domenica 26 febbraio 2017
Una canzone per te
I locali nei quali si esibiva ed il successo dei suoi brani su I Tunes gli avevano confermato quello che già da tempo sapeva: era bravo. Quando sul palco imbracciava la chitarra e, con la sua tipica voce roca dalla erre arrotata, cantava una canzone d’amore, vedeva chiaramente le ragazzine della prima fila della platea, con la bocca aperta e l’aria sognante, pendere dalle sue labbra. Poi, sui brani di protesta, infiammava l’entusiasmo di tutti i giovani, d’ambo i sessi, che ripetevano con lui i ritornelli, battendo le mani ed agitando i pugni chiusi, per finire con urla e scroscianti applausi. Non si era ancora cimentato con il rock ballabile perché non lo sentiva nelle sue corde, ma ne era stato tentato più volte, giusto per vedere se sarebbe stato capace di trasmettere anche quello stimolo e di come avrebbe potuto muovere i suoi ascoltatori dal pianto alla rabbia fino allo sfrenato divertimento. Sarebbe esagerato dire che pensava di essere un piccolo semidio capace di toccare le corde dell’anima, ma certamente poteva ritenersi un buon artigiano che, con la musica e le parole, sapeva descrivere, evocare e perfino suscitare in tante persone passione e sogni. Qualcuno lo chiamava “artista” e gli adulatori “maestro”, ma la sua modestia gli impediva di accettare tali appellativi, anche se la capacità di trasmettere emozioni li avrebbe potuti giustificare entrambi. Il successo aveva portato soddisfazioni, soldi e, soprattutto, donne. In un primo momento, quando una ragazza si buttava tra le sue braccia, si chiedeva se la preda fosse stata irretita dal fascino del cantante o da quello dell’uomo, e ci andava con i piedi di piombo. Col tempo aveva accettato di essere un tutt’uno tra sé stesso ed il suo personaggio e quindi accettava ogni conquista senza tante domande. Finché successe “l’infognata”. Lo so, per me che sono il manager/biografo, definire in questo modo quello che a lui sembrava il grande amore, potrebbe sembrare poco elegante, ma si trattò effettivamente di uno scontro frontale contro il più forte dei sentimenti. Lei era quella che, negli anni settanta, chiamavano una “groupie”, ovvero una fan scatenata che seguiva quasi tutti i concerti e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per avvicinare il proprio idolo. Se mi chiedete perché lui ne rimase tanto affascinato, non saprei rispondere. E’ vero che era giovane, bella, piena di vita e disponibile, ma come tante. Un giorno gli chiesi cosa avesse di differente rispetto alle altre e lui mi rispose:
-Niente, se non che mi ha fatto battere il cuore. – Capii che era una motivazione sufficiente ed inconfutabile. Cominciarono una storia che io, sinceramente, sottovalutai. Pensavo fosse un flirt passeggero, ma con mio grande stupore andò avanti per mesi finché lei non disse basta. Credo che la frequentazione con la persona che aveva mitizzato le avesse aperto gli occhi e fatto capire che anche gli abitanti dell’Olimpo la mattina si alzano coll’alito pesante e la sera s’addormentano sul divano. E quindi lo lasciò.
-Non posso vivere senza di lei. – Mi confidò il mio amico tra le lacrime.
-Lasciala andare.
-Aspetta, questa può essere l’ispirazione per una nuova canzone. Passami la chitarra. – L’ho detto: era bravo, e quindi ci mise poco a strizzare note dal suo cuore. In breve tempo scrisse un brano che incise col solo accompagnamento del suo strumento. Ricordo che, mentre registrava, versava calde lacrime, ma a me non convincevano. Pensai che, come altre volte era successo, si fosse calato nel ruolo del tipico artista romantico ed infelice, e che si stesse facendo pena da solo, senza realmente piangere per amore. Comunque, come sempre, il prodotto fu di ottima qualità e di grande impatto. Col “demo” in mano, corse da lei e glielo fece sentire. L’effetto era scontato, lei s’intenerì e tornarono insieme. Ma per la ragazza si trattava di ammirazione, forse gratitudine, certo non di amore e nessuna melodia, per quanto bella, o nessuna lirica, per quanto poetica, avrebbero potuto mantenere vivo un sentimento che forse non era mai neanche nato. Si lasciarono definitivamente dopo poco tempo e lui indossò solo abiti neri per i successivi sei mesi. Della donna non avemmo più notizie, ma al cantautore rimase una “hit” nella chart che gli fece guadagnare molto danaro e la fama di artista tormentato. Non fu un’avventura sprecata
sabato 25 febbraio 2017
L'ultimo bicchiere
Ogni volta che posava il bicchiere cercava di
rimetterlo esattamente sul circoletto d’umido lasciato sopra il piano del tavolo all’osteria.
