giovedì 20 ottobre 2016

Sua Maestà

-Io qui mi sento come un uccellino nella bambagia. L’ambiente mi si confà, nevvero?
-Ma papà, è tutto così grande e ci sono tante stanze, non ci perderemo?
-Caro figliolo ti faccio una domanda: tu come ti chiami?
-Nando, papà.
-Nossignore! Il tuo nome è Ferdinando ed io mi chiamo Carlo.
-Allora?
-Oh San Gennaro benedetto, uagliò, chista è casa nuostr!
-Ma siamo nella Reggia di Caserta, che c’entriamo noi con questo palazzo?
-Uagliò, stamme bene a sentì. T’aggia ditt ‘nata vota che noi siamo discendenti diretti dei Re di Napoli che costruirono questo palazzo e ci vissero per un sacc ‘e tiemp. Se non ci fosse stato quel brigante di piemontese che ci arrubbò tutto, oggi saremmo i padroni di casa.
-Eh, ma la storia…
-La storia ‘na uallera! La storia la scrivono i vincitori. Quel cafone sabaudo con quell’altro pirata di Garibaldo si sono impadroniti del Regno depredando la nostra casata e fregando tutti i napoletani e gli abitanti del sud. Prima dell’arrivo di quello sbruffone, Napoli era una città all’avanguardia in Europa. Ti potrei parlare di Capodimonte, delle seterie di San Leucio, di come fu fatta la prima teleferica ed il primo collegamento su strada ferrata. Sapevi che, dopo Parigi, Napoli fu la prima città ad adottare l’illuminazione elettrica? Senza parlare del fiorire delle Arti con il Teatro San Carlo e la scuola di opere figurative. Ti basta?
-E poi?
-E poi hanno razziato qualsiasi cosa, a cominciare dal tesoro in lingotti d’oro depositato al Banco di Napoli e trasferito nei forzieri sabaudi, per finire agli arredi di questa stessa reggia che partirono verso Torino: una scialba e fredda cittadina pedemontana.  Da quel momento è iniziato il declino del Sud dell’Italia, maledetto Cavour, i gianduiotti e il barbera.
-O’ vero?
-Sissignore, comm è ver o’ demonio.
I due, che discutevano ai piedi del monumentale scalone d’onore dell’immenso edificio, formavano una ben strana coppia agli occhi dei visitatori intorno a loro. Il più agitato, nella foga del discorso, era l’uomo, di una certa età, vestito con quell’eleganza sartoriale ed anonima che distingue il vero signore. Era l’unica persona ad indossare un cappello che ben s’intonava col paletot di cammello, un tantinello fuori stagione. Anche se il pelo del soprabito mostrava qualche chiazza diradata ed i polsini della camicia sporgevano dalle maniche lisi e sfilacciati, l’aplomb del suo portamento denotava una naturale distinzione che lo estraniava dalla calca. Il piccolo interlocutore era un bambino, di circa dieci anni, che teneva per mano il padre guardandolo incerto se prendere sul serio quei discorsi oppure considerarli come uno dei tanti sogni o delle favole che il genitore gli raccontava prima d’addormentarsi. Si stava facendo ora di chiusura e la gente cominciava ad uscire dal portone principale, ma i due non si muovevano, come fossero tenuti prigionieri dagli sguardi feroci dei leoni di marmo ai lati della scalinata.
-Papà, imm e trasì.
-Spietta nu poc. T’aggia a parlà.
-Dicite.
-Figlio mio ho pensato una cosa. Come ti dicevo, mi sembra ingiusto che io non possa vivere qui, in casa mia, con la mia famiglia, e voglio porre rimedio.
-Vuoi affittare la reggia?
-Ehhh, esàgerat! Non sarebbe possibile, ma da quando ho saputo che l’amministrazione del palazzo cerca un giardiniere, m’è venuta un’idea. Come sai, figliolo caro, qui la reggia è vastissima. Ci sono ali intere dell’edificio che non sono abitate, anzi sono quasi abbandonate all’incuria. Per non parlare dei sottotetti, ancora più vasti e misteriosi.
-Quindi?
-E allora, ecco: m’impiego come giardiniere e veniamo a vivere qui, insieme alla mamma, in un locale abbandonato.
-Steve faziando?
-Nossignore, ascolta bene. Io lavorerò tutto il giorno, poi la sera, quando i visitatori se ne vanno, noi ci ritiriamo nelle nostre stanze. In mezzo alla confusione nessuno ci noterà e, la mattina dopo, ci confonderemo con i turisti che arrivano e potremo uscire liberamente, tu per andare a scuola, io a svolgere i miei compiti e mammat per i suoi mestieri. Poi quando il museo è chiuso…la reggia tornerà nostra! Potremo passeggiare per i saloni liberamente, sederci sul trono o, se vuoi, potrai scorrazzare con la bicicletta lungo i corridoi. Così avremo risolto il problema del lavoro per me, dell’abitazione e, nello stesso tempo, vivremo come si conviene al nostro rango. Cosa ne pensi?
Il ragazzo era rimasto a bocca aperta. Gli sembrava una pazzia, ma allo stesso tempo si sentiva eccitato al pensiero di avere finalmente una camera tutta sua e poi…in quella Reggia. Ma, essendo come tutti i bambini pratico e diretto, vide subito la pecca nel progetto.
-Nun ze po’ fa.
-Oh bella, e perché mai?
-Mamma si opporrebbe. Sai bene che lei non lascerebbe l’appartamentino al Vomero e che sentirebbe la mancanza delle comari. E anche loro come farebbero senza la signora Nunziata che prepara le torte più buone del quartiere?
