La stanza non era molto spaziosa. Arredata con quello che, negli anni ’60, era stato lo stile più all’avanguardia. Un modernismo al limite della spartanità che più che lo sforzo di un designer, ricordava i reparti dell’IKEA. Aveva, però, un’ampia finestra che dava sul cortile del Palazzo Reale il cui muro di cinta bordava il marciapiede opposto della strada sul retro dell’hotel.
Era quello che il nostro uomo cercava. Il suo capo gli aveva comunicato che, quel pomeriggio, fidando ancora nelle miti temperature, i principi ereditari avrebbero festeggiato il secondo compleanno del figlio con un ricevimento all’aperto, ma entro i limiti della Reggia.
La sua missione era destabilizzare l’ordine costituito provocando un “incidente” che, scatenando reazioni favorevoli e contrarie, avrebbe messo in discussione l’utilità e le funzioni di un’istituzione, la monarchia, che il governo del suo Paese vedeva ormai desueta e contraria ai propri interessi.
La cosa più eclatante, che avrebbe fatto parlare i media di tutto il mondo, sarebbe stata l’uccisione del piccolo futuro erede al trono. Un innocente avrebbe pagato con il suo sangue le colpe dei suoi avi al fine di aprire nuovi scenari per l’emancipazione delle masse sfruttate dall’Imperial/capitalismo ancora dominante a livello politico ed economico.
Justice, ovviamente non era questo il suo nome, si sistemò nella stanza. Non avendo bagagli, non aprì neanche l’armadio, ma si limitò a sbottonare l’impermeabile. Sulla fodera, con l’inconfondibile disegno a scacchi nero/beige/rosso erano state applicate tasche e passanti che, ordinatamente, contenevano un assortimento di ferraglia.
Con calma e metodo, l’uomo estrasse tutto dal trench e lo posò sul letto. Poi, automaticamente, ripetendo un’azione fatta centinaia di volte, con precisione e destrezza, cominciò ad incastrare i vari pezzi. Magicamente, come in un puzzle mortale, configurò un’arma da guerra con la quale il killer, mille volte, si era esercitato su bersagli più o meno vivi.
Venne il mezzodì e, mentre gli altri croceristi stavano visitando il Vasamuseet con la nave vichinga fedelmente ricostruita, lui si mise in attesa che, nel primo pomeriggio, iniziasse il ricevimento.
Alle quattro, dal suo punto d’osservazione, vide i principi uscire dalla porta-finestra di un salone del palazzo e fare un breve giro di ispezione per controllare se tutto fosse correttamente preparato per l’imminente party.
Alle quattro e trenta arrivarono i primi invitati. Dall’affaccio della sua camera, con un binocolo, Justice distingueva benissimo i convenevoli e le falsità di circostanza che i nobili anfitrioni ed i loro ospiti si scambiavano e la repulsione per tanta ipocrisia era quasi una giustificazione per quanto si apprestava a fare.
Passò mezz’ora e poi un’ora ed il cortile si riempi di tanti ruffiani, molti arrampicatori sociali e pochi amici che avevano risposto all’invito dei principi per festeggiare il loro pargolo.
L’uomo si preparò. Senza alcuna emozione, imbracciò il fucile di precisione che aveva ricostruito. Regolò il mirino telescopico e fece collimare i parametri di mira. Vedeva chiaramente la principessa, con i suoi vaporosi lunghi capelli, andare da un gruppetto all’altro di ospiti per salutarli e farli partecipi della festa. Anche il principe, con maggiore riservatezza, sembrava adoperarsi per la riuscita del ricevimento. Una testolina bionda ondeggiava scuotendo i riccioli sforzandosi di stare al passo della madre alla quale aveva stretto la mano e dalla quale non avrebbe mai voluto separarsi.
Justice era stato in Bosnia, nel Kosovo, in Palestina, non erano certo i bambini che lo impressionavano se doveva portare a termine una missione.
Imbracciò il fucile e, tramite il mirino telescopico, senza fretta, prese a seguire i movimenti del piccolo.
Venne il momento. L’obiettivo era perfettamente inquadrato. La scena, intorno, non era cambiata nella sua pelosa allegria.
L’uomo imbracciò l’arma. Posò il calcio sulla spalla e la guancia sulla canna in corrispondenza dell’ottica di mira. Poi fece un profondo respiro e trattenne il fiato mentre inquadrava il bimbo nel mirino. L’indice sul grilletto era pronto quando…sbadabammmm: un tuono da fine del mondo squassò la pace del convivio.
Il bimbo si rifugiò immediatamente dietro le gonne della madre spaventato dall’evento atmosferico, ma non sapendo di quale pericolo avrebbe dovuto avere veramente paura.
Un fuggi fuggi generale e tutti rientrarono nelle sale del palazzo per ripararsi dalla pioggia imminente e continuare nelle loro futilità.
Si potrebbe supporre che l’uomo fosse stizzito per l’occasione mancata che significava il fallimento della sua missione. In realtà toppe volte aveva subito la mano del destino, sia a favore che contro quello che lui stava cercando, per dispiacersi troppo.
Una missione non era mai finita fino a quando l’obiettivo non era raggiunto. Se c’era la volontà e l’opportunità politica o militare di farlo, i tentativi potevano essere molteplici.
Con un cinico e rassegnato sorriso, fece le operazioni inverse. Smontò l’arma e la nascose nel trench. Scese, pagò la camera inventando una scusa per l’improvvisa partenza, e chiese che gli chiamassero un taxi. Prese l’autovettura e si fece condurre alla scaletta che era in attesa per il reimbarco degli ospiti della crociera. Si mischiò con loro e risalì sulla nave per compilare il rapporto da inviare al capo sezione dell’unità speciale di cui faceva parte.
Gli si avvicinò un passeggero che gli chiese” Piaciuta Stoccolma?” Il killer alzò lo sguardo e fissò le sue pupille che, nella loro fissità e mancanza di espressione ricordavano quelle di un squalo, negli occhi dell’interlocutore. Lo sprovveduto crocerista sentì come un brivido freddo percorrergli la schiena e si spaventò un poco per essere stato puntato da quei due buchi neri senza fondo che lo guardavano. Si ritrasse istintivamente e, pentendosi della sua cordialità, passò oltre quell’uomo ripromettendosi di evitarlo per tutto il resto del viaggio.




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