Prese un
lungo respiro ed, alzando gli occhi al cielo, intonò il finale dell’aria più
conosciuta dell’opera “Gianni Schicchi” del Maestro Puccini. Non doveva essere
cantata con un’estensione piena, ma anzi, dopo gli acuti ed i virtuosismi
precedenti, l’ultimo andamento richiedeva una flebile ed espressiva modulazione,
sufficiente però a farsi udire anche dall’ultima fila della platea. “Babbo
pietà, pietà…” Rapita dall’interpretazione, tenne la nota finale anche oltre l’accompagnamento
dell’orchestra. Nella grande sala da concerto, la voce rimase sospesa, quasi
fisicamente galleggiando sopra le teste degli ascoltatori. Poi finalmente si
spense. La cantante prima lanciò uno sguardo implorante verso l’immaginario
padre, e poi chinò il capo cingendosi il petto con le braccia,
nell’atteggiamento di umile supplica e rassegnata accettazione del fato che il
suo personaggio richiedeva. Grazie alla musica, ed alla voce angelica della
soprano, si creò improvvisamente un’atmosfera irreale e cadde un silenzio nel
quale sembrava che tutti stessero immobili, addirittura trattenendo il fiato,
per la paura di rompere l’incantesimo ed uscire dal sogno. Durò non più di pochi
secondi, ma sembrava che, per quel periodo, il tempo si fosse fermato. Il meno
sensibile, o forse il più entusiasta, degli spettatori si riscosse per primo e
batté forte le mani svegliando dalla trance chi gli sedeva intorno. A lui si
unirono calorosamente gli altri che, alzandosi in piedi, tributarono
un’entusiastica e lunga ovazione all’artista sul palco. Anche dal golfo mistico
gli orchestrali batterono sugli strumenti riconoscendo l’eccezionalità
dell’esecuzione.
Tittel Nyserom, solo Tittel per il mondo intero nel quale aveva venduto più
di sei milioni di dischi, lasciò il proscenio ritirandosi tra le quinte dove un
solerte assistente, le coprì le spalle con l’accappatoio accompagnandola nel
camerino. Era all’apice della carriera. A trentott’anni, dopo tanto studio e
gavetta, poteva dire di essersi affermata come una delle soprano più dotate ed
amate sulla scena musicale internazionale. Oltre alla lirica ed ai recital, si
cimentava con brani tratti da commedie musicali e con classici della canzone,
spesso duettando con altri suoi celebri colleghi. Una delle ragioni del grande
successo era che alle indubbie doti vocali si univano una grazia ed una
sensibilità innata, arricchendo le sue interpretazioni con una magnetica
presenza scenica. Nella Chiesa Presbiteriana di Bergen, la cittadina di
pescatori affacciata sul Mare di Norvegia dove era nata, ricordavano come si
distinguesse la sua folta chioma castana nel coro delle sue compagne tutte
inevitabilmente bionde platino. I grandi occhi scuri, vivaci ed espressivi,
donavano un fascino particolare allo sguardo della ragazzina con la bella voce.
Anche il carattere aperto e socievole, contribuiva a metterla in evidenza,
facendo asserire a molti che la figlia di Björn sarebbe stata sicuramente destinata a grandi cose.
Vivendo nella provincia di un Paese nel quale la natura è rispettata, amata e
vissuta come parte integrante della vita, praticava molti sport all’aria aperta
e, fin da piccola, si era cimentata nello sci, con l’escursionismo ed in ogni
tipo di attività che avevano modellato il suo fisico donandole una avvenenza
asciutta e tonica. Cosa poteva volere di più dalla vita? Bellezza, talento,
successo, fama e ricchezza erano piovute su di lei come se il Creatore avesse
voluto scegliere un esemplare dell’umanità a caso e gli avesse infuso una
scheggia di divinità. Eppure Tittel sentiva di essere afflitta da quella
malattia che tormentava molta parte della popolazione scandinava, all’apparenza
tanto serena. Quando si spengevano le luci della ribalta ed il pubblico lasciava
il teatro, o quando si ritrovava in camerino con ancora nelle orecchie l’eco
degli applausi, l’assaliva una grande onda di riflusso. Tutto le sembrava vano
e senza significato. I sorrisi e le acclamazioni di quanti la circondavano, apparivano
falsi e superficiali, rivolti all’interprete, ma non alla donna. Gli abbracci,
le congratulazioni, i complimenti mettevano sempre in risalto la sua bravura,
esaltando la dote di una voce fuori del comune che lei aveva avuto il solo
merito di educare, ma che si era ritrovata come un meraviglioso ed immeritato
dono naturale. Aveva la sensazione di essere il contenitore di quella voce che
aveva la responsabilità di curare e far conoscere al pubblico più vasto
possibile. Ma se l’involucro esterno fosse stato un altro, ovvero quella voce
fosse appartenuta ad un’altra persona, lei sarebbe svanita per tutti senza
essere rimpianta da nessuno. Si sentiva sola. La solitudine: la grande bestia,
feroce ed infida, che saltava sulle spalle di molti suoi connazionali e che
anche lei sentiva tanto spesso in agguato negli angoli delle stanze d’hotel o
mentre saliva in prima classe, sull’ennesimo aereo, verso il prossimo