Si dice che non bisogna mai bere da soli e che questa abitudine è il primo
passo che porta dallo sfizio al vizio. Ma lui voleva parlare con qualcuno che
lo capisse, che non contradicesse le sue affermazioni, anche se erano delle
sciocchezze, ed il piccolo contenitore di vetro con la sorella maggiore dal
collo stretto, gli sembravano la compagnia migliore. “In vino veritas” si
diceva, ma quale era la verità che rispondeva alle domande che gli scarruffavano
il cervello? E chi avrebbe dovuto essere sincero, lui che aveva pagato la
consumazione o lo stesso vino che, in qualche maniera, doveva giustificare la
sua funzione? Non sapeva, un po’ gli girava tutto attorno, ma molto più gli
giravano le balle, in senso figurato. Era certo che, qualche mescita addietro,
si fosse seduto incazzato per un motivo preciso e molto importante. Aveva
tirato a sé la sedia e poi si era lasciato cadere sbattendo il pugno sul tavolo
con tutta la rabbia che il torto subito gli aveva fatto montare dentro.
Ricordava distintamente quel senso d’impotenza che gli faceva sfarfalleggiare
lo stomaco e di come fosse certo di aver subito un sopruso. Una grave offesa
certamente, anche se adesso non ricordava esattamente quale fosse. In realtà
aveva poca importanza, e se quella gli era passata di mente c’erano talmente
tanti motivi per arrabbiarsi che, di fronte al vino, uno valeva l’altro. Ad
esempio si sentiva offeso da Giovanni che aveva rinnegato la sua amicizia senza
che lui ne avesse colpa, oppure provava rancore contro una certa Rossana che
semplicemente non aveva capito. Poi sentiva che avrebbe potuto prendere a botte
quello che lo aveva sorpassato in coda senza chiedergli scusa o che avrebbe
urlato volentieri contro il barista che gli serviva sempre un caffè di merda.
Per non parlare del fetente più bastardo che conoscesse: il destino. Ecco,
contro di lui aveva una lista di rimostranze così lunga che non sarebbe bastato
un rotolone Regina a contenerne tutte le voci.
-Barista, la bottiglia è bucata! Non vedi che il vino non c’è
più? Portane ancora. - Diventava sempre
più difficile centrare il circoletto, ma ci si metteva d’impegno, con lo
sguardo fisso e la mano ferma, forse solo un po’ ondeggiante. Ma in fondo a cosa
serviva prendersela così? Non si può andare contro il mulini a vento e basta un
naso più grosso del normale per allontanare quella Rossana, tanto insensibile
quanto bella. “Chi non mi ama, non mi merita.” Pensava, con lo strano paradosso
che non amandosi neanche lui stesso, forse non era degno di avere una qualche
considerazione di sé. Ingoiò un pezzo di pane che facesse da base per il rosso
ruscello destinato al suo stomaco. Eppure sentiva la mancanza di qualcosa, o di
qualcuno, e questo lo rendeva triste. In quel momento entro nell’osteria un “parcheggiatore”,
come lo chiamano a Napoli, strimpellando una chitarra scordata dal suono
metallico. Pur non sapendo la domanda, il suonatore gli rispose intonando una
canzone che mai si sentiva nelle trattorie frequentate da avventori distratti. “Vedi cara, è difficile spiegare i fantasmi di
una mente. Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai
capito già.” Era proprio così. Spesso si era chiesto a che servisse la parola
se non c’era l’empa… aspè, riprova…l’empatia. Ecco, ok! Quello che si dice, al
massimo, può essere l’ombra di ciò che si sente dentro, e chi è veramente interessato,
se non innamorato, dovrebbe capire tutto solo con uno sguardo, o con una
carezza. Ma questo che c’entrava con quel fesso che gli aveva fregato il posto
nella coda? Soffocò una risata, ed un rutto, mentre la sua autostima andava
calando di pari passo con il livello del vino.
