I
“Si, signora
contessa…va bene, signora contessa…con piacere, signora contessa…d’accordo,
signora contessa…senz’altro, signora contessa…non mancherò, signora
contessa…riverisco, signora contessa.” “Oh Kathia, scommetto che era la signora
contessa!” “Ma quanto sei grulla, ma grulla tanto!” Lo scambio di battute
avveniva in un pomeriggio d’estate, in mezzo alla settimana, tra la Kathia,
parrucchiera pour dame che aveva appena messo giù il telefono, e l’Antonella,
sua aiutante, spesso per la discesa, come diceva scherzando, ma non troppo, la
padrona. “Lo sai che ogni quindici giorni, puntuale come solo possono essere le
persone anziane, mi chiama per andare a farle i capelli in villa. Pora
vecchia.” “Porella ‘na sega! – rispose l’apprendista cinica e sfrontata come
tutte le tutte le sue coetanee – Vorrei essere io povera come lei e cieca d’un
occhio. Vive in quella casona con almeno cinque persone di servizio, senza
contare chi le mantiene il podere.” “Ma come sei gretta…, gretta, volgare e
perfida. Vorresti scambiare i tuoi vent’anni con i settanta e passa della
nobildonna, acciacchi e solitudine compresi, a fronte di euri? In realtà di uno
stonfo di euri, ma è la stessa cosa?”” Un se pole fare ‘na via di mezzo?
Trentacinque anni e mezzo stonfo di soldi: accetterei subito.”” Ehhh…ma che ne
sai tu. Via, basta con le ciance, finisci la messa in piega che stai facendo.”
Già, perché il dialogo avveniva al di sopra delle teste di due signore che seguivano
l’andamento della conversazione subendo colpi di pettine e sforbiciate, vigorosi
o delicati in relazione all’enfasi dei discorsi. Le clienti, a costo di qualche
sgraziata grattata o tiratina di capelli, si godevano in silenzio il siparietto,
attente a cogliere qualche eventuale pettegolezzo da riferire alle amiche.
La contessa
Camilla Bitto de Censis, quando compì cinquant’anni, decise che aveva visto
abbastanza del mondo e, dopo aver chiuso Palazzo in via Tornabuoni, come ai
tempi aviti, organizzò una carovana di camion e autovetture stipate con gli
oggetti a lei più cari, e si trasferì definitivamente alla “Mandragola”. La
grande villa era stata casino di caccia per i suoi antenati ed il luogo della
sua infanzia, dove aveva vissuto fino all’età scolare per poi tornarci almeno
un mese ogni estate. Al momento di eleggerla come sua stabile e definitiva
dimora, aveva convocato il sindaco di Pescia Fiorentina, comune nel quale era
compresa la proprietà, e gli aveva comunicato che avrebbe versato, sua sponte,
ogni anno una ingente somma nelle casse comunali da sempre asfittiche. In
cambio voleva due cose: che la Scuola Elementare del paese fosse intitolata al
padre, don Melchiorre Ildebrando Bitto de Censis di Torrerotta, e che fosse
deviata la strada comunale che passava vicina alle sue terre per evitare
qualsiasi transito di gente da lei indesiderata. Il pubblico amministratore
convocò il Consiglio Comunale che, dopo accesissimi dibattiti tra la parte
pragmatica e quella idealista dei consiglieri, accettò le condizioni imposte e
mise mano al frontone dell’istituto scolastico sostituendo un obsoleto “Nino
Bixio” con l’illustre nome del nobile benefattore. Si racconta che un certo
Vanni fece un “sit in” di protesta per molti mesi di fronte al Municipio. Con manifesti
scritti a mano ed un megafono contestava l’opportunità di porre il defunto
nobiluomo come esempio per i bambini che entravano a scuola. La motivazione era
ben espressa sul cartellone più grande: “L’unico merito del Bitto è stato quello
di aver trombato come un riccio! Protestiamo! Basta con la prepotenza dei Bitti!”.
Si dice che il contestatore avesse il dente avvelenato in quanto figlio
illegittimo e mai riconosciuto del conte padre. Ovviamente il Vanni non ottenne
altro risultato che quello di essere preso in giro dai compaesani mentre, come
sempre, la forza del denaro vinse ogni resistenza ai voleri della contessa.
In
venticinque anni di vita agreste, la contessa Camilla aveva mantenuto saldi
alcuni fondamentali principi ai quali aveva sempre ispirato la sua esistenza.
Il primo, e più importante, recitava che l’apparenza “fa’” il monaco e che,
cadute le convenzioni della buona educazione e della consapevolezza del ruolo
sociale di ogni individuo, a valanga sarebbero crollati tutti gli altri
capisaldi della civile convivenza. Era quindi convintamente seguace di una
meticolosa cura personale e delle tradizioni che formavano quasi una specie di
corazza nei confronti dalla tanta volgarità portata dai tempi moderni. Uno
degli inevitabili appuntamenti nella sua agenda, era la seduta con la
“coiffeuse” convocata alla Mandragola con regolarità per sistemarle
l’acconciatura che, ispirandosi ad Her Majesty, lontana cugina, voleva fosse
sempre esattamente la stessa.
“Signora
contessa, la trovo bene. Come va’?” I veri nobili disprezzano il Primo Stato
(il Clero) ed il Secondo Stato (l’Aristocrazia non imparentata con loro) mentre
sono spesso vicini al Terzo Stato (il Popolo) che, ritenuto di tutt’altra
razza, è trattato con condiscendente e paternale simpatia. Anche Camilla
pensava che la Kathia, sebbene molto rozza, fosse una brava persona, e poi la
conosceva da quando era ragazzina e, nel suo particolarissimo modo, le era
sinceramente affezionata. “Non vorrai, cara, che ti elenchi i miei acciacchi,
vero? Certamente no. Diciamo che, a parte il 95 per cento della mia persona che
soffre di un insieme di malanni, il restante 5 per cento sta discretamente bene.”
La parrucchiera rimase un istante con la spazzola a mezz’aria cercando di
afferrare il senso di quell’ambigua risposta. “Ti prego – riprese la nobildonna
– di tenerti libera nella prossime due settimane…diciamo a giorni alterni.