spettacolo. Non aveva ancora imparato a combatterla. Per rincorrere il
successo, vedeva la sua famiglia sempre più di rado e gli amici dell’infanzia
erano rimasti in contatto solo con i biglietti natalizi o in qualche improvvisata
e frettolosa visita a Bergen. Talvolta si era fatta accompagnate in tournée dal
padre o, più raramente, dalla madre, ma il genitore era un vecchio pescatore
che amava solo la musica celtica e le ballate tradizionali e, anche se non si
lamentava mai, si vedeva chiaramente quanto fosse infastidito da tutto quel
circo intorno alla figlia. Un’altra esperienza negativa fu quando, pensando di
fare una cosa gradita e con tutto l’affettuoso entusiasmo possibile, invitò la
sua più cara compagna d’infanzia a seguirla per alcune date in Nord America. A
parte la complicazione di far staccare Solveig, l’amica, dai bambini e dal
marito ed i relativi quasi insormontabili problemi organizzativi, per tutto il
viaggio si erano sentite ambedue a disagio tra loro. Non erano riuscite a
ricreare l’antica complicità e la confidenza che le univa da ragazzine. La
ricchezza di Tittel, con la conseguente frequentazione dei migliori alberghi e
ristoranti, e la costante adulazione dalla quale era circondata, mettevano
Solveig perennemente a disagio, sottolineando la sua aria da sempliciotta. Era
quello che la cantante non avrebbe certamente voluto, ma non poteva sottrarsi
alla sua vita, spesso per lei organizzata da altri, anche se aveva cercato in
tutte le maniere di coinvolgere l’amica. Dopo quella volta, non ripeté
l’invito, non perché non ne sarebbe stata felice, ma per lasciare intatta la
loro amicizia, almeno nel ricordo dei tempi passati.
Fino a poco
tempo prima, aveva sperato di incontrare l’Uomo Per Lei. Quel mitologico essere
che le favole dicono esista per ogni giovane donna abbia la voglia di cercarlo.
Ma tante avventure, spesso frettolose ed insoddisfacenti, qualche breve
relazione, inevitabilmente finita con una delusione, e decine di persone
incontrate e subito dimenticate, l’avevano convinta a riporre nel cofanetto
delle illusioni il sogno di trovare un compagno.
Così, al
goccetto che prendeva prima delle esibizioni per darsi coraggio, poi aggiunse
un altro shot per sollevarsi dall’umore malmostoso, e quindi, per una necessità
che divenne piacere, la bottiglia si trovò ad essere una compagna inseparabile
e la sua migliore amica. Anche i ripetuti dischi d’oro, vedere il suo viso il
suo viso sui manifesti fuori dal Covent Garden o dall’Opera di Parigi e qualche
sporadico shopping compulsivo, non riuscivano più ad emozionarla come prima. Il
dolce ed aperto sorriso che ancora, a volte, le illuminava il viso, non era più
in grado di nascondere l’ombra di tristezza che ormai costantemente aleggiava
nella sua anima. Il sonno arrivava sempre più tardi nella notte e, se non era
accompagnato da una buone dose di alcol, rischiava di essere solo un
susseguirsi di incubi e frequenti bruschi risvegli, col risultato di lasciarla stanca
e di cattivo umore per tutta la giornata successiva. Lo stordimento, che pochi
bicchieri avevano il potere di donare, era una benedetta panacea che induceva
all’oblio e traghettava verso un nuovo giorno guadando i fiumi ribollenti di
insoddisfazione e rimpianto che ogni notte doveva affrontare. Al mattino, si
dava della pazza e ingrata per non avere la capacità di godere appieno i
privilegi che il fato le aveva riservato, e chiedeva perdono a Dio per la
bestemmia della sua infelicità. A volte si malediceva la voce per averla
portata lontano dalla sua vita vera e dagli affetti che sentiva di aver
lasciato. Incolpava quella carriera alienante per la sua solitudine, e già si
vedeva vecchia, carica d’ori e con gli occhi bistrati, in una Casa di Riposo di
lusso per artisti in pensione, ciabattare per i corridoi raccontando agli
specchi della sua passata gloria. Questo atteggiamento e l’umore sempre più
ombroso di Tittel, non potevano passare inosservati a chi gli stava accanto, ma
anche chi le voleva più bene si trovava impotente a farla uscire da quel tunnel
che sembrava solo il gioco di una mente viziata. Contattò psicoanalisti e
specialisti famosi nell’ambiente dello spettacolo. Il solo risultato fu quello
di buttare una quantità di denaro mentre continuava ad essere sola nella
battaglia contro la depressione. Non si ritirava dalla carriera perché, quando
sentiva le prime note di una romanza lirica e vedeva la bacchetta del Direttore
d’Orchestra puntare verso di lei per darle l’attacco, di colpo, miracolosamente,
dimenticava tutti i sui malesseri ed ogni fibra del suo corpo vibrava
all’unisono con le note spingendola a cantare con la sua voce d’angelo.
Cantando sentiva che quello era il motivo per il quale era al mondo e, mentre
godeva della fusione delle sua capacità con la meraviglia dell’arte, sentiva
che non poteva abbandonare il suo destino e che senza la musica sarebbe morta.