Si sentì toccare sul braccio.
Si sentì toccare sul braccio.
-Signore, signore, volete una rosa? – Alzò gli occhi ed incrociò
lo sguardo con una ragazza vestita di mille colori con un fascio di fiori tra
le braccia.
-Vattene. - Le disse, cacciandola con un gesto della mano.
Ancora un’ingiustizia della vita, ed un piccolo rimorso per la mancanza di una generosità
che sarebbe costata poco. Si versò un altro bicchiere per portarsi verso l’incoscienza.
Poi si accasciò sul tavolo con la testa appoggiata al braccio. Non dormiva, ma era
stanco. Con gli occhi chiusi, nell’incavo del gomito, voleva fare come lo
struzzo quando nasconde la testa nella sabbia. La speranza sarebbe potuta essere
il cameriere che, con compassione, non lo disturbò, o nella fugace pacca sulla
spalla di un amico che l’aveva riconosciuto. Oppure nella rosa che quella
zingarella gli lasciò sul tavolo senza essere pagata perché aveva visto
qualcuno più bisognoso di lei o, semplicemente, nella notte che lasciava spazio
al nuovo giorno. Ma lui non se ne accorse.
Cin cin col mio demone
Quando la notte avanza e la solitudine rimane l’ultima
compagna, escono dall’anima i mostri che il giorno aveva imprigionato in una
gabbia di razionalità e stordimento. E faccio
i conti, quelli più duri e veri, che spesso portano a risultati col segno
dell’insoddisfazione, del rimorso o del rimpianto, mentre il sonno appare come
il miraggio di un’oasi lontana di riposo e quiete. In fondo alla stanza, o
dietro alle spalle, appare il Maligno che ride delle mie paure e soffia sull’angoscia
del domani. Molte volte ho cercato di scacciarlo, ma la Bestia, nutrita dalle
quotidiane frustrazioni della vita vissuta, ogni volta si ripresenta più forte
e beffarda. Come si può sfidarlo quando lui è il padrone delle mie debolezze,
il depositario della mia incertezza, il subdolo consigliere dei miei sbagli?
Lui sa tutto di me, mentre io vedo solo un ghignante riflesso di evanescenti
speranze poi rivelatesi come scivolosi inciampi o pericolose illusioni. Lo
ricordo piccolo, come me, quando la colpa di non avere fatto i compiti a scuola
era una merenda per le sua affamate fauci, e lo ritrovo adesso pasciuto, ma non
satollo, per i tanti pasti a base di mie grandi o piccole colpe. E non basta a
rendere insipido il suo desinare la mancanza di cattiva volontà o la grama
scusante dell’avverso destino. L’altro
me conosce la sua dimora e spesso percorre i sentieri degli Inferi che, si
dice, siano lastricati dalle mie e dalle buone intenzione di ogni essere umano.
Credo che tutti abbiano il proprio demone, a volte aggrappato sulla schiena
come una scimmia o nascosto dietro la testiera del letto ad aspettare il più
remoto dei sogni per materializzarsi, e se qualcuno lo nega mente a se stesso o
agli altri. Non vederlo può essere forse anche più pericoloso perché un giorno
apparirà d’improvviso in uno specchio, quando la maschera tenuta per
compassione di se stessi, anche per un solo momento, cadrà senza pietà per chi
suppone di essere salvo. Ma io sono furbo. Si dice che se non puoi sconfiggere
il nemico, devi provare a fartelo amico, e allora io guardo in faccia il mostro
e gli sorrido. Poi alzo il bicchiere e brindo alla sua salute, ed insieme
ridiamo di questa strana commedia che è l’esistenza, facendo finta che la sua
presenza non mi pesi. Ed intanto il tempo passa, il sonno finalmente arriva ed
un nuovo giorno s’avvicina. Anche per questa notte ho vinto sul mio demone
e…cin cin a lui.
mercoledì 22 febbraio 2017
Horus
“Tutto andrà bene.” Normalmente erano queste le ultime parole
che l’indovino bugiardo diceva ad ogni suo cliente.