Dovrai venire a sistemarmi per essere sempre presentabile nei confronti delle
persone che ho invitato in villa. “Signora contessa, vedrò di accontentarla
spostando gli appuntamenti a bottega. E’ qualche ricorrenza particolare?” “No,
cara, non si deve festeggiare niente, o meglio devo capire alcune cose per
preparare un evento che sarà festeggiato in un futuro che mi auguro non
imminente.” “???” “Ti vedo perplessa. Bene, se vuoi, ti spiegherò.” Questa era
una dote che la Kathia aveva innata. Non si era mai riuscita a spiegare il
motivo per il quale, anche persone con le quali aveva una scarsa confidenza, alla
prima occasione, si aprissero con lei raccontandole i loro problemi. “Quanti
anni pensi che abbia, cara?” Ahi: domanda imbarazzante e pericolosa! La parrucchiera
doveva decidere in fretta se rispondere con un’affermazione compiacente rischiando
di sembrare poco sincera, oppure dire quello che pensava con la possibilità di
offendere la nobildonna sparando un età esagerata. “Non saprei...una settantina
ottimamente portati?” “Ah, ah, ah. Magari, e ti ringrazio per il complimento.
In realtà, nel prossimo agosto, toccherò il poco invidiabile traguardo degli
ottanta. Per questo ho deciso che, prima di allora, devo sistemare tutto quello
che riguarda la mia successione. Vedi, il conte mio padre, come tutti gli avi
prima di lui, non hanno mai fatto testamento, fidando nelle leggi e negli usi
nobiliari per tramandare titoli e proprietà. Anch’io avevo ritenuto di seguire
questo comportamento, ma avvenimenti relativi ai miei figli e notizie sul loro
stile di vita, mi hanno indotto a riflettere su quanto avverrà dopo di me.”
“Sono certa che i suoi discendenti saranno degni del loro nome, signora
contessa.” “Beata te, cara. Io non ne sono affatto sicura, quindi per chiarirmi
le idee ed evitare che l’illustre nome dei Bitto de Censis sia, un domani,
portato indegnamente, ho fatto venire in villa i miei tre figli. Forse saprai
che vivono da molti anni lontano da me. Guglielmo non lo vedo dal Natale del
2011, e Norberto vive a Londra ormai da dieci anni. Solo Eleonora, specialmente
d’estate, passa qui qualche giorno, ma anche con lei mi sento più una lontana
zia che la madre. Quindi, per essere
sicura che il blasone e la terra ricadano sulle giuste spalle, voglio fare
un’ultima verifica. Dopodiché rilascerò al Notaio Clarinetti le mie
disposizioni testamentarie.” “Saggia decisione, signora contessa. Sono certa
che i suoi figli non la deluderanno e che lei sceglierà per il meglio.” “Te l’ho
già detto: sei troppo “certa”, invece io non lo sono per niente.”
II
Una persona
“normale”, al giorno d’oggi, sicuramente non vorrebbe essere proprietaria di un
edificio come la Mandragola. Quanto mai può costare solo di IMU un villone di
venti stanze da letto, sei bagni padronali, quattro saloni di rappresentanza,
oltre ai locali destinati alla servitù, le cucine e gli annessi? La Kathia
avrebbe risposto: uno stonfo! E poi il riscaldamento, la manutenzione e via
dicendo. Più che una proprietà, sembrava essere un aspirapolvere di risorse
pressoché senza limiti. Il patrimonio della contessa era cospicuo, ma qualsiasi
pozzo ha un fondo e, per cercare di raggiungerlo il più tardi possibile,
bisognava essere degli amministratori oculatissimi. Oppure fregarsene e
mangiarsi tutto. Era proprio questa seconda ipotesi che Donna Camilla cercava
di evitare. Ma se, dopo i primi cinque secoli, la casata avesse voluto
sopravvivere almeno per altre cinque generazioni, i capofamiglia si sarebbero
dovuti mostrare all’altezza del gravoso compito.
Guglielmo,
il primogenito, sentiva su di sé tutto il peso delle palle nobiliari e, nei
discorsi a ruota libera di fronte allo specchio del bagno, spesso rimpiangeva
di non essere nato almeno un secolo prima, quando il Signore era padrone nel
vero senso della parola ed ancora sussisteva la deferente sottomissione delle
classi inferiori. Certamente si rendeva conto che meritori istituti come lo “jus
primae noctis” non sarebbero stati accolti con favore dagli abitanti del
contado, ma era convinto che il diritto di nascita lo ponesse al di sopra dei
cafoni, anche se ormai civilizzati. Il naso aquilino che, fiero, caratterizzava
il suo profilo, era sfortunatamente dotato di una sensibilità molto accentuata
e qualsiasi tipo di polline irritava le abbondanti froge provocando starnuti a
ripetizione ed una costante, quanto antiestetica, gocciolina di muco. Per
questo motivo il nobiluomo non gradiva recarsi in campagna ed, anzi, era per
lui una vera e propria tortura mettersi alla mercé di allergeni ed
inflorescenze varie. L’ultima volta era stato alla Mandragola in pieno inverno,
proprio per evitare l’entusiasmo della natura, ma anche la semplice polvere che
si annidava tra i mille e più tomi dell’antica libreria l’aveva fatto piangere
e grattare senza nessuna considerazione per la dignità del suo ruolo. Si era
quindi scusato con la madre, dicendole che per il futuro si sarebbero sentiti o
scritti, ma non intendeva rimettere piede in Maremma. Adesso era stato
convocato con un telegramma nel quale si diceva testualmente: “Vieni
immediatamente per importanti motivi che riguardano la successione nel titolo.
Ti aspetto. Tua madre.” Non poteva mancare all’appello della genitrice, sia per
obbedienza che per interesse.