Continuò, quindi, nel suo percorso, sempre invidiata ed ammirata, con il
pubblico che inseguiva le sue rappresentazioni già mettendola nell’olimpo dei
grandi della lirica. Sentiva che ogni gradino salito corrispondeva ad un passo
verso il suo personale e non condivisibile baratro. Una bottiglia di Veuve
Clicquot, era diventata la sua prima richiesta in camerino e l’ultima
ordinazione al room service degli alberghi nei quali soggiornava. La vita per
lei era solo un susseguirsi di impegni che faticosamente portava avanti, e non
si curava più di tutte le incombenze e problemi che erano legati ad un grande
guadagno ed un patrimonio sempre crescente. Aveva delegato tutto al suo agente
e ad un avvocato che le era stato presentato a New York dal grande Pavarotti.
II
All’inizio
della carriera si era imposta che, al massimo ogni tre mesi, sarebbe tornata a
Bergen per vedere i suoi cari e gli amici di sempre. Era sicura che non li
avrebbe mai abbandonati, e non voleva che la memoria di quei luoghi, e il
ricordo che aveva lasciato in paese, svanissero col tempo. Negli anni, i tre
mesi divennero sei e poi dodici fino a quando un mattino, svegliandosi nella
suite al “The Peninsula Hotel” di Manhattan, si rese conto che erano passati
quasi due anni dall’ultimo suo ritorno a casa. Doveva ancora tenere un recital
verdiano al Lincoln Center la sera successiva, poi avrebbe avuto un buco nei
suoi impegni per una quindicina di giorni. Invece di ripassare il “Libiamo”
della Traviata o il “Ritorna vincitor” tratto dall’Aida, congedò il pianista
che l’avrebbe dovuta accompagnare, e si buttò a preparare la valigia con un
entusiasmo ed un’allegria come da tempo non provava. Sognava di dare nuovamente
appuntamento ai suoi amici davanti al Museo di Øygarden, anche se si rendeva conto che non erano più adolescenti, e di
gustarsi una fetta di Bløtkake comprata nella
pasticceria di fronte alla Mariakirken. Era strana tutta quell’eccitazione solo
per tornare a casa, ma Tittel sapeva bene che non era soltanto per nostalgia
che affrontava il viaggio, ma anche, e soprattutto, per tornare alle sue radici,
per ritrovare se stessa e capire se quella che stava vivendo era veramente la
vita che voleva vivere. Guardando negli occhi il vecchio padre, abbracciando la
madre e respirando il salmastro odore del mare, avrebbe capito se avesse ancora
la forza e le motivazioni per continuare, oppure se era ora di tornare a…casa.
Il primo sintomo della bontà della sua decisione, fu che quando le portarono la
solita bottiglia di champagne serale, senza che lei l’avesse neanche chiesta
tanta era diventata l’abitudine, Tittel la rimandò indietro già abbastanza
ebbra dell’aspettativa del viaggio.
Avrebbe potuto essere un sedile della Ryanair
o una poltrona di business, come in realtà era, la cantante non avrebbe notato
la differenza. Dopo tanto tempo, viaggiava sola. Non aveva voluto che
l’accompagnasse nessuno, segretaria, promoter, ufficio stampa, nessuno che
fosse legato al suo lavoro. Anzi aveva ordinato esplicitamente di non chiamarla
per tutto il tempo che avesse trascorso in Norvegia. Si sarebbe fatta viva lei,
e con un segreto sorriso interiore, immaginava l’infarto che avrebbe rischiato
il suo impresario, per un suo eventuale annuncio di voler rimanere a Bergen. Le
otto ore di volo tra il JFK e l’aeroporto Moss Rygge di Oslo non esistettero e Tittel si trovò davanti all’ufficiale
della dogana norvegese con un gran sorriso, già godendo nel risentire la sua
lingua. Si aspettava di essere accolta come ormai era abituata. Di essere
immediatamente riconosciuta e circondata dai soliti complimenti e con il calore
che normalmente le tributavano i fan. Ma c’era qualcosa che non andava. Il
poliziotto teneva in mano il suo passaporto e sembrava studiarlo con attenzione
e con un’aria grave ed attenta. “C’è qualche problema, ufficiale?” chiese
Tittel vagamente inquieta. “Si, signora Nistrom, abbiamo una
segnalazione sul suo nominativo. La prego di seguirmi negli uffici di Polizia
di Frontiera.” Non era ancora preoccupata, doveva trattarsi di qualcosa legato
magari ad un contratto o di qualche formalità burocratica che, nella
moltitudine dei suoi spostamenti, aveva omesso di adempiere. “Si accomodi.” Le
disse il capitano invitandola a sedere di fronte alla sua scrivania. Tamburellò
per qualche secondo sul piano del tavolo tenendo gli occhi fissi su una
cartella aperta avanti a lui. Gli capitava qualche volta di fermare una
celebrità, ed in quei casi si faceva vanto di essere ancora più inflessibile
del solito, a sottolineare l’importanza e l’incorruttibilità della sua persona.