-Plutone si trova in trigono con Venere, Saturno è in fase
calante e la Luna sta a guardare, quindi è chiaro che il periodo buio ormai è
finito. – La palla di vetro era passata di moda e la zingara che una volta
leggeva la mano era ormai solo sinonimo di ladra o accattona. Adesso era tutto
scientifico, in un campo che di scientifico non aveva niente. Il vecchio
veggente aveva ceduto il passo ad un sedicente studioso che parlando di “effemeridi”
o “solstizi” buttava tanto fumo negli occhi quanto i suoi predecessori più “naïf”.
Ma la credulità dei creduloni era sempre la stessa e se la speranza poteva
essere comprata col denaro, erano comunque soldi spesi bene.
-Si accomodi. – Lui era bravissimo. Gli era stato consigliato
dalla sua amica Lina che, tramite il veggente, aveva scoperto il tradimento del
marito, anche se lei ne era certa da tempo. Franca si riteneva una donna matura
e preparata intellettualmente. Era una madre di famiglia, ma anche la manager
di una società di import-export che aveva creato dal nulla pochi anni prima. Si considerava realizzata e felice, per quanto era nelle umane possibilità, ma era da
sempre affascinata dal mondo del paranormale, dove quel prefisso: “para” poteva
precedere anche parole volgari sinonimo di fondo schiena. La sua passione era
nata quando, adolescente, aveva partecipato ad una seduta spiritica a casa di un
amico. Quello era un ragazzo che conosceva bene, studiava come lei e certamente
non aveva alcun interesse nel fare trucchetti ad effetto. Quando andava da lui,
con il gruppo che frequentava allora, spesso i pomeriggi finivano attorno ad un
tavolino rotondo. Edoardo, così si chiamava, invitava quattro o cinque dei presenti
a sedersi unendo le mani per formare la catena. Generalmente faceva accomodare
il suo compagno di scuola di fronte a lui ed altre due o tre ragazze nei posti rimanenti,
poi cominciava il magico rituale. “Mi senti?” chiedeva, e…il tavolino prendeva
vita. Volava! Sissignore: volava, mentre tutte le mani erano “sopra” il piano
di legno. Franca l’avrebbe potuto giurare. Alle storie riguardanti i fantasmi o
le entità immateriali la donna asseriva di non credere, ma da allora…non ci
avrebbe messo la mano sul fuoco. Quindi, quando si trovò in un momento nel
quale il futuro le appariva problematico, pensò di rivolgersi all’astrologo
tanto rinomato e referenziato che non poteva essere altro che affidabilissimo.
-Horus, – lo apostrofò con un nome che mal si addiceva al
personaggio di evidenti origini romanesche – dammi il tuo responso. Cosa vedi
nel mio futuro e, come dice l’adiposo baffuto, cosa c’è dietro l’angolo della
mia vita? – Il santone diplomato (da improbabili università con sede a Tirana o
Katowice) si concentrò per un momento. Si vedeva chiaramente come stesse patendo
il parto di una previsione che doveva provenirgli direttamente dalla Saggezza
del Cosmo o da uno Spirito Guida a sua disposizione.
-Cara Franca, la tua anima è nobbile e senzibile (raddoppiando
e sostituendo consonanti) e le risposte a queste domande le puoi trovare dentro
di te, ma sono sbagliate. Io vedo…, vedo…
-Cosa? Non tenermi sulle spine.
-Abbi pazzienza, che mo’ te dico. Te voi sposà?
-No, sono già sposata.
-Appunto, dicevo, nun te voi sposà perché sei felicemente
maritata.
-Mica tanto.
-Certo, e famme finì! Saresti felicemente maritata se tutto
andasse bene, ma non è così. Vero?
-Diciamo che siamo in un momento di crisi.
-Esatto! Proprio quello che me dicono gli astri: c’è crisi,
grande crisi. Vedo…una donna.