“Si potrà
dire di tutto su come viene tenuta questa casa, ma bisogna riconoscere al
nostro vecchio Oreste che rifornisce il bar con grande sapienza e gusto” Il
maggiordomo, ai giorni nostri anche autista, cameriere, giardiniere,
elettricista, guardiano ed altro, compiaciuto dalle parole del signorino Guglielmo
ne rabboccò il bicchiere con una generosa dose di bourbon Balton’s riserva
speciale. “Mi fa piacere trovare riunita la famiglia.” Da uno dei divani che
arredavano la grande living room, si levò una nuvoletta di fumo azzurrino
molto, in maniera sospetta, aromatico. “Non dire cazzate. Non ci vediamo quasi mai
e se fossi morta in Nepal non lo avresti neanche saputo.” L’affermazione, dal
tono sarcastico e divertito, veniva da una ragazza di circa trent’anni vestita
come una hippy anni ’60 e con una massa di capelli rossi e crespi che ben si
accordavano con il verde intenso di due grandi e ironici occhi verdi. Eleonora
aveva lasciato casa da quando aveva sedici anni. Lei raccontava che era
scappata, ma non era vero. Aveva semplicemente detto alla madre che voleva
rendersi indipendente aspettandosi che la genitrice andasse in escandescenze
negandole la libertà. In questo modo lei avrebbe potuto contestare, protestare,
ribellarsi e quindi fuggire via, con la massima soddisfazione. Invece Donna
Camilla le aveva augurato buona fortuna dandole, come viatico, una carta
American Express Black con plafond illimitato che, disse, sarebbe stata per lei
il migliore accompagnatore. La ragazza ne fu quasi risentita e prese la
capitalistica tessera con una smorfia schifata e solo per non discutere con la
madre. Voleva buttarla appena uscita, ma non era stupida e, con un po’ di
ribrezzo, la mise nel portafoglio tra una bustina di erba e un biglietto del
tram mai usato, per poi tirarla fuori periodicamente, ma sempre con manifesta
insofferenza. Per i primi cinque, sei anni non perdonò alla madre di averla
offesa non riconoscendo il suo spirito libero e anticapitalista, poi con la
maturità si rese conto di quante volte quel tesserino le avesse risolto tanti
problemi e rivalutò l’intelligenza della genitrice che non frenandola e
fornendole un paracadute per gli inciampi della vita, le aveva dimostrato,
forse, nella sua maniera, anche amore. “Se vuoi ti dico che fa piacere anche a
me rivederti – continuò Eleonora – e alimentiamo così questa fiera
dell’ipocrisia” “Adesso sì che mi sento a casa! - L’esclamazione veniva dal nuovo arrivato
nella stanza – Una manifestazione di amore fraterno è esattamente quello che mi
aspettavo ritrovando i miei cari parenti.” Norberto Bitto de Censis, con queste
parole, si fece avanti nel salone levando un immaginario pilucco
dall’immacolata giacca da smoking abbinata con un paio di jeans dal taglio
perfetto. Era di poco più giovane di Eleonora e, a dispetto delle apparenze da
dandy, aveva studiato con ottimo profitto nelle migliori università americane
riuscendo ad entrare nella ristretta élite dei rampanti financial manager a
livello internazionale. Di bella presenza, e con una eleganza innata che era il
miglior biglietto da visita per inserirlo nell’upper class, risiedeva già da
anni a Londra lavorando come broker per conto proprio e per un ristretto e
selezionatissimo portafoglio di danarosi clienti. Anche per lui le radici familiari
erano importanti e si era preso qualche giorno di vacanza per tornare alla
Mandragola. “Allora, cari fratelli – in qualità di primogenito Guglielmo si
riteneva in dovere di prendere la guida della conversazione – siamo qui riuniti
per volere di nostra madre. Qualcuno di voi conosce la ragione esatta di tanta
urgenza?” “Io no di certo. – rispose Eleonora – Ho ricevuto una email, firmata
da Oreste, che parlava di importanti questioni di famiglia. Vi dirò, che
siccome è stata l’unica volta che mia madre, sia pure per interposta persona,
mi ha chiesto di tornare, mi sono anche preoccupata. Ho pensato stesse male e
ci volesse dare l’ultimo saluto. Ma ieri l’ho vista e mi è sembrata la solita
vecchia roccia, non c’è da aver paura che abbia intenzione di lasciarci.” “Per
ciò che mi riguarda, – disse Norberto – sempre da Oreste, ho ricevuto una
telefonata. Col tono lugubre da becchino che lo contraddistingue, mi ha detto
testualmente che la signora contessa aveva convocato tutti i suoi figli in
villa e che quindi non potevo mancare. Gli chiesi il perché di tale invito, e
il “Lurch” maremmano – ricordate, vero, il maggiordomo della famiglia Addams? -
rispose che lui era solo al corrente della massima importanza che la padrona
aveva detto di comunicarmi. Quindi sono curiosissimo.” Eleonora si fece avanti
reclamando dal maggiordomo un’altra dose di whisky. “Versa, Oreste, che il
soggiorno in villa promette di essere interessante. Anche se ritrovarmi in
questa casona, perlopiù disabitata, mi mette molta ansia. Se fosse per me la
venderei subito e con il ricavato aprirei un ashram per Yogi Sunito.” “Se ti interessa io sarei d’accordo a
vendere. – disse Norberto – Anzi, vi dirò che qualche tempo fa, a Londra, fui
avvicinato da un mediatore immobiliare che evidentemente conosceva il mio nome
e la proprietà. Mi disse che parlava per conto di un investitore che aveva
intenzione di mettere su un agriturismo a cinque stelle in Toscana e che la
Mandragola avrebbe fatto al caso suo. Per curiosità gli chiesi fino a che cifra
sarebbe potuto arrivare per l’acquisto. Beh, non ve la riferisco altrimenti vi
precipitate al telefono. Vi basti sapere che si trattava di milioni di euro, e
non pochi. Non vi nascondo che, all’epoca, ne parlai con la mamma, ma lei mi
rispose quasi offesa dicendo che la villa non si toccava. Peccato, ma cercherò
di farle cambiare idea.” La collera di Guglielmo montava sentendo i discorsi di
quei degeneri rampolli della sua nobile famiglia. “Ma come fate a parlare così
del luogo che ha visto le gesta e la storia di generazioni di nostri avi fin
dal diciassettesimo secolo? Non vi vergognate a cercare solo il danaro? Io sono
assolutamente d’accordo con la contessa nostra madre. La Mandragola non è in
vendita!” “Non ti scaldare tanto, sono
solo mattoni e terra. Comunque fintanto che ci abita mamma, la questione non si
pone.” Norberto non aveva intenzione di litigare, almeno non in quel momento. “Bene,
- concluse Guglielmo quasi redigendo a parole il verbale dell’incontro – riguardo
al motivo di questa riunione di famiglia, siamo tutti all’oscuro. Non ci resta
che aspettare, probabilmente stasera a cena, quando speriamo che la genitrice
ci illumini.” I tre continuarono a parlare ancora per qualche tempo in maniera
lieve e superficiale per non toccare altri argomenti che avrebbero potuto
essere d’attrito. Oreste versò ancora un goccio per ognuno del profumato
liquore e poi, chiedendo il permesso, si ritirò per prepararsi alla serata.
III
In occasione
della specialissima riunione, Donna Camilla aveva comandato di preparare la
cena nella sala da pranzo “cinese”. Questa era la terza, e più grande, stanza
da ricevimento che aveva preso il nome dalla tappezzeria a motivi
orientaleggianti di colore vinaccio su fondo giallino che avrebbero potuto
sembrare inadeguati per arredare parte di un casa di campagna, ma proprio
questa inaspettata eccentricità conferiva un tocco di eleganza al locale.