Mentre lui taceva, l‘interlocutore diventava sempre più nervoso, come reazione
all’ancestrale paura dell’autorità, e spesso quando finalmente veniva
interrogato, si dimostrava più collaborativo. Anche in Tittel stava aumentando
l’ansia e sentiva quasi fisicamente come stesse soffrendo il suo sistema
nervoso, già così poco stabile in quel periodo. “Non va per niente bene,
signora Nystrøm. Qui risulta che, presso la Procura Generale di Oslo, è aperta
una procedura nei suoi confronti per carente conformità alle leggi di
accertamento fiscale.” La cantante non capiva una parola di quello che stava
sentendo e la voce del poliziotto le rimbombava nel cranio, rimbalzando da un occipite
all’altro, accavallando e facendo eco tra le parole. Le stava venendo un gran
mal di testa e vedeva piccoli piccoli lampi di luce in fondo alle pupille.
“Quindi? Lei ne è al corrente? Comprende la gravità della cosa?” “Ufficiale, la
prego, non mi sento bene. Mi lasci andare a casa e il mio manager potrà
chiarire tutto.” - Eh, certo, manager, leccapiedi e chissà chi altro. - Pensava il doganiere indispettito da quelle
moine. – Chi si crede di essere? Solo perché è famosa, crede di poter fare come
vuole. Ma si sbaglia, di grosso! – “Signora, lei non può andare a casa fintanto
che non abbiamo redatto il verbale. Stia calma e aspetti.” Tittel percepì solo che non poteva andare a
casa e, in quel momento qualcosa le si ruppe dentro. Sentì che tutto complottava
contro di lei per non farla tornare a Bergen a rivedere la sua famiglia. Di
più, quel diavolo che aveva di fronte, la voleva imprigionare, trattenere,
forse uccidere. Perse qualsiasi forma di lucidità e sentì solo che si doveva
difendere, a tutti i costi. Si alzò dalla sedia e, urlando come un’ossessa,
afferrò un pesante fermacarte che stava sul tavolo e lo scagliò contro il
nemico. Non riuscì a colpirlo, ma muovendosi freneticamente, mentre urlava
tutta la sua rabbia e disperazione con frasi scomposte e senza senso, fece un
balzo animalesco verso il tenente cercando di graffiarlo in faccia. L’ufficiale
si difese istintivamente e, per allontanarla, diede un gran sbracciata che fece
volare la donna dall’altra parte della stanza facendole sbattere il capo contro
la parete e, poi scivolando, sul pavimento. Tittel giacque immobile, senza
sensi, nello squallido ufficio della dogana.
Si risvegliò
in un letto dell’Ospedale Maggiore di Oslo. Si accorse di avere la testa
fasciata e che una lunga cannula di plastica era infilzata nel suo braccio.
Provò a girare cautamente il viso e vide che nella stanza c’erano alti tre
letti occupati da donne più o meno vigili ed una di loro sembrava costretta in
una camicia di forza. – Dove sono? Che succede? Voglio andare via! Aiuto… -
“Ahhh, Aiutoo!!” Al suo grido le corse accanto un’infermiera. “Buona, buona.
Stai calma che va tutto bene.” “Voglio andare via! Lasciatemi andare!” “Con
calma, adesso stai male. Hai una piccola commozione cerebrale. Devi rimanere
qui qualche giorno, e poi vedremo.” Rimanere…non voleva rimanere. Ancora nebbia
e confusione in testa. Afferrò il braccio dell’infermiera e, con una forza del
tutto inaspettata, cerco di alzarsi dal letto. L’infermiera era abituata alle
reazioni delle pazienti ed aveva sempre in tasca una siringa ipodermica con un
potente calmante ad azione rapida. Con un abile gesto infilò l’ago nella carne
di Tittel, che rimase un attimo stupita di quel leggero dolore, e
successivamente si accasciò sul letto, ancora una volta priva di conoscenza.
Riaprì gli
occhi, senza avere la minima cognizione del tempo passato, e con un senso di torpore
che sfumava i contorni di tutte le cose intorno a lei. “Tittel, guardami! Sono
io.” “Oh, Marcus, Marcus!” La donna scoppiò a piangere vedendo seduto accanto
al letto il suo manager, e amico fidato, che la seguiva da tanto tempo. “Portami
via, Marcus!” “Non posso, cara sei in stato di fermo giudiziario per
l’aggressione al poliziotto e poi devono fare accertamenti sulle tue condizioni
generali. Pare che tu sia un po’ confusa. Vedrai si risolverà tutto in breve
tempo.” “Oh, meno male che sei qui. E’ vero, mi sento un po’ fuori di me, ma
posso andare a casa. Diglielo tu, che posso andare a casa!” “Certo, certo. Devi
solo stare calma, dimostrare che sei in possesso delle tue facoltà, e ti
rilasceranno immediatamente.” “Si, si lo farò. Starò calma. Farò quello che
dicono.” Mentre pronunciava queste parole, si senti riprendere dalla debolezza
e le si chiusero gli occhi ripiombando nuovamente in un profondo sonno senza
sogni. Il manager, seduto tenendole la mano, la guardò ancora lungamente. Poi
si alzò e, con affettuosa premura, prese una pezzuola e le deterse il sudore
sulla fronte. Quindi, con calma, infilò la mano in tasca e prese una fialetta,
l’aprì cautamente e, dopo un breve sguardo intorno per accertarsi di non essere
visto, ne versò il contenuto nel flacone della flebo appeso al trespolo vicino
al letto. Si allontanò velocemente dalla camera. Dopo qualche minuto, la
sostanza raggiunse la vena, il cuore accelerò i battiti e la forte aritmia fece
svegliare di soprassalto Tittel, boccheggiante e terrorizzata. Sicura di stare
per morire, emise un lungo lamento disperato che fu udito dal medico di guardia
che passava nel corridoio. Il dottore non si degnò neanche di entrare nella
stanza per vedere cosa fosse successo ed, al collega che l’accompagnava,
declamò con sicurezza: “E’ la nuova paziente, sai la cantante. Anche il
primario è d’accordo: soffre di una sindrome maniaco depressiva con sintomi
schizofrenici e disturbo paranoide della personalità. Possibili atti di
autolesionismo. E’ necessario il ricovero sotto stretta osservazione, in lunga
degenza.” Più che una diagnosi, le parole suonarono come una sentenza.
