-Io qui mi sento come un uccellino nella bambagia. L’ambiente
mi si confà, nevvero?
-Ma papà, è tutto così grande e ci sono tante stanze, non ci
perderemo?
-Caro figliolo ti faccio una domanda: tu come ti chiami?
-Nando, papà.
-Nossignore! Il tuo nome è Ferdinando ed io mi chiamo Carlo.
-Allora?
-Oh San Gennaro benedetto, uagliò, chista è casa nuostr!
-Ma siamo nella Reggia di Caserta, che c’entriamo noi con
questo palazzo?
-Uagliò, stamme bene a sentì. T’aggia ditt ‘nata vota che noi
siamo discendenti diretti dei Re di Napoli che costruirono questo palazzo e ci vissero
per un sacc ‘e tiemp. Se non ci fosse stato quel brigante di piemontese che ci
arrubbò tutto, oggi saremmo i padroni di casa.
-Eh, ma la storia…
-La storia ‘na uallera! La storia la scrivono i vincitori. Quel
cafone sabaudo con quell’altro pirata di Garibaldo si sono impadroniti del Regno
depredando la nostra casata e fregando tutti i napoletani e gli abitanti del
sud. Prima dell’arrivo di quello sbruffone, Napoli era una città
all’avanguardia in Europa. Ti potrei parlare di Capodimonte, delle seterie di San
Leucio, di come fu fatta la prima teleferica ed il primo collegamento su strada
ferrata. Sapevi che, dopo Parigi, Napoli fu la prima città ad adottare
l’illuminazione elettrica? Senza parlare del fiorire delle Arti con il Teatro
San Carlo e la scuola di opere figurative. Ti basta?
-E poi?
-E poi hanno razziato qualsiasi cosa, a cominciare dal tesoro
in lingotti d’oro depositato al Banco di Napoli e trasferito nei forzieri
sabaudi, per finire agli arredi di questa stessa reggia che partirono verso
Torino: una scialba e fredda cittadina pedemontana. Da quel momento è iniziato il declino del Sud
dell’Italia, maledetto Cavour, i gianduiotti e il barbera.
-O’ vero?
-Sissignore, comm è ver o’ demonio.
I due, che discutevano ai piedi del monumentale scalone
d’onore dell’immenso edificio, formavano una ben strana coppia agli occhi dei
visitatori intorno a loro. Il più agitato, nella foga del discorso, era l’uomo,
di una certa età, vestito con quell’eleganza sartoriale ed anonima che
distingue il vero signore. Era l’unica persona ad indossare un cappello che ben
s’intonava col paletot di cammello, un tantinello fuori stagione. Anche se il
pelo del soprabito mostrava qualche chiazza diradata ed i polsini della camicia
sporgevano dalle maniche lisi e sfilacciati, l’aplomb del suo portamento
denotava una naturale distinzione che lo estraniava dalla calca. Il piccolo
interlocutore era un bambino, di circa dieci anni, che teneva per mano il padre
guardandolo incerto se prendere sul serio quei discorsi oppure considerarli
come uno dei tanti sogni o delle favole che il genitore gli raccontava prima d’addormentarsi.
Si stava facendo ora di chiusura e la gente cominciava ad uscire dal portone
principale, ma i due non si muovevano, come fossero tenuti prigionieri dagli
sguardi feroci dei leoni di marmo ai lati della scalinata.
-Papà, imm e trasì.
-Spietta nu poc. T’aggia a parlà.
-Dicite.
-Figlio mio ho pensato una cosa. Come ti dicevo, mi sembra ingiusto
che io non possa vivere qui, in casa mia, con la mia famiglia, e voglio porre
rimedio.
-Vuoi affittare la reggia?
-Ehhh, esàgerat! Non sarebbe possibile, ma da quando ho
saputo che l’amministrazione del palazzo cerca un giardiniere, m’è venuta un’idea.
Come sai, figliolo caro, qui la reggia è vastissima. Ci sono ali intere dell’edificio
che non sono abitate, anzi sono quasi abbandonate all’incuria. Per non parlare
dei sottotetti, ancora più vasti e misteriosi.
-Quindi?
-E allora, ecco: m’impiego come giardiniere e veniamo a vivere
qui, insieme alla mamma, in un locale abbandonato.
-Steve faziando?
-Nossignore, ascolta bene. Io lavorerò tutto il giorno, poi
la sera, quando i visitatori se ne vanno, noi ci ritiriamo nelle nostre stanze.
In mezzo alla confusione nessuno ci noterà e, la mattina dopo, ci confonderemo
con i turisti che arrivano e potremo uscire liberamente, tu per andare a
scuola, io a svolgere i miei compiti e mammat per i suoi mestieri. Poi quando
il museo è chiuso…la reggia tornerà nostra! Potremo passeggiare per i saloni
liberamente, sederci sul trono o, se vuoi, potrai scorrazzare con la bicicletta
lungo i corridoi. Così avremo risolto il problema del lavoro per me, dell’abitazione
e, nello stesso tempo, vivremo come si conviene al nostro rango. Cosa ne pensi?
Il ragazzo era rimasto a bocca aperta. Gli sembrava una
pazzia, ma allo stesso tempo si sentiva eccitato al pensiero di avere
finalmente una camera tutta sua e poi…in quella Reggia. Ma, essendo come tutti
i bambini pratico e diretto, vide subito la pecca nel progetto.
-Nun ze po’ fa.
-Oh bella, e perché mai?