Ovviamente erano stati lucidati gli argenti, era stato disposto sulla tovaglia
ricamata il servizio in porcellana e oro con l’emblema della casata e, come
tocco finale, la contessa aveva ordinato di non accendere la luce elettrica, ma
porre al centro tavola un grande candeliere posizionandone altri tutt’intorno,
in modo di avere solo la luce delle candele a rischiarare l’ambiente. Copiando
un’usanza notata in occasione delle visite presso i cugini inglesi, alle otto e
trenta in punto, il perentorio richiamo di un gong rimbombò in ogni angolo della
villa avvisando i commensali di prendere posto per la cena.
I tre
“ragazzi” erano già seduti quando, al braccio di Oreste che la sorreggeva, la
contessa Camilla prese posto a capotavola.
“Amatissimi,
da quanto tempo era che non ci ritrovavamo tutti insieme? Questo è il regalo
più grande che una madre possa chiedere: stare con i propri figli. Guglielmo,
sembri un po’ ingrassato. E tu, Norberto, hai l’aria di uno di quei, come si
chiamano…preppy londinesi. E tu, Ciuccia, finalmente donna e, se non sbaglio,
quello che indossi è un Balenciaga al posto dei gonnelloni da contestatrice che
ti mettevi qualche anno fa. Sono proprio contenta di vedervi tutti bene.”
“Anche noi, mamma, ti vediamo in gran forma, anche se, non possiamo
nasconderlo, siamo molto curiosi di sapere il motivo di questa inaspettata
quanto urgente convocazione alla villa.” Guglielmo riteneva le smancerie, anche
quelle filiali, assolutamente poco dignitose, e per evitare di cadere in
melense affettuosità, portò subito il discorso al nocciolo della questione.
“Tutto a suo tempo, caro – rispose la contessa – capisco la vostra curiosità,
ma dovrete avere un po’ di pazienza.” “Sai mamma, come ti ho scritto tempo fa,
sono diventata ambasciatrice della International Charity Organization for
Children Refugees e non mi posso permettere di stare tanto tempo lontana da New
Delhi lasciando tutto in mano ai miei collaboratori. Per questo ti pregherei di
dirci perché siamo tutti qui insieme anche se non ci sono feste comandate ad
imporlo. A proposito, fammi il piacere di non chiamarmi “Ciuccia”, ormai ho
quasi trent’anni ed alla mia età le donne indi sono già nonne.” “Ah, ah, ah.
Potrai diventare nonna, bisnonna o quello che vuoi, io ti vedrò sempre con il
volto corrucciato e con il dito in bocca. Ti ricordi? Quando ti chiedevo: “Eleonora,
cosa stai facendo?” Tu mi rispondevi: “Ciuccia!” E quel nomignolo, per me, sarà
sempre il nome che ti sei scelta da sola. Comunque, se proprio devo, posso
anche appellarti come sei stata battezzata: Eleonora, Brigida, Elisabeth,
Maria, ma mi sembra scomodo.” La contessa si stava godendo ogni momento di
quell’eccezionale convivio. “Dai, mamma. Non credo che ci hai fatti precipitare
nel cuore della Maremma senza una valida ragione. Anch’io ti chiedo di non
rimanere nel vago. Ti prometto che, se fai la brava, mi fermo per una settimana
e ti porto alle Terme di Saturnia, come facevamo tanto tempo fa.” Norberto
aveva sempre saputo come prendere la madre e quest’impegno, oltre alle
richieste degli altri figli, fecero cambiare idea alla anziana genitrice.
“Ebbene, avrei voluto tirarla un po’ per le lunghe solo per il piacere di
avervi vicino, ma capisco le vostre ragioni e quindi ecco come stanno le cose.”
Donna Camilla prese il bicchiere e si inumidì le labbra con il Vermentino annacquato
che accompagnava le sue cene. Si deterse con il tovagliolo e, lentamente, posò
entrambe le mani sulla tavola, restando con gli occhi bassi, per concentrarsi
su come incominciare il discorso. Dopo qualche interminabile minuto di
silenzio, mentre Norberto già pensava che la vecchia si fosse assopita in
quella scomoda posizione, con un colpo di tosse, la contessa cominciò. “La
nostra casata non è stata sempre rappresentata per il meglio. Vostro padre era
un puttaniere e non ha mai lavorato un giorno in vita sua, suo padre scampò la
guerra imboscandosi in Vaticano come assistete al Soglio Pontificio e potrei
continuare ricordando più ladri, intrallazzatori e parassiti tra i nostri avi
che degne persone. Ma erano altri tempi. Alla nobiltà veniva perdonato quasi
tutto e bastava essere fedeli al sovrano di turno per godere di impunità e
privilegi. Oggi, purtroppo o per fortuna, non è più così. Non dico che siamo
perseguitati dai comunisti, ma se vogliamo mantenere quello che abbiamo,
dobbiamo saperci comportare. Tra poco compirò ottant’anni e, prima di essere
del tutto preda della demenza senile, voglio capire chi tra di voi sia il più
adatto ad indossare le armi dei Bitto de Censis.” “Ma… - si inalberò subito
Gugliemo - io sono…” “Lo so: il primogenito.
Quindi, teoricamente, dovrebbe passare tutto a te, ma…” La contessa si voltò
verso il maggiordomo. “Oreste vada in cucina con il resto della servitù. La
chiamerò io quando sarà necessario.” I quattro seduti aspettarono che gli
estranei fossero usciti dalla sala da pranzo, dopodiché tre paia d’occhi si
puntarono verso la capotavola. “Ma, dicevo, mi sono giunte voci a proposito
della tua omosessualità. Intendiamoci: niente di male. Il tuo trisavolo si
faceva tutti i contadinotti del contado. Il punto è che va tutto bene tra
adulti consenzienti, mentre c’è un rapporto della buoncostume che…devo
continuare?” “Sono falsità! Sbagli di gioventù, e poi…insomma, ecco…” “Non ti
giustificare, caro. Non mi interessa come vivi la tua vita privata, però non
voglio che uno scandalo infanghi il nostro nome.” “Si, ma non puoi escludermi o
retrocedermi nella linea di successione. Mi sono informato.” “Giustissimo, ma
ti posso disconoscere moralmente, indicare uno dei tuoi fratelli come il nuovo
capo della Casa e non fornirti di nessuna risorsa materiale. Così, forse,
avresti solo un titolo vuoto di sostanza.” Guglielmo sembrava boccheggiare, con
gli occhi fuori dalle orbite, non trovando le parole per ribattere e sgomento
di fronte ad una prospettiva alla quale non aveva mai neanche lontanamente
pensato. “Non ti agitare adesso. Non ho detto che farò così, anche perché pure
i tuoi fratelli…” Era il turno degli altri due, adesso, di stare sui carboni
ardenti. Norberto: “Mamma che vuoi dire?” “Ohh mio cuore, io sono anziana e
relegata in campagna, ma non sono stupida ed ho tanti amici. Qualcuno mi ha
riferito che sei scampato per un soffio all’incriminazione per appropriazione
indebita ed insider trading riguardo allo scandalo Exxon Oil dell’anno scorso.