III
Era andato
per mare lungo cinquant’anni e più della sua vita. Conosceva il buio profondo
delle acque al largo delle coste, quando sembrava di navigare sopra la notte
piena di incubi ed angosce. Aveva visto giorni e mesi non finire mai, ed il
chiarore non cedere alle tenebre mentre, ai bordi del polo, le balene passavano
soffiando maestose. Aveva caricato reti stracolme di skrei catturati nelle
acque intorno alle Lofoten, ed era stato in attesa del branco magico che
avrebbe fatto affondare il peschereccio sotto il peso del pesce. Non si era
spaventato affrontando le tempeste più furiose, con il fatalismo indispensabile
a chi faceva il suo mestiere, ed era stato in bonaccia passando il tempo cercando
di inventare la storia più inverosimile che avrebbe raccontato ai compagni
prima di cedere all’ultimo bicchiere di Linie, l’acquavite norvegese. Aveva
visto qualcuno sparire tra i flutti, qualcuno era morto tra le sue braccia ed,
una volta, aveva aiutato a partorire la moglie di un amico che era rimasta
isolata dall’alta marea sulla sua isola. Non era mai stato un chiacchierone e,
con il passare del tempo, sentiva di aver quasi esaurito le parole a sua
disposizione e di dover risparmiare le restanti per esprimere concetti che ne
valessero la pena o che fossero indirizzati a persone che li meritassero. Björn credeva di essersi creato un callo
sul cuore che lo rendesse quasi insensibile, ma pensare alla sua povera,
amatissima, figlia costretta in un ospedale psichiatrico senza poter fare
niente per aiutarla, gli causava una pena sorda e costante molto più dolorosa
di tante ferite che gli avevano segnato il fisico durante la sua attività.
Adesso capiva come la sensibilità di Tittel l’avesse resa una grande artista
ma, nello stesso tempo, fatta vulnerabile agli strali della vita. Avrebbe
voluto aiutarla. Si era consigliato e dato da fare, per quanto poteva, ma tutti
i consulti esterni alla struttura ospedaliera non avevano fatto altro che
confermare la diagnosi dei medici curanti. La cantante alternava periodi nei
quali sembrava stare bene e si comportava del tutto normalmente, con momenti di
crisi violenta che, stranamente, sembravano coincidere con le visite che
riceveva. Pertanto, era stato drasticamente ridotto il numero delle persone
alle quali era consentito incontrarla, limitandole ai genitori, al suo manager
e vecchio amico, ed al pastore della sua Chiesa che la conosceva fin da
piccola.
Quel giorno
a casa Nystrøm aleggiava un odore intenso ed invitante che usciva dalla cucina.
La signora Hannah stava preparando lo smalahove, come pietanza principale, ed
un buon dolce multekremen, per suo marito Björn ed Ernst che veniva a pranzo da loro. Erano
contenti di ricevere il giovane che sentivano un po’ come un figlio essendo
cresciuto accanto alla loro villetta fino a che non era partito per gli Stati
Uniti per completare gli studi. Ernst era andato a scuola con Tittel ed erano
cresciuti insieme, facendo nascere nella madre della ragazza la vana speranza
di vederli un giorno sposati tra di loro e sistemati a vivere vicino a lei. La
vita poi li aveva allontanati, ma dopo essersi specializzato in diritto
tributario internazionale, l’ormai affermato professionista era tornato in
Norvegia e, quando passava per Bergen, non mancava mai di fare visita a quelli
che considerava i suoi secondi genitori. “Vieni, accomodati. Facciamoci una
pipata, mentre la signora Nystrøm finisce di preparare.” Björn indicò con la mano una poltrona
accanto alla sua, prendendo il sacchetto di tabacco e la pipa con il
fornelletto di schiuma bianca che, era ormai tradizione, riservava solo al
giovane amico in occasione delle sue visite. “Dammi notizie di Tittel, come
sta?” chiese subito Ernst al vecchio padre. “Non bene. Non riesce ad uscire dal
tunnel ed i professori non sanno aiutarla.” “Che tragedia! Ma come può essere
successo? Sembrava felice con il suo lavoro ed aveva raggiunto tutto quello che
avesse mai potuto desiderare.” “Evidentemente, non era così. Covava
un’infelicità di fondo che, nel tempo, è emersa violentemente facendole perdere
la salute mentale.” L’avvocato aveva le lacrime agli occhi ripensando all’amica
e rivedendo il suo sguardo allegro ed a volte impertinente. C’era stato anche
un piccolo flirt tra loro, anzi per lui, e forse anche per lei, era stato il
primo bacio. Di quelli che non si scordano mai e, quando tornano alla mente
provocano un malinconico rimpianto che comprende tutto, dalla gioventù
trascorsa alle occasioni mancate. Ernst sentiva che era stata una sua mancanza
lasciarsi scappare Tittel dalle mani, come una farfalla che dispieghi le ali,
mostrandone a tutti i meravigliosi colori, ed in un soffio voli via. “Come mi
dispiace. E la sua carriera, i suoi interessi, adesso chi li cura?” “Per
fortuna c’è Marcus, il manager. E’ l’unico che le è rimasto vicino, si è fatto
fare una procura generale per ogni suo affare e cura tutto lui. Sta affrontando
anche la vicenda che è stata alla base della crisi di Tittel. Ha fatto molte
azioni, non ti so spiegare meglio, nei confronti del Ministero delle Finanze,
per contestare le presunte irregolarità fiscali. Insomma, sta tutto nelle sue
mani.”” Bene, bene. E’ importante avere vicino qualcuno di cui fidarsi.” In
quel momento, la signora Nystrøm li chiamò a tavola e cercarono, per quanto
possibile, di godersi insieme quei momenti di serenità.