-Innanzi tutto, mio caro delfino…
-Ohé papà, io non sono un pesce!
-Ah, ah, ah, il delfino è l’erede del Sovrano, e tu sei mio figlio. Non siamo regnanti, ma mica perché un ingegnere è momentaneamente disoccupato non è più ingegnere e non si può fregiare del suo titolo. Siempr ingegnere iè. E poi smettiamo di chiamare la mamma “Nunziatina”, hai mai sentito una regina chiamarsi così? Da oggi ci rivolgeremo a lei come “Maria Carolina”; la sostanza non cambia, ma vuoi mettere la forma?
-Vabbuò, ma ci parli tu.
Fu una battaglia, anzi una guerra, anzi un conflitto nucleare che oppose i coniugi sull’idea del trasferimento, ma alla fine prevalse il senso pratico. La signora Nunz…, pardon, Maria Carolina aveva vissuto per lunghi anni in quaranta metri quadri, bagno e cucina compresi, e non ne poteva più. L’idea di avere spazio a sufficienza e non dover passare la maggior parte della sua vita a mettere in ordine, pena il caos, le sembrava un sogno. Inoltre non avrebbe neanche più dovuto pagare la pigione, e non era cosa da poco. Anche se non aveva velleità nobiliari, non poteva negare che partecipare alla follia del marito faceva sentire anche lei un po’ regina. Così fu deciso, e dopo che don Carlo ebbe assunto il suo impiego, con un trasloco fatto a piccoli pezzi ed in più volte, un bel giorno la famiglia prese possesso del sottotetto più ampio della Reggia di Caserta. A metri quadri era difficile da valutare, ma divise da pareti in cartongesso tirate su nottetempo, si ricavarono una bella stanza matrimoniale per la coppia, la camera di Ferdinando e gli annessi vari. Per i servizi una scala a chiocciola portava ai bagni del piano inferiore e la cucina fu comprata elettrica per allacciarsi, in maniera, diciamo, volante, con l’impianto dell’edificio.
Alla fine dei lavori il capofamiglia chiese:
-Avevo ragione?
-Avevi ragione. Ci siamo sistemati e nessuno si è accorto di nulla, viviamo decisamente meglio e risparmiando anche, adesso non ci manca niente. Maritm, sì nu babà! – Donna Maria Carolina non era prodiga di complimenti, ma quella volta le uscirono dal cuore.  
Sembrava andare tutto per il meglio, ma a Carlo mancava…la corte. Quando la sera girava per le vaste sale piene di arazzi, affreschi e specchiere dorate, si beava di tanta bellezza, ma soffriva per il troppo silenzio. I suoi passi rimbombavano e non poter condividere la sua felicità con altre persone, toglieva molto alla sua soddisfazione. Quegli ambiento erano fatti per ricevere, ballare e stare in compagnia, altrimenti non avrebbe avuto senso costruire tutto quell’apparato solo per il Sovrano. “Mi piacerebbe che anche don Mimì e la combriccola del “Circolo Ex Monarchico” vedessero come mi sono sistemato. Se loro fossero qui rivivrebbero alcuni degli antichi splendori e sono sicuro ne godrebbero con me. Conosco tanti baroni, duchi e principi ormai in disuso che si sono adattati ad una vita borghese e che farebbero follie per partecipare ad un ballo di corte. Forse dovrei…” Si sa che l’appetito vien mangiando, ed anche che la pazzia non ha limite, e quindi il Re in pectore diramò, in maniera clandestina, gli inviti. “Le Loro Altezze Reali Don Carlo e Donna Maria Carolina – dicevano – sono lieti di invitare la Signoria Vostra al Ballo di Corte che si terrà presso il Salone degli Specchi della Reggia di Caserta il giorno… L’invito è subordinato alle seguenti condizioni: 1) Si dovrà mantenere il segreto sull’evento. 2) Il Ballo avrà luogo dalle ore una di notte fino alle cinque. Gli orari sono tassativi e gli invitati dovranno essere presenti unicamente entro questo lasso di tempo. 3) Si prega di intervenire indossando abiti di gala e decorazioni nobiliari.”
Era quello che tutta la nobiltà partenopea sognava da tempo. Come un gruppo di quei carbonari che tanto avevano combattuto nei secoli precedenti, il giorno stabilito, furtivamente, una nutrita schiera di dame e cavalieri entrarono da una porticina sull’angolo nord della reggia per ritrovarsi nel salone indicato. Le ampie finestre erano state oscurate da drappi neri per non far filtrare la luce e tutti i candelieri portavano accese mille candele fornite, senza un esplicito consenso, dalla vicina Parrocchia. Un gruppo di musici era sistemato su un palchetto e quando i “padroni di casa” entrarono nella sala intonarono l’inno nazionale del Regno di Napoli composto da Giovanni Paisiello. Si commossero tutti, e per primi Carlo e Maria Carolina, ma presto superarono il momentaneo imbarazzo aprendo, con grazia e leggiadria, le danze.
Se qualcuno, passando da quelle parti, sentisse storie di fantasmi che abitano la Reggia di Caserta, adesso ne conosce l’origine, ma non lo riveli a nessuno.



Nessun commento:

Posta un commento