Ti sei mai chiesto perché hanno ritirato la denuncia nei tuoi confronti e come
mai l’Emiro è sembrato rinunciare ai due milioni di euro che gli erano stati
sottratti? Beh, non te l’ho mai detto, ma t’ho fatto un regalo che, nella
stessa maniera dell’apparato Beghelli di cui sto testando la validità, per te è
stato un “salvavita”. Ma non te lo rinfaccio. Solo che, se questo è il tuo modo
di agire, vedo le nostre proprietà molto a rischio.” “Ah, ah, ah. Mamma sei
grande! – Norberto era divertito dalla sagacia della contessa che sembrava
fuori dal mondo ed invece ne sapeva più di tutti. – “Adesso tocca a Eleonora.” “La
mia Ciucc…scusa, Eleonora. Drogata. Dentro e fuori dai migliori rehab americani
per così tante volte che le potrebbero darle le chiavi dei portoni. Anche qui,
nessun giudizio morale, ma quale grado di affidabilità?” “Che palle! Sempre la
stessa: non ti sembra vero di rimproverarmi! Sono padrona della mia vita, non
devo rendere conto a nessuno!” “Certamente, - disse serafica la contessa – a
nessuno tranne ai tuoi discendenti che hanno diritto a godere degli stessi
privilegi dei quali tu hai approfittato.” Dopo tanto clamore, una tregua scese
sulla tavola e, per riprendere fiato, Guglielmo versò a tutti un’abbondate dose
di Porto che fu sorseggiata in un silenzio gravido di pensieri inespressi. “Comunque,
ora sono stanca, dormiamoci su. Domani continueremo la conversazione che
contribuirà a schiarirmi le idee ed a guidarmi nella decisione per la
sistemazione dell’asse ereditario. Sono certa che quello che ne uscirà sarà sicuramente
per il meglio. Auguro a tutti, adorati, una serena notte.” Con queste parole,
la nobildonna scrollò il campanello sulla tavola e, pronto al richiamo, il
maggiordomo entrò nella sala per offrire il suo braccio alla padrona. Con
qualche sbuffo e rivolgendo un ultimo sorriso ai figli, donna Camilla si
diresse verso le sue stanze. Negli occhi brillava un lampo di sardonica
soddisfazione, o forse di divertimento, per aver messo in imbarazzo i ragazzi.
L’eco dei suoi passi si spense sullo scalone di legno verso il piano nobile, e
nella villa tornò la quiete. Quella notte la contessa morì.
IV
“Oh
gesùgiuseppemmaria!” Era il momento della pausa di metà mattinata e la Kathia
stava seduta sulla panchina fuori dal suo negozio a sfogliare “Il Tirreno”. “Maremma
bucaiola, ma cos’è successo? Che titolo è questo?” Sul quotidiano, in terza
pagina, campeggiava il seguente strillo: “Misteriosa morte della contessa Bitto
de Censis. La nobildonna è stata trovata soffocata nel suo letto. La polizia
brancola nel buio.” La parrucchiera non poteva credere che la vecchia signora
fosse deceduta. E poi si sottintendeva che non si trattasse di morte naturale,
ma addirittura di omicidio. “Antonella! Vieni qui e senti un po’. – doveva
condividere il suo sgomento con qualcuno. – La signora contessa: morta
ammazzata! E la polizia brancola.” Conosciamo la giovane apprendista, non era
un tipo compassionevole o facilmente impressionabile. “Evvabbè, la sua vita
l’ha fatta. Ha finito di soffrire, anche se non credo che poi patisse troppo. A
proposito, tu che leggi tanto e sai il significato delle parole, spiegami
perché il verbo “brancolare” si usa sempre e solo per la polizia. Vuol dire che
quando le forze dell’ordine si muovono insieme lo fanno come un “branco” di
bufali…brancolano? E se si spostassero come un “gregge” di pecore, greggiolerebbero?
Oppure una “mandria” di buoi, màndriolerebbero?” “Te l’ho già detto: sei
grulla, ma grulla tanto. Ti pare il momento di scherzare di fronte alla
scomparsa di quella povera donna?” “Poveraaa?” “Oh, non ricominciare! Vattene
dentro al negozio e spazza il pavimento. Va’!” La Kathia era veramente turbata.
Nel corso degli anni si era affezionata alla contessa che con lei era stata
sempre gentile. Quando si sposò con Vittorio le fece in dono una lavatrice
tedesca, della marca più cara, che ancora funzionava. E poi non c’era Natale
che non facesse recapitare al negozio un cesto con l’olio e le marmellate del
podere accompagnate da un bel biglietto di auguri: una gentilezza che denotava
nobiltà d’animo oltre che di blasone. Chi poteva aver voluto la morte della
nobildonna? Sicuramente c’erano di mezzo bei soldoni, ma la contessa era
anziana e piena di acciacchi, colui che avesse tratto beneficio da un simile
avvenimento avrebbe potuto avere la pazienza di aspettare che la natura facesse
il suo corso in un tempo sicuramente non lungo. La parrucchiera doveva capire.
Come le avevano insegnato tutti i gialli letti avidamente, la prima domanda che
un investigatore si pone di fronte ad un delitto è: “Cui prodest?” ovvero a chi
giova e, di conseguenza, chi potrebbe essere l’assassino? La Kathia andava, da
anni, regolarmente in villa a prestare la sua opera professionale e scambiare
qualche parola con la vecchia signora, ma non poteva affermare di conoscerla
veramente. Nonostante ciò aveva sempre avuto l’impressione che la sua vita
scorresse con una tranquilla regolarità, scandita da immutate abitudini e
frequentazioni, senza alcun particolare affanno. Anche in paese si parlava bene
di lei che non mancava mai di dare il proprio sostegno a opere benefiche ed a
persone in difficoltà. Insomma, certamente non una santa, ma benvoluta e
rispettata da tutti. Il movente più probabile rimaneva quello legato al maledetto
“sterco del diavolo”: i soldi. In questo caso l’indice puntava dritto in una
direzione. Se era vero che, come la contessa le aveva confidato in uno degli
ultimi incontri, la signora non aveva redatto ancora nessun testamento, secondo
la legge il titolo, accompagnato da una fetta di patrimonio, sarebbe passato al
figlio Guglielmo, gli altri due ne avrebbero avuto i restanti due terzi mentre
la Mandragola sarebbe rimasta al primogenito, come d’uso nelle successioni
nobiliari. Almeno così credeva la Kathia, che non era certo esperta in tali
questioni, ma siccome aveva aiutato un tempo il cugino a ripassare l’esame di
Diritto Privato per l’università, qualcosa le era rimasto appiccicato in testa.