Quella sera
Ernst, mentre fumava l’ultima sigaretta prima di andare a letto, pensò, per
l’ennesima volta a Tittel ed al suo beffardo destino. Come tanti grandi, aveva
raggiunto la vetta per poi precipitare repentinamente nell’abisso, in un
tragico fatale momento. E tutto, come causa scatenante, per la stupida
contestazione alla dogana da parte di una guardia che non aveva capito la
delicatezza dell’anima con la quale il Signore gli aveva dato la fortuna di
entrare in contatto. A proposito: la vicenda fiscale. Lui faceva parte dello
studio tributario più importante della Norvegia e, per lavoro, aveva contatti,
amicizie, relazioni o semplici agganci in tutti gli uffici del Ministero delle
Finanze. Sapeva bene come muoversi nei meandri della burocrazia anche solo per
trovare informazioni o arrivare al funzionario giusto. Se c’era un caso nel
quale Ernst avrebbe potuto mettere a frutto la sua professionalità, con tutto
il corollario di aderenze, era proprio la vicenda di Tittel. Con il massimo impegno
avrebbe tentato di influire sulla pratica in carico all’amica e agevolarne la
soluzione nella maniera più rapida e soddisfacente possibile.
La mattina
appresso, arrivò di buon’ora nello Studio Trygve, in Kongens Gate a Oslo, dove
grazie alle sue capacità, seppur molto giovane, era diventato vicepresidente
con il diritto di occupare un ufficio d’angolo con vista sulla Kontrasktjǽret.
Si attaccò al computer ed al telefono e mosse tutte le pedine necessarie per
farsi un quadro esauriente della situazione. Rimase al suo posto tutta la giornata
ed, alle dieci della sera, fece una chiamata a Bergen. “Björn, scusami se ti disturbo a
quest’ora, ma devo parlarti urgentemente. “Cos’è successo, Ernst? Mi stai
allarmando. Riguarda Tittel?” “Si, stai tranquillo, non la sua salute, ma ho
scoperto alcune cose che vorrei discutere con te quanto prima. Però vorrei
pregarti di fare un piccolo viaggio e venire nel mio ufficio perché ci sono
documenti che non posso far uscire.” Il vecchio sapeva quando era il momento di
troncare le chiacchere e muoversi. “Domattina alle otto e trenta sono da te.”
“Ti aspetto, a domani.”
