giovedì 15 settembre 2016

Amélie.



Amélie.


Fa molto freddo in coda per prendere la funivia. La cima del Monte Bianco è nascosta da una cappa scura di nuvole, e sulle pendici del massiccio la neve sembra opaca senza il sole che la ravvivi. Forse non è la giornata giusta per una escursione, ma dovevo assolutamente prendermi una pausa di svago che mi distraesse da quello che ormai è diventato il mio “lavoro”. Già, lavoro tra virgolette perché ancora da molti viene considerato un vizio, un peccato, a volte un crimine, anche se, come si dice, è il mestiere più vecchio del mondo. Per me è soltanto un modo per tirare avanti, né più né meno, e presto il mio servizio come farebbe una manicure o una fisioterapista, senza più ricordare neanche uno dei miei clienti, dopo. Non do nessun giudizio morale, chi sono io per farlo, e non mi interessa quello che dicono di me. Sono come anestetizzata nei confronti delle chiacchiere, degli sguardi e dei sorrisini che mi seguono per le strade del paese. In una realtà piccola come quella in cui vivo, tutti si conoscono, tutti sanno la mia professione, ed io vengo emarginata dai buoni cittadini. Di giorno, oppure in pubblico, ma quando mi vengono a cercare, o di notte quando li sento sussurrare il mio nome come fosse la chiave per pochi attimi di felicità, allora torno a essere Amélie.

C’è parecchia gente, molti turisti attrezzati per scalare qualche tratto di parete o solamente per fermarsi sulla terrazza all’Aiguille du Midi e sentirsi piccoli in confronto alla maestosità della montagna, ma vedo anche qualche paesano. Certamente faranno finta di non conoscermi, ma va bene così: “je m’en fiche”. Proprio prima di me ci sono la moglie del farmacista, la signora Turillon e madame la marquise: tre delle più beghine fra tutte. Sono brutte di quell’acidità fatta di falso perbenismo; sanno perfettamente chi sono, ma per loro sembro trasparente. Sì, sono quello strano fantasma che i loro mariti, di nascosto, scoprono di carne ed ossa. Forse ne sono addirittura al corrente e fanno finta di non sapere, come tante martiri devote al santo matrimonio. Se mi avvicinassi e riferissi loro come mi chiamano i rispettivi consorti, tutti miei soddisfattissimi clienti, mentre li stringo o li carezzo, penso che sarebbero prese da una crisi isterica. Ma la nostra “deontologia professionale” vuole la discrezione, ed io sono una professionista, a costo di privarmi di qualche piccola soddisfazione. Siamo tutti in fila, e procediamo piano verso le cabine da quattro posti ognuna. Guarda caso io sono proprio vicina alle signore, potrei far passare qualcuno, ma voglio infastidirle con la mia presenza. Almeno per il tratto del trasporto, dovranno subire la mia vicinanza senza avere la possibilità di evitarmi. Saliamo, noi quattro, e la navicella, dondolando e sobbalzando, incomincia a staccarsi da terra. Ecco: sono un’aquila tra le rocce, e volo libera sopra le miserie del mondo e le mie pene. Non si vede il sole, ma dietro le nuvole c’è l’immenso cielo e la mia mente incomincia a vagare, spaziando dove si può perdere per unirsi con la purezza del creato.

-Hai visto chi c’è con noi? Quella!

-Si, non guardarla neanche. Non te ne curare.

-Proprio con noi doveva capitare. - Le sento, anzi credo parlino in modo che io senta. Stronze, come sempre.

-Cara, hai saputo di…

-Certo che al matrimonio di...si poteva metter qualcosa che non la facesse sembrare un paralume di trine…

-La mia domestica mi dice che ha visto…mentre entrava nel portone di…L’avreste mai creduto?

La cabina sale appresso alle altre e seguita dalle compagne, come una fila di formiche che portino un carico per la loro sopravvivenza. Ha incominciato a piovere con brevi, violenti scrosci che s’infrangono sui vetri resi opachi dal vapore e dal freddo esterno. Le brave donne continuano a ciacolare spettegolando, senza notare il paesaggio al di fuori, mentre il vento aumenta la propria violenza man mano che saliamo in quota. Il bozzolo che ci ospita adesso sembra la navicella di un Luna Park impazzito, guidata da una mano sadica che prova piacere a spaventare i passeggeri. Ma sono impianti controllatissimi, non può accaderci niente di imprevisto.