Quindi il sospettato numero uno era il figlio maggiore, primo perché, come
diceva la parrucchiera, sembrava un pesce lesso e non dimostrava molto affetto
nei confronti della madre, e poi perché la somma tra titolo, villa e soldi
significava un bel malloppo. Bisognava che si informasse meglio.
“No, lui
l’abbiamo escluso subito.” In un piccolo paese si conoscono tutti e se la
parrucchiera che taglia i capelli è una bella donna ed il maresciallo al quale
viene fornito il servizio è un simpatico giovane uomo di Torre del Greco che si
ritiene un Don Giovanni, tra i due non può non nascere una
simpatia…innocentissima simpatia. La Kathia aveva fatto finta di incrociare per
caso il carabiniere e, siccome era quasi l’ora di pranzo, aveva colto
l’occasione per invitarlo a prendere un aperitivo seduti al bar di fronte
all’edicola. Ovviamente il secondo fine era quello di estorcere, garbatamente,
delle informazioni all’investigatore. “Guglielmo non può essere stato. - Confermò
il militare. – Quella sera, a cena, si era sciarriato (aveva avuto una sorta di
screzio) con la contessa. Ne era rimasto ‘ndruvuluso e nervuso (turbato e nervoso)
e, non avendo alcuna voglia di andarsi a cuccàre (andare a letto), era subito trasito
(uscito) di casa per andare in un bar di Orbetello per bere qualcosa. Che poi
tale locale risulti frequentato da femminielli ed il conte si sia voluto
distrarre in diversa maniera, questo all’Arma non ci interessa. Conta che la
sua presenza lontano dalla Mandragola sia testimoniata da molte persone fino
alla mattina successiva, quando la madre era già deceduta.” “Ma com’è morta
esattamente la contessa?” “La morte è sopravvenuta per soffocamento causato da
un cuscino premuto sul volto.” “Povera donna!” “Certamente deve aver lottato.
Tra i denti abbiamo rinvenuto un pezzetto di stoffa di cotone bianco.” “L’avrà
strappato dal cuscino.” “No, questo è curiuso: le federe e le lenzuola del
letto erano di lino, non di cotone. Chissà da dove viene quella stoffa, forse
da un fazzoletto.” “Bah, comunque, tornando ai sospettati, non rimane che
prendere in considerazione gli altri due figli, che comunque riceveranno parte
dell’eredità.” Sorseggiando un Crodino, la donna era intenzionata a farsi un
quadro completo della situazione. “Beh, non è così semplice. In realtà nessuno
dei fratelli ha un alibi, perché sostengono di essere andati nelle rispettive
camere dopo la cena, ma è anche vero che non abbiamo riscontrato nessun indizio
sulla scena del crimine che possa ricollegarsi ad uno dei due. Anche il movente
economico è poco plausibile nei loro confronti, Norberto risulta chieno e’
dinare (pieno di soldi) derivanti dalle sue speculazioni finanziarie, ed
Eleonora pare sia diventata una specie di…non si può chiamare suora, diciamo
seguace di una setta induista che predica la povertà.” “Mhhh, - la parrucchiera
non era convinta – i soldi non fanno schifo a nessuno. Però capisco che il
movente per commettere un omicidio deve essere molto forte e bisogna trovare
delle prove valide per incriminare qualcuno.” “Esattamente, e
quindi…brancoliamo nel buio.” “Non usare quel verbo!” “?” “Brancolare. Ho avuto
una discussione con l’Antonella che poi ti dirò. Comunque, allora come vi state
muovendo?” “Ehhh…ci stiamo muovendo. Le indagini proseguono.” Kathia si innervosì:
“Ecco un’altra bella frase fatta che non significa niente. Ti saluto maresciallo,
vieni a darti una spuntatina ai riccioletti che ti cadono sul colletto. Non è
dignitoso per un rappresentatane della Benemerita.” Con queste parole, ed un
cenno della mano, la parrucchiera risalì sulla sua Panda 4X4 e tornò al lavoro.
V
Ci mancava
pure la Kathia che gli mettese pressione. Era ciaccona e sfruculiusa, ma anche
afosa assai. Antonio Viglietti, maresciallo reggente la Stazione di Capalbio,
competente per territorio nelle indagini sul delitto Bitto, quando prese
servizio nella piccola caserma, in uno dei borghi più suggestivi della bassa
Maremma, aveva creduto di essere destinato, se non proprio ad una vacanza
costante, almeno ad un tranquillo lavoro di rutine. Niente a che vedere con il
precedente incarico in un paesino della costiera napoletana tra camorra, omertà
e diffidenza per le forze dell’ordine. Non è vero che “Basta che ce stà o’
sole, che c’è rimast o’ mare, na nenna a core a core…”, di nenne (ragazze) non
ne mancavano, il sole ed il mare andavano bene, ma l’atmosfera era pesante e
lavorare in quel contesto difficilissimo. Comandato in Toscana, tra uliveti e
le spiagge non distanti, il maresciallo aveva cambiato vita. Anche la gente risultava
simpatica, cordiale ed all’apparenza aperta, anche se tra confidenza ed
amicizia il passo è lungo. I crimini erano perlopiù contro il patrimonio e,
nella quasi totalità dei casi, commessi da extra comunitari spesso clandestini.
A volte sfociavano nella violenza, ma era sempre abbastanza facile risalire al
delinquente o quantomeno indirizzare le indagini nel verso giusto. Il caso
della contessa era diverso, qui si richiedeva una competenza investigativa vera
e propria. Partendo dal fatto, bisognava interrogare, capire i collegamenti,
trovare le prove e, possibilmente, individuare il colpevole.
“Dunque,
ricominciamo.” Nell’ufficio in caserma, scomodamente seduto su una seggiolina
di formica e acciaio, Norberto Bitto subiva, da ormai quasi tre ore, la
ripetitiva raffica di domande del maresciallo. “Io, egregio signore, non ho
fretta. – l’investigatore si era preparato una sorta di scaletta con tutti gli
interrogativi che sperava di farsi chiarire dall’indagato – Le analisi
dell’anatomopatologo hanno stabilito che la signora contessa è stata soffocata
con un cuscino e che la morte si può collocare tra le ore una e le tre del
mattino. Lei conferma che a quell’ora si trovava nella sua camera?”