-Mamma si opporrebbe. Sai bene che lei non lascerebbe l’appartamentino
al Vomero e che sentirebbe la mancanza delle comari. E anche loro come
farebbero senza la signora Nunziata che prepara le torte più buone del
quartiere?
-Innanzi tutto, mio caro delfino…
-Ohé papà, io non sono un pesce!
-Ah, ah, ah, il delfino è l’erede del Sovrano, e tu sei mio
figlio. Non siamo regnanti, ma mica perché un ingegnere è momentaneamente
disoccupato non è più ingegnere e non si può fregiare del suo titolo. Siempr
ingegnere iè. E poi smettiamo di chiamare la mamma “Nunziatina”, hai mai
sentito una regina chiamarsi così? Da oggi ci rivolgeremo a lei come “Maria
Carolina”; la sostanza non cambia, ma vuoi mettere la forma?
-Vabbuò, ma ci parli tu.
Fu una battaglia, anzi una guerra, anzi un conflitto nucleare
che oppose i coniugi sull’idea del trasferimento, ma alla fine prevalse il
senso pratico. La signora Nunz…, pardon, Maria Carolina aveva vissuto per
lunghi anni in quaranta metri quadri, bagno e cucina compresi, e non ne poteva
più. L’idea di avere spazio a sufficienza e non dover passare la maggior parte
della sua vita a mettere in ordine, pena il caos, le sembrava un sogno. Inoltre
non avrebbe neanche più dovuto pagare la pigione, e non era cosa da poco. Anche
se non aveva velleità nobiliari, non poteva negare che partecipare alla follia
del marito faceva sentire anche lei un po’ regina. Così fu deciso, e dopo che
don Carlo ebbe assunto il suo impiego, con un trasloco fatto a piccoli pezzi ed
in più volte, un bel giorno la famiglia prese possesso del sottotetto più ampio
della Reggia di Caserta. A metri quadri era difficile da valutare, ma divise da
pareti in cartongesso tirate su nottetempo, si ricavarono una bella stanza
matrimoniale per la coppia, la camera di Ferdinando e gli annessi vari. Per i
servizi una scala a chiocciola portava ai bagni del piano inferiore e la cucina
fu comprata elettrica per allacciarsi, in maniera, diciamo, volante, con l’impianto
dell’edificio.
Alla fine dei lavori il capofamiglia chiese:
-Avevo ragione?
-Avevi ragione. Ci siamo sistemati e nessuno si è accorto di nulla,
viviamo decisamente meglio e risparmiando anche, adesso non ci manca niente.
Maritm, sì nu babà! – Donna Maria Carolina non era prodiga di complimenti, ma
quella volta le uscirono dal cuore.
Sembrava andare tutto per il meglio, ma a Carlo mancava…la
corte. Quando la sera girava per le vaste sale piene di arazzi, affreschi e specchiere
dorate, si beava di tanta bellezza, ma soffriva per il troppo silenzio. I suoi
passi rimbombavano e non poter condividere la sua felicità con altre persone,
toglieva molto alla sua soddisfazione. Quegli ambiento erano fatti per
ricevere, ballare e stare in compagnia, altrimenti non avrebbe avuto senso
costruire tutto quell’apparato solo per il Sovrano. “Mi piacerebbe che anche
don Mimì e la combriccola del “Circolo Ex Monarchico” vedessero come mi sono
sistemato. Se loro fossero qui rivivrebbero alcuni degli antichi splendori e
sono sicuro ne godrebbero con me. Conosco tanti baroni, duchi e principi ormai in
disuso che si sono adattati ad una vita borghese e che farebbero follie per partecipare
ad un ballo di corte. Forse dovrei…” Si sa che l’appetito vien mangiando, ed
anche che la pazzia non ha limite, e quindi il Re in pectore diramò, in maniera
clandestina, gli inviti. “Le Loro Altezze Reali Don Carlo e Donna Maria Carolina
– dicevano – sono lieti di invitare la Signoria Vostra al Ballo di Corte che si
terrà presso il Salone degli Specchi della Reggia di Caserta il giorno… L’invito
è subordinato alle seguenti condizioni: 1) Si dovrà mantenere il segreto sull’evento.
2) Il Ballo avrà luogo dalle ore una di notte fino alle cinque. Gli orari sono
tassativi e gli invitati dovranno essere presenti unicamente entro questo lasso
di tempo. 3) Si prega di intervenire indossando abiti di gala e decorazioni
nobiliari.”
Era quello che tutta la nobiltà partenopea sognava da tempo. Come
un gruppo di quei carbonari che tanto avevano combattuto nei secoli precedenti,
il giorno stabilito, furtivamente, una nutrita schiera di dame e cavalieri
entrarono da una porticina sull’angolo nord della reggia per ritrovarsi nel
salone indicato. Le ampie finestre erano state oscurate da drappi neri per non
far filtrare la luce e tutti i candelieri portavano accese mille candele fornite,
senza un esplicito consenso, dalla vicina Parrocchia. Un gruppo di musici era
sistemato su un palchetto e quando i “padroni di casa” entrarono nella sala
intonarono l’inno nazionale del Regno di Napoli composto da Giovanni Paisiello.
Si commossero tutti, e per primi Carlo e Maria Carolina, ma presto superarono
il momentaneo imbarazzo aprendo, con grazia e leggiadria, le danze.
Se qualcuno, passando da quelle parti, sentisse storie di
fantasmi che abitano la Reggia di Caserta, adesso ne conosce l’origine, ma non
lo riveli a nessuno.
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