Oh mamma mia! Ci siamo bloccati. Oddio, la cabina dondola e si scuote mentre un cicalino d’allarme ha cominciato a suonare ripetutamente. La situazione comincia a farsi allarmante. Vedo un citofono per collegarsi con la stazione a valle. Lo prendo.
-Pronto? Pronto? Che succede, perché non ci muoviamo?
-Signorina, stia tranquilla. C’è un piccolo guasto che verrà riparato a breve. Non si preoccupi. – Risponde una voce all’altro capo.
-Quanti siete nella cabina e state tutti bene? Diteci i vostri nomi.
- Si, si, tutti bene. Siamo io, Amélie Dupois, e le signore Turillon, Grasset e Le Plaisir.
-Ah, ci ha riconosciute, la sgualdrina.
-Signora Turillon, l’ho sentita. Si, vi conosco e sgualdrina lo vada a dire a sua sorella!
-Scostumata!
Il tempo passa, sta scendendo la notte e anche la temperatura diventa sempre più rigida. La voce al citofono ha promesso soccorsi in breve tempo, ma gli elicotteri non possono alzarsi con le tenebre e il buio diventa sempre più fitto. Già le pareti della montagna non si vedono più e sotto di noi il terreno è scomparso. Fa freddo, mi siedo in un angolo e mi stringo addosso il giaccone. E quelle ancora parlano.
-Gesùgiuseppemaria, Siamo bloccate e chissà per quanto.
-Io non posso restare qui. Ho mille cose da fare, e poi non sono attrezzata per stare tante ore fuori casa.
-Amiche, calmatevi. E’ una situazione critica, ma verranno a prenderci o rimetteranno in moto questa dannata teleferica. Adesso la cosa importante è tenerci calde e farci coraggio. - Guarda: si sono rannicchiate insieme, come tre passerotti su un trespolo, dall’altra parte della cabina. Si abbracciano, le amiche, come se fossero sole, senza dirmi una parola. Non mi importa, per fortuna avevo intenzione di stare fuori diverse ore ed ho portato con me lo zaino con molte provviste. Ho anche un thermos con del the caldo che mi farà senz’altro comodo.
Sono passate quattro ore, le ultime notizie dicono che riprenderanno i soccorsi domani all’alba, ma non è chiaro come ci porteranno alla base. Ho sete. Prendo il contenitore, un bicchiere di carta e mi verso un po’ di the: è ancora fumante. Come mi guardano adesso le tre Pie, sentono l’odore della bevanda e forse anche del panino al salame che sbuca dalla sacca.

-Signorina, uhm, mi scusi. Vede, la nostra amica qui, si sta sentendo male ed avrebbe bisogno di bere un sorso di qualcosa. – Ah, madame Grasset adesso mi parla. La devo ignorare come hanno fatto loro fino adesso nei miei confronti? Ma no, mi fanno pena e poi…siamo tutte sulla stessa barca.

-Va bene, signore. Se volete favorire: oltre all’acqua, ho del the con lo zucchero, poi mi sono portata un paio di panini, una bella fetta di torta di mele e dei biscotti. C’è anche una bottiglia di vino, se gradite, e per finire mezza boccia di grappa.

-Oh, signorina. Lei è troppo gentile! Venite amiche, approfittiamo del cortese invito. – Ah, Ah, Ah, si sono buttate sul mio cibo come fosse l’ultima cena.

-Buono, ottimo. Non sappiamo come ringraziarla. Lei ci ha salvato in questo disgraziato frangente e, d’altro canto, in fondo siamo tutte compaesane e ci dobbiamo aiutare in certi momenti. Nevvero?

-Sissignora, siamo tutte compaesane e ci conosciamo da tempo. – L’atmosfera è cambiata totalmente. A parte la situazione oggettiva, adesso sembra di essere diventate quasi amiche. Si stanno interessando a me e vorrebbero che raccontassi loro la mia vita.

-E ci dica, con discrezione naturalmente, cosa le chiedono maggiormente gli uomini?

-Oh Marie, ma cosa dici? Non saremmo troppo audaci?

-No, sono sicura che l’esperienza della signorina sarebbe interessantissima da condividere. -Formiamo un circolo, accovacciate sul pavimento della cabina, e continuiamo a chiacchierare, mentre il vino provoca improvvisi scrosci di risa e ci fa passare il tempo.

Come Dio vuole, dopo tutta la notte e buona parte della mattina, i soccorsi sono arrivati. Hanno sbloccato qualcosa e la funivia è ripartita. Ci hanno portato a valle e finalmente siamo potute scendere, le signore per prime, naturalmente. Ci siamo scambiate un breve saluto, nella concitazione del momento, e chissà forse mi dovrò ricredere su di loro. Prima di andare a casa mi fermo al bar per un cappuccino. Eccole ancora, le mie compagne d’avventura.

-Signore Turillon, Grasset, Le Plaisir, ci ritroviamo! Beviamo insieme un ultimo caffè?

-Signorina, stia al suo posto! Il fatto che siamo state costrette insieme per qualche tempo non deve permetterle tanta confidenza.

-Brava! Che si crede, quella, di essere come noi? Ci guardano tutti!

-Giusto, signore. Andiamo che le nostre famiglie ci aspettano, al contrario di qualcun’altra.

No, non me la prendo. E’ vero: io non ho una famiglia mia, ma ho tutti gli uomini che voglio e da ognuno sono amata quando, morendo, sospirano il mio nome: “Amélie…”. Se non posso avere la simpatia delle mogli… godrò della passione dei mariti.





Nessun commento:

Posta un commento