-Quella mignotta!
-Ehhh, mo’. Mignotta me pare troppo, diciamo puttana che è un
gradino più basso. Comunque è una presenza negativa che disturba la tua relazione
di coppia.
-Lo sapevo!
-Anch’io, anzi le stelle lo sapevano. Però nun te devi
preoccupà perché vedo…, vedo…che è una presenza passeggera. Tuo marito tornerà
da te.
-Neanche per sogno! Non lo voglio più quel puttaniere.
-Appunto, tornerà ma tu lo caccerai. E c’hai raggione perché il
lupo perde er pelo ma nun er vizzio, e se nun voi esse infelice lo devi mandà
riccamente a fa…
-Ho capito.
-Vedi: sei stata illuminata, hai capito. Hai compreso come l’universo
vive in te e la sofferenza della tua vita si possa poi subliminare nella crescita
spirituale dell’anima tua.
-Non ho capito.
-E nun devi a da capì. Te devi fidà. Te fidi?
-Mi fido.
-E allora lassa duecento euri sotto la statuetta di Visnù che
Horus te cura e te segue, te cura e te segue. Te voi fa curà e seguì? – Franca era
forse credulona, ma non stupida. I soldi se li sudava e quando doveva pagare
per una prestazione tornava immediatamente lucida.
-A mago, duecento euro so’ na’ cifra. Mi assicuri che la mia
vita cambierà?
-Certo, Horus te protegge, anima mia. Vieni tra le mie braccia,
abbandona le tue preoccupazioni e lasciati cullare. Domani sarà un altro giorno
ed il sole splenderà sulla tua vita. Quello che oggi ti preoccupa verrà
spazzato via e percorrerai una strada dove rose e gelsomini spanderanno il loro
profumo per carezzare la tua anima. Correrai con me verso il tramonto ed il
sole scalderà le tue gote mentre ti accorgerai di come il mondo ti ami e di
quanto ancora saprai cogliere nel percorso della tua esistenza. Dovrai sopportare qualche piccola spina, ma i fiori che coglierai riempiranno di colori
e di bellezza la tua esistenza.
-Ohhh!!
-Esatto, ma so duecento euri.
Franca pagò volentieri.
martedì 21 febbraio 2017
Carousel
In Inghilterra lo chiamano “carousel”, e quel termine gli
sembrava in qualche maniera più adatto a descrivere il colorato marchingegno.
Forse perché la parola richiama il Carosello dei Carabinieri, con i cavalli
addestrati a muoversi al suono della fanfara con la grazia di un corpo di ballo,
oppure perché gli faceva tornare in mente il vecchio programma pubblicitario
trasmesso dalla televisione, comunque il sostantivo italiano: “giostra” gli appariva
scialbo riferito ad un armamentario costruito allo scopo di far sognare. Ne
avevano montato uno nel piccolo parco nelle vicinanze della sua abitazione ed
ogni volta che passava lì accanto, richiamato dalle marcette musicali sparate
dagli altoparlanti e dalle grida dei bambini, non poteva fare a meno di
fermarsi per un momento. In certe ore del giorno, specialmente al crepuscolo,
sembrava che una fata passasse in volo lanciando un incantesimo sopra al branco
dei piccoli stalloni rampanti che, illuminati da neon e faretti, prendevano
vita lanciandosi in un galoppo frenato solo dal palo di sostegno. Ogni sera, mentre
il giardino si piano piano si svuotava, il rumoroso gioco rimaneva solitario e spendente,
come un’isola di gioia in un mare oscuro, mentre gli specchi ancora in
movimento lanciavano bagliori di luce verso le panchine abbandonate ed i
cespugli in penombra.
-Anche a lei piacciono le giostre? – Cosa voleva quella
ragazza da lui? Non aveva voglia di parlare con nessuno, e tantomeno con una
bella giovane donna che, chissà perché, sembrava voler attaccare bottone.
-Già. – Meno sillabe possibili, e la speranza che la sua
scontrosità la inducesse ad allontanarsi.