Björn non pensava che Ernst, che ancora
ricordava con i pantaloni corti, avesse fatto tanta strada nella sua vita
professionale. Rimase stupito nell’entrare in quel moderno edificio tutto vetri
e acciaio nel cuore della capitale. E poi continuò nella sua meraviglia quando,
scortato da una segretaria che avrebbe potuto fare la modella, mise piede nel
grande studio del figlioccio. “Vieni, accomodati. Scusami per questa
convocazione tanto pressante, ma devo metterti al corrente di quello che ho
scoperto.” Dimmi.” “Come sai, il mio lavoro mi dà accesso a quasi tutti i
database del paese sia governativi che privati, anche se a volte in maniera non
del tutto lecita. Ho voluto verificare quanto mi avevi detto in merito ai guai
di Tittel e se avessi potuto fare qualcosa per lei. Ho cercato la pratica ma,
contrariamente alle tue informazioni, ho rilevato che non è stato fatto niente
per difendere tua figlia. Anzi, invece di fare le necessarie opposizioni e
presentare i documenti, sono stati richiesti solo rinvii per motivi di salute
che, ovviamente, non risolvono niente. Sembrerebbe che “il fidato” Marcus,
grazie alla sua procura, abbia prodotto carte addirittura negative per l’iter
della pratica.” Il vecchio era attento e pendeva dalle labbra del giovane
avvocato. “Non solo – continuò Ernst – mi sono ricordato che mi avevi accennato
che le condizioni di salute di Tittel subiscono un aggravamento dopo le visite
che riceve. Allora, per averne la certezza, ho fatto una cosa che non avrei potuto,
ed è per questo che ti ho fatto venire e non ho portato i fogli da te.” “Vai
avanti.” “Con l’aiuto di un nostro collaboratore, genio informatico, ho avuto
accesso al computer centrale dell’ospedale dove è ricoverata Tittel. Sono
riuscito a trovare la sua cartella clinica e, cosa vietatissima, ne ho raccolto
i dati. In particolare sono andato a vedere quando alla paziente sono stati
somministrati medicinali e cure per tenerla sotto sedazione in seguito ad una
crisi conclamata. Devi sapere che il reparto registra anche tutte le visite
ricevute ed i nomi dei visitatori con data e ora relativa. Ebbene, confrontando
i giorni in cui Marcus è andato in ospedale con quelli in cui c’è stato
l’intervento terapeutico, risulta che Tittel ha avuto le ricadute sempre nello
stesso giorno in cui il suo manager è andato a trovarla. Per togliermi ogni
ulteriore dubbio, ho visto, dalle dichiarazioni, qual è la banca alla quale
sono appoggiati i conti di Tittel e, siccome conosco bene il direttore, l’ho
subito chiamato per fargli qualche domanda. Per fartela breve, il funzionario
mi ha detto come fosse addolorato nel constatare che la sua cliente, tramite il
manager che gli aveva presentato la procura ad agire per suo conto, stesse
gradualmente, ma sistematicamente, trasferendo i suoi risparmi dalla banca ad
un Istituto svizzero, su un conto numerato. E allora, mi sono fatto una convinzione.
Tittel sta subendo un infido raggiro da parte di Marcus che, quando va da lei,
le somministra, in qualche maniera, medicinali o droghe che inducono la crisi.
Questo fa intervenire i medici che, non notando miglioramenti, continuano a
tenerla in ospedale. Marcus, ha quindi il tempo di fare i suoi loschi affari
derubando Tittel di ogni suo avere, fino a quando non sarà prosciugata e, a
quel punto…temo il peggio.” Björn non interruppe l’amico per la durata di tutto il lungo
discorso. La sua faccia era impassibile e grave come al solito, ma all’altezza
dello stomaco sentiva salirgli una sensazione d’ansia, o addirittura di panico,
come non ne aveva mai provate in tutta la vita. La prima idea che gli venne fu
quella di precipitarsi in clinica e strappare la figlia da quella situazione e
sottrarla alle grinfie di quel maledetto diavolo. Ma capiva che, per il bene di
Tittel, si doveva agire con il cervello. “Hai fatto un lavoro egregio, mio caro
Ernst. Sicuramente ti sarai fatto un’idea dei passi che dobbiamo compiere per
mettere fine a questa tragedia.” “Certamente. Prima cosa dobbiamo incastrare
Marcus, dimostrando la sua colpevolezza, per far annullare la procura e farlo
arrestare. Quindi, una volta rimossa la causa, anche le condizioni di Tittel
miglioreranno e la riporteremo, finalmente, a casa.” “Oggi mi hai dimostrato
come tutto l’affetto, oltre alla stima, che sempre abbiamo provato nei tuoi
confronti, fosse ben riposto. Figliolo caro, agisci! Velocemente e con
prudenza. Ridammi mia figlia e te ne sarò debitore per sempre.” L’avvocato mise
in un cassetto della sua memoria le parole del vecchio ripromettendosi di
tornare a risentirle quando avrebbe potuto permettersi il lusso di intenerirsi.
Per il momento doveva essere lucido ed aggressivo, e muoversi.
IV
Il manager
arrivò al nosocomio per la consueta visita settimanale. Ormai per lui era
diventata un’abitudine. Variando il giorno della visita, ma non facendo passare
mai più di dieci giorni, controllava le condizioni della sua cliente e, nello
stesso tempo, si mostrava come un amico premuroso e solerte, attento alle
necessità della giovane ricoverata per la quale sbrigava tutte le onerose incombenze
legate alla gestione del suo patrimonio. I medici ed il personale della clinica
avevano fatto l’abitudine alle sue viste ed erano quasi entrati in confidenza
con quella persona all’apparenza così sollecita e caritatevole. Gli
permettevano di passare senza difficoltà e lo lasciavano tranquillamente solo
con Tittel alla quale pensavano facesse bene parlare con qualcuno di caro. E’
vero che dopo, magari nelle ore successive o durante la notte, Tittel si agitava
a volte fino ad avere delle convulsioni, ma i luminari ritenevano che questo
fosse l’effetto di una scossa emotiva che, se da una parte aggravava
momentaneamente le sue condizioni, dall’altra non permetteva al suo cervello di
scollegarsi del tutto dalla realtà circostante e dalla vita che aveva vissuto
in precedenza. Marcus anche quel giorno, con un falso sorriso sulle labbra,
aprì la porta della camera dove sul quarto letto vicino alla finestra, Tittel
era riversa pallida ed esangue. Aveva perso molto peso ed i suoi meravigliosi capelli
ramati erano ridotti ad una matassa di ciocche, spente ed arruffate, intorno al
viso sofferente. “Dolcezza, sono qui. Sei contenta di vedermi?” Quando era
lontano da eventuali testimoni, l’uomo lasciava cadere la maschera, consapevole
che la giovane, anche se avesse avvertito la sua malvagità, non era in grado di
reagire in alcuna maniera. “Sono tornato a trovarti. Ora il tuo amico ti fa un
po’ di compagnia e ti racconta di come sta curando i tuoi interessi.” Marcus
sapeva che poteva dire qualsiasi cosa, tanto Tittel non avrebbe raccolto o, se
anche avesse riferito a qualcuno le sue parole, sarebbe stata solo un’ulteriore
dimostrazione della labilità del suo equilibrio psichico. “Il tuo fidato e
affezionato collaboratore, che hai sempre trattato come un cagnolino a
disposizione dei tuoi comandi e dei tuoi capricci, sta giocando con i soldini.
