La nave si avvicinava lenta al molo di attracco. Uno sbuffo
sonoro annunciò il suo arrivo a chi, ancora distratto, non avesse visto quella
montagna di acciaio e vetro accostarsi a terra. Le manovre furono veloci e
precise come se fosse stato naturale imbrigliare migliaia di tonnellate ad una
banchina ed a gavitelli che sembravano del tutto inadeguati. Si aprì una porta
nello scafo che, a confronto di quella massa sembrava minuscola, ed una passerella
fu agganciata a degli appositi sostegni per dar modo ai passeggeri di scendere
a terra. Il porto era quello di Stoccolma. Si era ormai, alla fine di settembre
e quelle erano le ultime crociere che garantivano una navigazione abbastanza
tranquilla al riparo dalle asprezze del tempo previsto per i periodi successivi.
La temperatura risentiva delle prime avvisaglie dell’autunno ed, anche se il
sole splendeva per la maggior parte della giornata, erano pochi gli audaci che,
sui ponti, si mettevano in costume. La sera erano obbligatori golfetto ed, a
volte, giubbino antivento.
Un uomo che sembrava, nell’abbigliamento, fin troppo
previdente, si mise in coda sulla scaletta per raggiungere la terraferma
condividendo, all’apparenza, lo scopo degli altri di una visita alla città.
Indossava un trench Burberry’s doppiopetto un po’ demodé ed
una sciarpa con lo stesso cheque a riparare il collo ed a coprire una metà del
viso.
Fece la sua corretta fila con gli altri ma, al momento di
salire sulla navetta che avrebbe portato al centro della città, si defilò ed
imboccò, con decisione una stradina al lato della piazzuola di ormeggio.
L’atteggiamento non era quello di un turista. Sembrava che
l’uomo sapesse esattamente dove fosse e dove si stesse recando, senza
esitazioni o necessità di chiedere informazioni per orientarsi.
Percorsa velocemente la via, sbucò su una piazzetta dove, ad
un parcheggio, stazionavano alcuni taxi in attesa. L’umo aprì la portiera del
primo della fila e disse all’autista: “Rica Hotel, Gamla Stan”. Come per tutti
i tassisti del mondo, andare in centro, vicino al Palazzo Reale, con quel
traffico e a quell’ora fu quasi un sacrificio per l’autista. Con aria di
condiscendenza, che voleva sottintendere il diritto ad un’adeguata mancia, mise
in moto la macchina e si incanalò in quello che a lui sembrava un traffico
infernale. Per la legge del contrappasso, Dante l’avrebbe condannato a guidare
per l’eternità nel centro di Roma o di New York ed, in quel modo, si sarebbe
reso conto di quanto fosse ingrato verso il compito assegnatogli dalla Divina
Potestà.
Dopo un tragitto cadenzato da smoccolamenti in uno slang
svedese e, quindi, totalmente assurdi, il taxi scaricò il suo passeggero
davanti al portone dell’albergo.
Questo era un edificio ristrutturato recentemente con tutti
i moderni comfort di accoglienza, specialmente per meeting di affari e
soggiorni brevi, a poca distanza dalla stazione centrale e dal terminal del bus
per l’aeroporto internazionale.
L’uomo pagò la corsa lasciando un’adeguata mancia che
avrebbe sopito i borbottii del conducente e scese avviandosi verso la reception
dell’albergo.
“Sono mr. Justin Justice” disse all’addetto al ricevimento
“ho fissato una stanza per una notte” L’impiegato controllò sul computer e,
riscontrata la mail di prenotazione, rispose:” Benvenuto mr. Justice. La sua
camera è pronta. La faccio accompagnare.” “Un momento” disse l’uomo” la mia
richiesta era per una camera con esposizione ad ovest poiché, per le ragioni
del Feng Shui e del campo magnetico terrestre, posso dormire solo orientato
verso quella polarità. “Ma certamente, egregio signore, abbiamo tenuto conto
delle sue richieste. Le abbiamo assegnato la nostra migliore stanza con tale posizionamento
e che, per di più, affaccia su Palazzo reale.”” Nessuna valigia?” “Domani mi
aspettano a Uppsala dove mi fermerò più tempo e, quindi, ho fatto recapitare là
tutti i miei bagagli” “Bene signore, benvenuto!”
Il portiere suonò un campanello posato sul bancone della reception
ed accorse un fattorino che, presa la chiave della stanza, fece strada a mr.
Justice verso i suoi appartamenti.
La stanza non era molto spaziosa. Arredata con quello che,
negli anni ’60, era stato lo stile più all’avanguardia. Un modernismo al limite
della spartanità che più che lo sforzo di un designer, ricordava i reparti dell’IKEA.
Aveva, però, un’ampia finestra che dava sul cortile del Palazzo Reale il cui
muro di cinta bordava il marciapiede opposto della strada sul retro dell’hotel.
Era quello che il nostro uomo cercava. Il suo capo gli aveva
comunicato che, quel pomeriggio, fidando ancora nelle miti temperature, i
principi ereditari avrebbero festeggiato il secondo compleanno del figlio con
un ricevimento all’aperto, ma entro i limiti della Reggia.
La sua missione era destabilizzare l’ordine costituito
provocando un “incidente” che, scatenando reazioni favorevoli e contrarie, avrebbe
messo in discussione l’utilità e le funzioni di un’istituzione, la monarchia,
che il governo del suo Paese vedeva ormai desueta e contraria ai propri
interessi.