-Non so – disse lei – se la giostra mi mette allegria o
tristezza. Da una parte mi ricorda la mia infanzia e di come ero spaventata
mentre mio padre mi sollevava per farmi inforcare quel destriero che mi appariva
tanto minaccioso, anche se immobile. Dall’altra mi sembra sempre il compendio
dei sogni, dove tutto è illusorio e termina dopo pochi giri. Come le
aspirazioni della vita che ti fanno illudere per brevi momenti e poi ti
riportano a terra senza lasciarti niente se non il rimpianto di una risata fugace.
– Non aveva né la volontà né il tempo per sforzarsi di fare una conversazione
con la sosia di Françoise Hardy. Sorrise fra sé, la ragazza poteva avere una
trentina d’anni e certamente non conosceva la cantante francese, però la
cortesia gli imponeva una risposta.
-Sono solo buffi animali di plastica che corrono in tondo. E’
un’attrazione che probabilmente non emoziona più i bambini di oggi, abituati ai
video giochi ed alle realtà virtuali. A me sembra quasi una forzatura da parte
dei genitori che, grazie ad un rito che li riporta indietro nel tempo, rivivono
il sapore dei giorni perduti.
-Ha ragione. Il fatto che i sogni siano sempre gli stessi è
una menzogna letteraria, e questo vale per tutti, a qualsiasi età. – La guardò
attentamente per la prima volta.
-Incomincia a fare freddo. Le andrebbe un tè? – Le disse
sorprendendosi di se stesso. Non voleva essere cordiale, né tantomeno galante,
ma quella donna lo incuriosiva. Sembrava che fosse una figura senza tempo né età.
Sentiva in lei una saggezza che stonava col suo aspetto e con quel velo di
malinconia che nasce solo dall’esperienza del dolore. La bellezza aveva poca
importanza, anche se non avrebbe potuto essere che bella.
S’incontrarono molte altre volte dopo quel giorno. Lui la
portò a vedere i sacchi di Burri alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e lei
lo imboccò con le bacchette per fargli assaggiare il sushi. Girarono di notte
per Roma scapigliandosi al vento della spider rossa e si fermarono al barcone
sul Tevere per sfidarsi all’ultima tequila. Poi superarono il pudore ed ognuno
fece un passo verso territori prima d’allora sconosciuti. L’uomo assaporò
nuovamente la gioventù e la ragazza si affacciò sul futuro che l’avrebbe
aspettata. Lui si muoveva con circospezione per non corromperla, lei spandeva
gemme di giovinezza come una divinità pagana. Il rapporto era sbilanciato,
nessun bagaglio di esperienza avrebbe mai potuto compensare la meraviglia delle
scoperte, e la forza dell’inizio della vita era sempre vincente sulla
disperazione degli ultimi bagliori di un viaggio.
Un giorno, ad uno dei due, scappò un “ti amo” e quella fu la
fine. Finché ognuno prendeva dall’altro quello che gli mancava, il contratto
poteva dirsi compiuto con la soddisfazione delle parti, ma un passo successivo
significava modificare il rapporto che s’era creato fra di loro. Lei non voleva
amarlo e lui aveva già troppo sofferto.
Si ritrovò a guardare nuovamente il carousel, mentre non
sapeva se essere grato al destino per avergli concesso una parvenza di
primavera oppure maledire la sorte per la nostalgia che sentiva montargli
dentro. Il polline nell’aria lo fece lacrimare, mentre l’ultimo giro di giostra
fermava i cavalli al suono di un vecchio valzer.
domenica 19 febbraio 2017
Cinque minuti e poi
Non c’era un motivo preciso. Forse era solo la voglia di
crescere o il brivido di una piccola trasgressione, ma ero deciso a fare
quell’esperienza tanto comune tra le persone adulte ed assolutamente vietata ai
bambini. Sembrava quasi un rito d’iniziazione, un passaggio tra l’infanzia e
l’adolescenza, tra la bicicletta ed il motorino. Era un po’ lasciare
l’abbraccio della tata per trovare quello di una ragazza, di una donna,
dell’altro sesso, con tutto il mistero ed il fascino che quell’ignoto mondo prospettava.
