lunedì 29 giugno 2015

Volevo scrivere un romanzo introspettivo

Volevo scrivere un romanzo introspettivo. Avrei cominciato con il protagonista che sale su un treno, solo, e si siede in uno scompartimento vuoto vicino al finestrino. Il convoglio si muove attraversando un paesaggio invernale tra Bologna e Milano. L’uomo guarda la desolata campagna coperta di neve mentre piccole stazioni si succedono una all’altra come anelli della catena che lega un racconto di solitudine. Lui è un intellettuale fallito, forse un artista o un professore di liceo, e quel continuo scorrere di immagini simili tra loro eppure sempre diverse, gli riporta alla mente il corso della sua vita. Riflette, fra se, di come gli anni siano passati in fretta da quando, giovane e pazzo, si era illuso di poter guidare la sua esistenza. Adesso, domato se non vinto, non vive più che di ricordi equamente divisi tra rimpianti e rimorsi. Ad un certo punto del viaggio, entra nella carrozza una ragazza, non particolarmente bella, che prende posto nel divanetto di fonte all’uomo. Niente colpisce di lei se non la giovinezza. Il protagonista la guarda e sogna, vorrebbe parlarle per metterla in guardia da quello che lei, e nessun’altro, sa del futuro che l’aspetta, ma capisce che vana è l’illusione di poter aiutare un altro essere umano in questo deserto che nel quale ci accompagna il destino. E così via, dove la metafora del viaggio è il riflesso della propria esistenza, mentre il viso dell’uomo, specchiato nel vetro della carrozza, gli rivela occhi estranei a se stesso. Non ci sono dialoghi, se non un continuo interrogarsi del suo essere e delle angosce dentro di sé celate. Chessò...Camus, Sartre, una indegna scopiazzatura di Hesse nella descrizione dei paesaggi, un crepuscolare Gozzano o un maledetto Bukowski, un pizzico di Kerouac on the road, una spolverata di Margaret Mazzantini e un velo di Susanna Tamaro che rende tutto meno amaro. Un paio di citazioni, o meglio qualche bella frase tratta da un film di Antonioni che, anche se non risulta del tutto chiara, rende il senso dell’incomunicabilità esistenziale vissuta dall’uomo, ed ecco il succoso romanzo che tutto si potrà definire tranne: “simpatico, ben scritto, ma leggero”. E allora ho preso il mio protagonista e l’ho messo, in scala 1:4, vicino alla tastiera del computer. Ci siamo presentati, l’ho pregato di togliersi l’impermeabile ed il cappello e di girare su se stesso. Volevo coglierne tutte le sfaccettature. Il suo lato amaro, provato, disilluso, cinico e disperato. In definitiva: triste. Poi l’ho guardato bene e l’ho pensato immerso nella trama, ho immaginato tutto il libro finito e me stesso che sfogliavo la mia opera. Il mio commento spontaneo, per il quale mi sono scusato con l’attonito protagonista che mi osservava, è stato: “Che palle!” Ho quindi fatto sparire l’omino e le idee para-intelletualoidi, ho preso in mano “L’uomo con due piedi sinistri” scritto dal genio di P.G. Wodehouse e con l’inimitabile Jeeves come protagonista, e ho passato un’oretta lietamente.    

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