Ma Brahms mi piace davvero? Ero a Parigi per un congresso
che si era rivelato noiosissimo a proposito delle nuove tecniche odontoiatriche
di implantologia al titanio. Il terzo giorno non ce la feci più. Con l’animo di
un liceale che fa la marachella di nascosto ai genitori, non mi presentai
nell’aula dove diversi pedanti conferenzieri avrebbero continuato a pontificare
(nel vero senso della parola) sulle nuove tecniche per far felici i pazienti e,
di conseguenza, le proprie tasche. Con questo vago senso di colpa per un
compito non fatto, ma con la stessa leggera euforia delle prime “seghe” a
scuola, quel pomeriggio di aprile uscii dal mio albergo ad Avenue Montaigne
senza una meta precisa, ma deciso a godermi la primavera parigina ed il senso
di libertà che si prova quando nessuno ti conosce e non hai la responsabilità
di indossare alcuna maschera. Un boulevard dopo l’altro ed, alle sei del
pomeriggio, stanco della camminata, mi fermai ad un Cafè per una birra.
Mi sedetti nella veranda che dava sul marciapiede ad osservare
i passanti mentre il liquido ambrato e fresco appannava il bicchiere dandomi il
sollievo richiesto dai primi caldi e dalla lunga passeggiata. La mente vagava
su pensieri piacevoli. Non poteva essere altrimenti in una città così bella.
L’aria fresca faceva ondeggiare i mandorli già in fiore e le persone,
camminando sui marciapiedi, sembrava fossero comparse di un film di Cukor.
Avevo lasciato la mia famiglia nel Maine per il tempo di
adempiere a questo noioso dovere e avevo ancora due giorni di giustificata
libera uscita che intendevo godermi appieno. Intendiamoci: senza alcun fine
malizioso, ma la routine quotidiana fatta di bollette da pagare, lo stress
quotidiano della metropoli, i problemi sul lavoro e tutto il resto che si deve
affrontare per andare avanti, alla lunga, diventano pesanti.
Mi mancava mia
moglie. Ma, se devo essere sincero, sognavo di avere con me non la mia consorte
attuale, ma la mia donna com’era quando l’avevo conosciuta o, almeno, i primi
tempi del nostro matrimonio. Certo, capisco che anche per lei io non sono più
lo stesso, e oggi, ambedue accettiamo l’evoluzione che hanno tutte le coppie
con un pizzico di rimpianto per i tempi andati. Fatta questa riflessione, se
mia moglie, così com’è, fosse stata qui, avrei volentieri stappato con lei una
bottiglia di champagne con la speranza che sarebbe stato il viatico per
qualcosa di fuori dall’ordinario.
Stavo, quindi, sorseggiando la mia birra con un sorrisetto
sulle labbra e nel contempo osservando i passanti, quando la mia attenzione fu
attratta da una giovane signora. Molto elegante, con un grande cappello grigio,
a completare una mise in tinta. Passeggiava lungo il marciapiede ma con
un’andatura che denotava o una zoppia molto pronunciata, o un grave problema
con la sua scarpa destra. Ad un certo punto, evidentemente, la signora non ce
la fece più. Si appoggiò al muro del palazzo vicino e, con molta non calanche,
si tolse la calzatura. Guardò dentro con evidente fastidio, scrollò la scarpa,
e ne fece uscire un sassolino, al quale leverei comodamente il diminutivo. Poi,
sempre con molta classe, e come se fosse sola nel suo boudoir, si rimise la
calzatura e riprese il suo cammino.
Non so perché quella scena mi affascinò tanto. Non era
successo niente di speciale, e forse era proprio questo. Quella donna aveva
compiuto dei gesti quotidiani, e quasi volgari, con una eleganza e con una
classe che, forse, solo una parigina può avere.
Cosa mi scattò nella mente? Certo non l’istinto predatore
del pappagallo latino né, tantomeno, la voglia di una poco probabile avventura.