Sai, come soldatini, i tuoi dollarucci, insieme al contenuto delle cassettine
bancarie, si stanno mettendo in fila e marciano ordinatamente. Pensa, lasciano
i tuoi conti e si dirigono verso un piccolo paese lontano, patria
dell’Emmental, dove si nasconderanno agli occhi di tutti e risponderanno solo
ai comandi del nuovo padroncino, ovvero io.” Non poté trattenere una sardonica
risata di autocompiacimento. “Io ti racconterò questa storiellina fino a
quando, malauguratamente, non ci sarà più bisogno che tu resti in questa valle
di lacrime, e per farti contenta, ti aiuterò a fare un bel sonno profondo e
senza risveglio.” Tittel guardava l’amico e non capiva il senso del discorso.
Sentiva solo il mellifluo suono delle parole che raccontavano una bella fiaba,
e la cullavano dolcemente, facendo apparire uno stanco e tremulo sorriso
all’angolo delle sue labbra. Era passato abbastanza tempo per giustificare la
sua visita, Marcus poteva finalmente fare quello per cui era venuto. Come di
consueto, lanciò una rapida occhiata intorno e infilò la mano in tasca per
prendere la fialetta di medicinale, o meglio di veleno. Non se l’aspettava.
Improvvisamente si sentì le braccia immobilizzate e vide sbucargli intorno
degli uomini in divisa che, strattonandolo senza tanti riguardi, lo gettarono
in terra non consentendogli di muovere un muscolo. Quello che sembrava
l’ufficiale in capo, verificò il contenuto delle tasche di Marcus e sequestrò
non solo una, ma diverse fiale contenenti un farmaco fortemente atropico
vietato in commercio. Fu ammanettato e tradotto in galera.
Dall’articolo
di spalla sulla prima pagina del quotidiano VG: - Le campane della Chiesa hanno
suonato in segreto per Tittel, martedì 13 agosto, quando ha stretto il nodo con
uno fra i più importanti avvocati norvegesi, Ernst Rondnaas. La coppia si è
sposata martedì con una semplice cerimonia nella chiesa di Hov, alla presenza
di pochi invitati e dei parenti più stetti. Gli sposi attualmente risiedono a
Frogner, Oslo, ma passano anche molto tempo nella loro fattoria a Hov, Sǿndreland.
–
“Certo che
lui non si può proprio definire un Adone!” Come in tutti i ricevimenti nuziali
che si rispettino, il divertimento più grande per gli invitati era quello di
criticare. “Guarda come gli tira il gilet del tight e bisogna dire che, per
essere un giovane uomo, è già abbastanza in piazza, sulla fronte.” A questa
acida osservazione della zia Nilde, una vecchietta, che era stata la tata di
Tittel, rispose con fermezza: “in compenso, lei è uno splendore. E poi, guarda
come si fissano negli occhi. Credo che nessuno dei due veda l’aspetto fisico
dell’altro, ma se c’è una coppia dove ha vinto l’amore, beh credo proprio che
l’abbiamo davanti.”
Tittel e
Ernst non si lasciarono la mano per tutta la durata del ricevimento, e se dopo
qualcuno avesse chiesto loro cosa fosse successo quel pomeriggio, non avrebbero
saputo riferire niente tranne che avevano fluttuato su una nuvola. Il serio
avvocato aveva finalmente realizzato il sogno che l’aveva per tanti anni
accompagnato ed intenerito mentre, quando stavano lontani, gli capitava di
sentire una vecchia canzone che aveva ballato con Tittel o di vedere una stella
cadente alla quale affidava sempre un unico e costante desiderio. La cantante
aveva trovato, dove era nata, quello che aveva inconsciamente cercato girando
tutto il mondo. Il suo cuore era colmo e l’anima leggera. Sentiva di dovere, in
qualche modo, esprime il ringraziamento per quella benedizione e, nello stesso
tempo, condividere con chi amava la felicità di quel momento. Lo fece nella
maniera che meglio sapeva. Senza alcun accompagnamento, e sorprendendo gli
invitati, seguì la sua ispirazione e lentamente si alzò da tavola, richiamando
su di sé tutti gli sguardi. Fissò negli occhi Ernst e poi il padre e la madre,
socchiuse le palpebre, e cantò.
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