“Sissignore, è la quarta volta che glielo dico.” “E l’aggia a sentì ancora per
un’altra migliara! Fino a che non mi convincerete.” Con la stanchezza usciva
fuori dal Viglietti tutto il suo coté napoletano. “Cosa debbo fare per farmi
credere? Le ho detto tutto quello che mi ricordo di quella maledetta notte.”
“Va bene, prendiamola da un altro verso. A volte, nel dormiveglia, non si è
pienamente consapevoli, ma si avvertono cose che al momento non si capiscono e
non si ricordano, ma rimangono sepolte nel subcosciente. E’ possibile nel suo
caso?” Norberto fece un gesto d’impazienza. “Macchè, io dormo come un sasso.
Non ho visto né senti…- l’uomo interruppe la frase a metà e si raddrizzò sulla
sedia con gli occhi sbarrati, come se all’improvviso avesse avuto una visione.
“Aspetti un secondo. Ecco, mi sembra…” “Vada avanti.” “Proprio mentre scivolavo
nel sonno, mi sembra di ricordare che sentii un rumore proveniente
dall’esterno. No so come descriverlo…era come se sulla ghiaia del cortile
passasse un carro facendo il tipico rumore di sassi schiacciati e stridio di
legno.” “Interessante.” “Badi maresciallo, non ne sono affatto certo. Mi è
tornato in mente, ma potrebbe essere stata solo una sensazione o addirittura un
sogno.” “Non si preoccupi. Le forze investigative sapranno vagliare
l’informazione.” Il militare era soddisfatto di aver tirato fuori quest’altro
elemento per le indagini, anche se tutt’intorno alla Mandragola erano stati
fatti i rilevamenti del caso senza trovare tracce significative. Però non si
poteva mai sapere, e magari quello che sembrava uno scenario interno alla villa
poteva invece aprirsi verso possibilità esterne. Avrebbe verificato.
Intanto
Eleonora, limitata nei suoi spostamenti per ordine dei carabinieri, scalpitava
in villa facendo mille telefonate, girando per tutta casa e non dando pace al
personale di servizio con innumerevoli continue richieste. Il suo spirito
libero non poteva sopportare di subire una costrizione che restringesse i
propri spazi, anche se imposta dall’autorità che, nelle imprecazioni della
giovane donna, veniva appellata con ogni tipo di offensivo epiteto, da “polizia
fascista” a “bastard pigs” fino a parole anche più pesanti che evitiamo di
riportare. Con il cellulare incollato all’orecchio, urlava parlando con
qualcuno: “Non è possibile. Non hanno uno straccio di cavolo di motivo per
tenermi qui. Devo, dico DEVO, andare. Il giorno successivo alla prima notte di
luna piena nel mese di Phalgun, mi aspettano per la Festa dell’Holi a Jaipur
nel Rajastan. Sono la madrina della manifestazione per il quarto anno
consecutivo e non posso non andarci…..Certo che mi dispiace, ma cosa ci posso
fare ormai? Tu che faresti al posto mio?.....No, assolutamente no! Lo facesse
Guglielmo o Norberto, io no!......Va bene, sto calma. Però non è giusto: non so
niente, ho detto tutto e poi non sopporto più quel cafone del poliziotto…..o.k.,
carabiniere…..Almeno avessi della buona erba!.....Non sono più libera neanche
di dire quello che voglio in casa mia?....Ho capito, al telefono è meglio di
no. Va bene, basta, vado a lavarmi i capelli, ciao…..Anzi andrò proprio dalla
parrucchiera della mamma che mi diceva fosse tanto brava. Poi ti dico, ciao!”
Nella sua
camera, alla Mandragola, Guglielmo si riposava nel letto fantasticando ad occhi
aperti ed assaporando la sensazione, da tanto aspettata, di essere il nuovo
conte Bitto de’ Censis. La prima cosa da fare sarebbe stata risistemare la
villa restaurando la facciata con lo scudo araldico sopra al portone, poi avrebbe
dato disposizione che il cancello della proprietà fosse aggiustato e rimanesse
sempre chiuso, mentre da subito avrebbe ripristinato la divisa in polpe per la
servitù che gli sembrava troppo sciatta e spesso fiacca. Gli dispiaceva per la
vecchia madre, ma morto un Papa…così è la vita. Certo era alquanto imbarazzante
che si parlasse di delitto per soffocamento, ma il neo titolato pensava di
comportarsi come tutti i suoi avi prima di lui. Sarebbe andato dal maresciallo,
o forse da un generale a Roma, e avrebbe fatto una lauta donazione per gli
orfani dell’Arma a patto che si mettesse tutto a tacere. In fondo l’eventuale,
supposto, teorico, assassino non aveva fatto altro che accelerare un po’ la
natura togliendo gli ultimi affanni ad una vecchia. Si sarebbe anche potuto
dire che era quasi un’opera buona. Avrebbe sistemato tutto senza clamore e con
la signorilità propria del suo rango.
VI
“Ho deciso.
Voglio fare un confronto con tutti i e tre i sospettati del delitto. Per
metterli il più possibile a loro agio, ho fatto in modo che il conte Guglielmo
mi invitasse per un tè alla Mandragola insieme ai fratelli. Mi serve un
testimone ma, per non allarmare i convitati, non voglio portare con me
l’appuntato. Ci vuoi venire tu?” Questo invito, rivolto dal maresciallo
Viglietti alla Kathia, era quanto di meglio la parrucchiera si potesse
aspettare. Da quando era successo l’omicidio, la parrucchiera aveva letto tutti
gli articoli sui giornali, ne aveva discusso con le amiche, si era persino
recata alla villa per cercare di sapere ulteriori notizie dal personale di
servizio, ma non era riuscita a trovare nessuna giustificazione per una morte
che le sembrava tanto inutile quanto crudele.
La possibilità di assistere in prima persona ad una fase tanto
importante delle indagini, le sembrava una fortuna insperata, anche se pensava
che quell’incontro non sarebbe stato di certo risolutore. “Certamente. Hai
fatto bene a chiedermelo. Vedrai starò zitta, attentissima e mi ricorderò ogni
cosa. Non avresti potuto trovare un teste maggiorente affidabile di me, non te
ne pentirai.” “Speriamo” Pensò, ma non disse, il maresciallo.