Staccarsi dal nido, protettivo e caldo, della famiglia per buttarsi nella
strada senza protezione, ma con spavalderia. Lo sapevo che era una cosa
stupida, che non aveva nessun senso e che forse faceva male, ma in qualche modo
sembrava essere il segno distintivo per far parte dei “grandi” che della vita
conoscevano quello che io ancora immaginavo solamente. Inoltre quella sera
c’era la luna piena, e sul terrazzo di casa un chiarore lattiginoso creava
ombre romantiche e piene di mistero. Le piante nei vasi si agitavano lievemente
nella leggera brezza notturna ed il profumo dei primi gelsomini rimandava a
notti d’oriente ed odalische velate, come sul libro che stavo leggendo. Mi
sembra fosse primavera perché certamente non faceva freddo, o forse io non lo
sentivo, ammaliato da quella fatale ed indimenticabile serata. La spinta
decisiva fu un disco che avevo appena comprato. Parlava di un addio tra due
innamorati e, non so perché, in qualche modo mi solleticava il cuore facendomi
fantasticare di imminenti romantiche avventure. Presi in mano il veleno e, con
circospezione, assicurandomi che tutti fossero a letto, varcai la porta
finestra senza accendere alcuna luce. Per prima cosa controllai che la
tartaruga avesse mangiato la foglia di lattuga che gli avevo lasciato, ma
questo fu l’ultimo atto legato all’infanzia prima della svolta decisiva. Per
creare la giusta atmosfera, avevo portato con me il mangiadischi ed inserii il
45 giri nella fessura tenendo basso il volume. Un tempo le canzoni si sentivano
a ripetizione, ed ogni volta che l’apparecchio risputava il vinile, lo
ricacciavo dentro per riascoltare il brano. Venne il momento e quindi, sapendo
di fare una cosa vietata, con animo rivoluzionario, misi le mani in tasca. Mi
ero preparato da tempo, ma solo in quel momento, ed aiutato da Maurizio dei New
Dada, presi il coraggio a due mani. Inforcai tra l’indice ed il medio il bianco
cilindretto e, spavaldamente, l’avvicinai alla bocca. La fiamma di un cerino
infocò il tabacco ed io detti la prima boccata. “Cinque minuti e poi…” cantava
lo zazzeruto beatnik, ed un conato di vomito sottolineò la sua melodia.
giovedì 16 febbraio 2017
Avanti popolo!
-Stocchi!
-Sì, commendatore.
-Stocchi, lei mi sta sempre distratto. Le dico di venire e venga, benedett’uomo.
-Sì, commendatore.
-Stocchi, lei è laureato in ingegneria, vero?
-Con lode, commendatore.
-E allora, Stocchi, com’è che non sa fare neanche una fotocopia? Guardi qua: il progetto Bufalotta non riporta le ultime due pagine. Lo sa, Stocchi, che in quegli appunti c’è un affare di milioni di euro per la nostra impresa? Riguarda la costruzione di un Palazzetto dello Sport alla periferia di Roma e, se verrà approvato dal Campidoglio, sarà…pane, burro e marmellata per tutti.
-Certo, commendatore.
-Certo un cavolo, Stocchi, se il dossier non è completo l’assessore potrebbe rigettarlo. Lo sa questo, Stocchi?
-Se lo dice lei, commendatore…
-Lo dico, lo dico. Vada a fare le copie di quelle pagine e le unisca alle altre.
-Si, commendatore.
-Stocchi?
-Dica?
-Di corsa! Stocchi, muoversi!
Poi mi chiamano “palazzinaro” o “trafficone”, ma sapessero che fatica trattare con impiegati che, solo perché hanno una laurea, si sentono frustrati nello svolgere compiti non adeguati al loro titolo, mentre dovrebbero essere grati di percepire tutti i mesi mille e duecento euro di stipendio, anche se non segnati. Ecchecavolo! Prendessero esempio dai miei inizi, negli anni sessanta, quando lavoravo come galoppino di un noto costruttore che, grazie ai suoi agganci politici, si aggiudicava l’appalto di quasi tutte le grandi opere in cantiere nella capitale. Non avevo un titolo di studio, ma ero sveglio, intraprendente e affamato, con la voglia di arrivare e fare soldi. Ogni affare chiuso per conto dell’impresa significava qualche “briciola” per me, che mi sudavo correndo da un ministero all’altro. Ma anche una piccola percentuale, su miliardi di lire, erano tanti soldi che poi investivo con spregiudicatezza e senza guardare troppo per il sottile. Alla lunga sono riuscito a mettere da parte un capitale che mi ha permesso di aprire una mia società che adesso è tra le più importanti nel settore. Da sempre ho capito che soldi e poteri forti vanno a braccetto, e che se avessi voluto i primi avrei dovuto corteggiare i secondi. Non mi hanno mai interessato i colori: nero, rosso, verde o “pallido” sono tutti uguali di fronte alle fette di torta, più o meno ampie, ricevute sottobanco.