La cosa più eclatante, che avrebbe fatto parlare i media di
tutto il mondo, sarebbe stata l’uccisione del piccolo futuro erede al trono. Un
innocente avrebbe pagato con il suo sangue le colpe dei suoi avi al fine di
aprire nuovi scenari per l’emancipazione delle masse sfruttate dall’Imperial/capitalismo
ancora dominante a livello politico ed economico.
Justice, ovviamente non era questo il suo nome, si sistemò
nella stanza. Non avendo bagagli, non aprì neanche l’armadio, ma si limitò a
sbottonare l’impermeabile. Sulla fodera, con l’inconfondibile disegno a scacchi
nero/beige/rosso erano state applicate tasche e passanti che, ordinatamente, contenevano
un assortimento di ferraglia.
Con calma e metodo, l’uomo estrasse tutto dal trench e lo
posò sul letto. Poi, automaticamente, ripetendo un’azione fatta centinaia di
volte, con precisione e destrezza, cominciò ad incastrare i vari pezzi.
Magicamente, come in un puzzle mortale, configurò un’arma da guerra con la
quale il killer, mille volte, si era esercitato su bersagli più o meno vivi.
Venne il mezzodì e, mentre gli altri croceristi stavano
visitando il Vasamuseet con la nave vichinga fedelmente ricostruita, lui si
mise in attesa che, nel primo pomeriggio, iniziasse il ricevimento.
Alle quattro, dal suo punto d’osservazione, vide i principi uscire
dalla porta-finestra di un salone del palazzo e fare un breve giro di ispezione
per controllare se tutto fosse correttamente preparato per l’imminente party.
Alle quattro e trenta arrivarono i primi invitati. Dall’affaccio
della sua camera, con un binocolo, Justice distingueva benissimo i convenevoli
e le falsità di circostanza che i nobili anfitrioni ed i loro ospiti si
scambiavano e la repulsione per tanta ipocrisia era quasi una giustificazione
per quanto si apprestava a fare.
Passò mezz’ora e poi un’ora ed il cortile si riempi di tanti
ruffiani, molti arrampicatori sociali e pochi amici che avevano risposto
all’invito dei principi per festeggiare il loro pargolo.
L’uomo si preparò. Senza alcuna emozione, imbracciò il
fucile di precisione che aveva ricostruito. Regolò il mirino telescopico e fece
collimare i parametri di mira. Vedeva chiaramente la principessa, con i suoi
vaporosi lunghi capelli, andare da un gruppetto all’altro di ospiti per
salutarli e farli partecipi della festa. Anche il principe, con maggiore
riservatezza, sembrava adoperarsi per la riuscita del ricevimento. Una
testolina bionda ondeggiava scuotendo i riccioli sforzandosi di stare al passo
della madre alla quale aveva stretto la mano e dalla quale non avrebbe mai
voluto separarsi.
Justice era stato in Bosnia, nel Kosovo, in Palestina, non
erano certo i bambini che lo impressionavano se doveva portare a termine una
missione.
Imbracciò il fucile e, tramite il mirino telescopico, senza
fretta, prese a seguire i movimenti del piccolo.
Venne il momento. L’obiettivo era perfettamente inquadrato.
La scena, intorno, non era cambiata nella sua pelosa allegria.
L’uomo imbracciò l’arma. Posò il calcio sulla spalla e la
guancia sulla canna in corrispondenza dell’ottica di mira. Poi fece un profondo
respiro e trattenne il fiato mentre inquadrava il bimbo nel mirino. L’indice
sul grilletto era pronto quando…sbadabammmm: un tuono da fine del mondo squassò
la pace del convivio.
Il bimbo si rifugiò immediatamente dietro le gonne della
madre spaventato dall’evento atmosferico, ma non sapendo di quale pericolo
avrebbe dovuto avere veramente paura.
Un fuggi fuggi generale e tutti rientrarono nelle sale del palazzo
per ripararsi dalla pioggia imminente e continuare nelle loro futilità.
Si potrebbe supporre che l’uomo fosse stizzito per
l’occasione mancata che significava il fallimento della sua missione. In realtà
toppe volte aveva subito la mano del destino, sia a favore che contro quello
che lui stava cercando, per dispiacersi troppo.
Una missione non era mai finita fino a quando l’obiettivo
non era raggiunto. Se c’era la volontà e l’opportunità politica o militare di
farlo, i tentativi potevano essere molteplici.
Con un cinico e rassegnato sorriso, fece le operazioni
inverse. Smontò l’arma e la nascose nel trench. Scese, pagò la camera inventando
una scusa per l’improvvisa partenza, e chiese che gli chiamassero un taxi.
Prese l’autovettura e si fece condurre alla scaletta che era in attesa per il reimbarco
degli ospiti della crociera. Si mischiò con loro e risalì sulla nave per
compilare il rapporto da inviare al capo sezione dell’unità speciale di cui
faceva parte.
Gli si avvicinò un passeggero che gli chiese” Piaciuta Stoccolma?”
Il killer alzò lo sguardo e fissò le sue pupille che, nella loro fissità e
mancanza di espressione ricordavano quelle di un squalo, negli occhi
dell’interlocutore. Lo sprovveduto crocerista sentì come un brivido freddo
percorrergli la schiena e si spaventò un poco per essere stato puntato da quei
due buchi neri senza fondo che lo guardavano. Si ritrasse istintivamente e,
pentendosi della sua cordialità, passò oltre quell’uomo ripromettendosi di
evitarlo per tutto il resto del viaggio.
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