Alle cinque
di pomeriggio di un caldo giorno di prim’estate, nel salotto piccolo di villa
“La Mandragola” si ritrovarono i tre eredi della Casata Bitto de Censis, un
rappresentante delle forze dell’ordine ed una figura del tutto fuori posto
nella persona della Kathia, parrucchiera per signora e per uomo. Come padrone
di casa, anche se per il momento ancora non in maniera ufficiale, il conte
Guglielmo fece accomodare gli ospiti nelle due poltrone accanto al tavolino,
mentre, insieme con i fratelli, prese posto sull’ampio divano di fronte a loro.
“Allora maresciallo, ancora una riunione, un interrogatorio, dovrebbe esserle
ormai chiaro che noi non c’entriamo con la morte di nostra madre.” “Eppure –
rispose, senza tanti convenevoli, il militare – la contessa è stata brutalmente
uccisa. Qualcuno deve essere stato e, se eliminiamo la possibilità di un
intervento esterno per il quale non abbiamo alcun indizio, il colpevole deve
aver agito dentro le mura della villa.” “Sciocchezze – intervenne Norberto – Come
fate ad escludere qualsiasi possibile varco? In un edificio così grande ci sono
decine di possibili entrate. Chessò, dal tetto o dalle cantine, forse un
fornitore che si è nascosto dentro casa durante il giorno e poi ha agito con il
calare delle tenebre, ci sono tante possibilità.” “Vero, - il Viglietti le
aveva considerate tutte – ma, a parte che non se ne è trovata traccia, per un
estrano mancherebbe comunque il movente.” “Se è per questo, a New Delhi si
uccide per una manciata di rupie o anche solo per odio di casta.” “Gentile
signora Eleonora, le ricordo che non siamo nel continente indiano e che da noi
i morti ammazzati devono trovare giustizia.” “Maresciallo, la prego, di non
essere tanto crudo nelle sue espressioni. L’ho invitata per cortesia, perché
vogliamo essere utili alle indagini, e perché nessuno di noi ha niente da
nascondere, ma la prego di mantenere un tono di adeguato rispetto innanzitutto
nei confronti della memoria della contessa defunta.” Per Guglielmo ogni invito
era un’occasione di mondanità che doveva sottostare alle precise regole della
creanza. Kathia, affondata nella poltrona a fiori assisteva a questo scambio di
battute con interesse. Le sembrava di vedere un cacciatore nella savana che
cerca di fare sua una preda, ma questa, insieme ai compagni di branco, gli gira
attorno confondendolo e deridendolo. Così il povero Viglietti sembrava non
avere alcuna chance nella schermaglia dialettica con i giovani nobili ed ad
ogni domanda, invece di far breccia verso una rivelazione, pareva si scontrasse
contro un muro che tendeva a nascondere, e quasi a negare, l’accaduto. “Prima
di rispondere alle sue ulteriori eventuali domande, caro maresciallo,
concediamoci una buona tazza di tè. – disse Guglielmo – Oreste, servi gli
ospiti.” “Si, signor conte.” Il maggiordomo si avvicinò ad una consolle sulla
quale erano state poste le tazze e la teiera e, di spalle, versò il liquido
fumante. Si voltò quindi verso l’ospite donna, che doveva essere la prima ad
essere servita e, perfetto nella sua divisa nera con i guanti bianchi, porse la
tazza alla Kathia. “Signora, zucchero o latte?” “Niente, grazie.” La donna
soffiò per un momento sul tè e poi…si immobilizzò. “Fermi tutti – esclamò
d’improvviso – ho capito!” Gli altri la fissarono come se fosse impazzita. “I
guanti. I guanti di Oreste. Guardate i guanti di Oreste, su un dito manca un
pezzetto di stoffa. Scommetto che è quella che è stata ritrovata tra i denti
della contessa.” Il maggiordomo lanciò un urlo e lasciò cadere la tazza che
reggeva in mano. Crollò sulle ginocchia, a testa bassa, e cominciò a dondolare il
capo ripetendo “Non volevo, non volevo…” come una triste nenia che valeva più
di una confessione.
EPILOGO
“Se non
l’avessi notato tu…” Il maresciallo Viglietti festeggiava la chiusura del caso
con la Kathia, degustando un’enorme bicchiere di granita di caffè con panna,
seduti ad un tavolino sulla terrazza del “Frigidaire” di fonte al mare che,
proprio in quel momento, mandava in scena la sua più bella rappresentazione di
uno spettacolare tramonto. “Oh, beh, chissà? Certo è strano che Oreste non
abbia rammendato quel guanto che donna Camilla aveva morso nel tentativo di
difendersi dalle mani che volevano soffocarla. Forse non aveva messo quel paio
dalla sera dell’omicidio oppure, come succede a molti delinquenti, aveva
rimosso quel particolare e non aveva dato peso al guanto rotto. Non so. Certo
che non appena ha realizzato che quel minimo pezzettino di stoffa rappresentava
la sua inequivocabile condanna, è crollato subito ed ha confessato ogni cosa.
Ma non capisco ancora il movente. Certamente il servitore non avrebbe ricevuto
alcun lascito dalla padrona ed i suoi rapporti con lei si dice fossero stati
sempre buoni, quindi perché ucciderla?” Contento di mostrare come il suo lavoro
di investigazione non avesse tralasciato nessun aspetto del caso, il militare spiegò:
“Tutto nasce la sera che i tre figli erano riuniti in salotto. Chiacchieravano
a proposito della villa e Norberto ed Eleonora si dichiararono pronti a vendere
la villa una volta che uno di loro ne fosse eventualmente venuto in possesso.
Solo Guglielmo disse in maniera decisa che lui non avrebbe mai ceduto la
Mandragola. Oreste, presente alla scena, aveva sentito tutto e dopo più di
trent’anni vissuti in villa, pensare che, se la contessa avesse deciso di
nominare uno dei figli minori come beneficiario della proprietà, lui molto
probabilmente sarebbe stato licenziato, l’aveva fatto impazzire. Oreste è pieno
di debiti di gioco e non poteva permettersi di perdere il lavoro. Al giorno
d’oggi nessuno ha più bisogno di un maggiordomo e lui già si immaginava sul
lastrico. La sola possibile soluzione era quella di far fuori la contessa prima
che decidesse per la sua successione e potesse nominare erede Norberto o
Eleonora. Morendo senza aver fatto testamento, la villa sarebbe passata a
Guglielmo che, come dicevo, l’avrebbe sicuramente tenuta insieme alla servitù.”
Tutto chiaro.
Sul Tirreno
del giorno dopo, la Kathia fu felice di leggere: “Lo spirito d’osservazione ed
il pronto acume della parrucchiera di Borgo Carige diradano le nebbie nel caso
dell’omicidio Bitto. La Polizia ringrazia.” Beh, da “La polizia brancola” a “la
polizia ringrazia”, … era una soddisfazione!
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