venerdì 20 febbraio 2015

Muscle Shoals

Muscle shoals, Alabama. Negli anni sessanta, da quelle parti, di pelle nera si moriva. Se un negro entrava in un cinema, un teatro o anche un bagno pubblico, e non si dirigeva verso il cartello “coloured”, rischiava di non poter uscire più sulle sue gambe. Nei bar i banconi erano divisi in due zone, quella dei bianchi e l’altra dove si potevano sedere, per poco tempo, le persone di colore. Per andare a scuola i bambini bianchi dovevano prendere autobus separati e non mescolarsi con quella gente che, nell’opinione dei loro genitori, doveva rimanere segregata e sottomessa. Se qualche giovane ribelle di colore avesse avuto l’ardire di rivolgersi ad una ragazza bianca, per non dire prendere qualche confidenza con lei, era certo di trovarsi una croce incendiata nel giardino di casa e, se avesse insistito, era pronta una pattuglia di uomini incappucciati di bianco con corda e nodi scorsoi. Il Ku Klux Klan: dei buontemponi che linciavano i negri se non rimanevano al loro posto e si facevano fotografare sotto l’impiccato penzolante come cacciatori che si vantano della loro preda. Questo era il clima nel sud degli States una cinquantina d’anni fa, anche se è difficile crederlo per i più giovani ormai abituati al melting pot cosmopolita.
In corrispondenza di un incrocio della strada statale che unisce le Shoals, e più precisamente in località Muscle, un personaggio che, nello spirito imprenditoriale del self made man americano, univa la capacità dell’impresario con il gusto dell’arrangiatore musicale ed il fiuto del talent scout, aprì un piccolo studio di registrazione insieme a musicisti suoi amici. Avevano due caratteristiche in comune: erano tutti molto bravi e molto bianchi. I Fame Studios, con il patron Rick Hall, divennero presto noti nell’ambiente ed una cantante di colore, che a venticinque anni aveva già pubblicato qualche album ma senza particolare successo, ebbe l’idea di recarsi in quel posto sperduto per fare delle prove per il suo nuovo disco. Nel 1967 Aretha Franklin, con l’accompagnamento di musicisti bianchi, registrò “I Never Loved A Man” che ebbe un successo clamoroso e la lanciò tra le maggiori interpreti R&B, fino a diventare la regina del soul. Dopo di lei, si sono disturbati a raggiungere l’Alabama artisti come Wilson Pickett, Etta James, Otis Redding e poi i Rolling Stones, Alicia Keys e moltissimi altri che, in quel gruppo di professionisti, hanno trovato un sound che le majors discografiche non sono mai riuscite ad uguagliare. Molti non sanno che, ad accompagnare la storia della musica nera c’è stata anche una parte importante di esecutori bianchi.
La cosa notevole in questa storia non è tanto la nascita e l’affermazione di un piccolo studio di registrazione in contrapposizione con la grande potenza economica e di mercato delle multinazionali del settore, quanto la dimostrazione di una verità incontrovertibile: la forza della musica è universale. Il colore della pelle, la cultura, la provenienza, il censo niente ha più importanza quando si abbandona il cervello per dare ascolto all’anima. C’è qualcosa che unisce tutti gli esseri viventi e si rivela tramite linguaggi che non hanno bisogno di parole. Forse “L’armonia del Creato” non è soltanto una locuzione descrittiva, ma la definizione di quello che tutto il creato ha in comune: l’armonia che si manifesta nella musica.
C’era un bambino che, all’età di due o tre anni, quando i genitori gli cantavano “Fascination”, piangeva calde lacrime senza sapere il perché, forse era il suo piccolo cuore che vibrava all’unisono con l’Universo.    


Nessun commento:

Posta un commento