Mi alzai dal tavolino lasciando una cifra che, probabilmente, avrebbe pagato
almeno cinque delle mie consumazioni, e mi misi appresso a quella donna.
Che intenzioni avevo? Non lo sapevo. Nessuna, se non la
curiosità di vedere come si muovesse un animale tanto diverso dalla fauna alla
quale ero abituato. Lei, liberata dal fastidioso impiccio, si mosse spedita
verso la strada che conduceva verso l’Opera Bastille. Standole dietro non potei
fare a meno di notare come la sua andatura ricordasse il movimento sinuoso
delle onde del mare, e di considerare che ciò che in un’altra donna ed in un
altro posto avrei considerato voluto e civettuolo, in lei sembrava far parte
della sua natura, del suo essere donna fatta per essere ammirata, ma forse,
neanche toccata.
Si diresse spedita verso il teatro ed entrò dirigendosi
verso il botteghino. Io sempre dietro con la speranza che non se ne avvedesse.
Comprò un biglietto ed entrò nella sala. Mi avvicinai alla locandina per vedere
quale spettacolo fosse in programmazione. Era la sinfonia n. 3 di Brahms
diretta dal Maestro Von Rischovich con l’orchestra dell’Opera di Berlino.
Mi piace la musica. Un po’ tutta. Dovessi fare una
classifica metterei prima il rock/blues poi il pop quindi l’opera e poi la
sinfonica. Spesso, la sera, sto al computer a scrivere le mie cose con le
cuffie a sentire i classici degli anni sessanta. Se proprio mi sento in vena
intellettuale, posso mandare una quinta di Beethoven o un Mozart, raramente
Chopin, troppo triste. Brahms, sinceramente: sconosciuto. Ero arrivato fino a
lì, l’avventura è l’avventura: comprai il biglietto. Entrai nella sala. C’era
poca gente sparsa senza un ordine preciso. Individuai subito il cappello
grigio. I posti erano numerati, ma nessuno mi avrebbe detto niente se mi fossi
messo dietro la signora in un posto lasciato vuoto.
Così feci. Perché e con quale scopo? Non so e nessuno, con
tutta sincerità. L’orchestra era schierata ed, ad un cenno del primo violino,
si alzò in tutti i suoi componenti per accogliere con un applauso il Maestro.
Due colpi al leggio ed il concerto iniziò. Fui rapito dai primi movimenti ed il
basso accompagnamento dei violoncelli sottolineò una melodia che mi rapì nella
sua fascinazione. Il cappello avanti a me, ogni tanto accompagnava un movimento
o sottolineava un passaggio armonico. Finché non ci fu una pausa tra i due
tempi del concerto.
Feci una cosa che non avrei mai sognato di osare di fare. Mi
sporsi verso la signora avanti a me e le dissi in inglese, visto il mio
scarsissimo francese, “mi scusi avrebbe un programma del concerto?” Lei si
voltò. Le vidi, per la prima volta, gli occhi. Si dice che quello che affascinò
Richard Burton fu il viola profondo degli occhi di Liz Taylor. Non saprei
definire, o non ricordo, il colore dei suoi occhi, ma il suo sguardo mi
inchiodò alla poltrona del teatro. “Le piace Brahms?” mi chiese. Non seppi
rispondere. La domanda era troppo difficile. Lo sguardo troppo impegnativo. Già
solo il contatto verbale troppo pericoloso. Troppo, troppo di tutto. Biascicai
qualcosa in risposta e mi ritrassi spaventato da una Circe che sarebbe potuta
essere domata da un Ulisse molto più forte di me.
All’intervallo uscii dal teatro fiero di aver resistito alla
tentazione di quella sirena, ma anche con un po’ di rimpianto per un’avventura
non vissuta. Ho fatto bene o sono fuggito? Mi sono lasciato scappare una Leslie
Caron da accompagnare al “Lapin Agile” di Montmartre? Je ne sais pas. Comunque
è meglio vivere con l’illusione di un sogno che si sarebbe potuto realizzare
che con il segno rosso di uno schiaffone sulla guancia.
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