-Fatto, commendatore.
-Bravo Stocchi, vede che se vuole, anche se ormai ha cinquant’anni suonati e dovrebbe avere già imparato, riesce a far bene il suo lavoro?
-Grazie, commendatore.
-Adesso vada, e mi mandi Rosetta.
-Subito, commendatore.
-Rosetta, si accomodi. Lei che è la mia segretaria da tanto tempo, si ricorda di un periodo nel quale abbiamo distribuito più “carezze” di questo?
-Commendatore, abbiamo sempre elargito “carezze”, ma anche “abbracci” e tante altre effusioni con generosità e a piene mani. E direi che tutti ce ne sono stati riconoscenti.
-Sì, certo. La mia domanda era, come si dice…pletorica?
-Pleonastica, forse?
-Bah, come vuole, comunque intendevo: superflua. Una volta ci si presentava con una bella busta gonfia al punto giusto e non c’erano telecamere nascoste o microfoni a rompere le balle. Oggi invece bisogna inventarci, come dire, una “bustarella punto due”.
-Non capisco.
-Rosetta, mi ci vede a portare nell’ufficio dell’onorevole una valigetta piena di soldi? L’ho fatto tante volte in passato, ma non c’erano controlli incrociati, verifiche bancarie o restrizioni al denaro circolante. Tutto molto più semplice e onesto, in un certo senso. Oggi sarebbe impensabile, o molto rischioso, e quindi si deve lavorare di fantasia.
-Sentiamo.
-Avrei pensato questo, mi segua bene. Al dottor XXXXXX paghiamo le rate restanti del muto che ha acceso per il suo appartamento con vista sul Colosseo; per l’onorevole YYYYYY prenotiamo una bella vacanza ai Caraibi con tutta la famiglia a spese nostre. Quando poi sarà alle Cayman intesteremo alla moglie le quote di una società “off shore” con in portafoglio una villa a Cannes.
-Ottimo, ma per il personaggio più importante? Capisce chi intendo?
-Quello è più difficile. Bisogna stare attenti perché è sotto al mirino di tutti, ma mi è venuto un lampo di genio.
-Mi illumini.
-Per lui farei qualcosa a suo beneficio, ma che non sia un arricchimento diretto. Una sorta di garanzia che gli dia la certezza che abbiamo provveduto in maniera sostanziosa, ma che non gli faccia sporcare le mani. Insomma una dazione di fondi in qualche maniera mascherata e non troppo sfacciata.
-Come si fa a dare dei soldi senza darli?
-Ecco…si potrebbe intestare al nostro amico, ufficialmente a sua insaputa, una polizza vita di un importo che non si debba dichiarare. L’assicurazione è riscattabile dopo qualche tempo e diventa quindi denaro liquido, mentre intanto si configura come il pegno per una certa somma depositata a suo favore. Come la vede?
-Geniale, commendatore, semplicemente geniale.
-Grazie, Rosetta. Ma cos’è questo rumore che viene dalla strada? Andiamo alla finestra a vedere.
Il commendatore e la segretaria si affacciarono alla finestra e videro una moltitudine di persone, con cartelli e striscioni, che urlava slogan e agitava bastoni. Qualche caporione aveva in mano un megafono e aizzava gli animi esacerbati dei manifestanti. La folla era composta da giovani che sventolavano bandiere di tutti i colori, ma anche da uomini e donne più maturi oltre che da vecchi che sembravano particolarmente arrabbiati. Erano migliaia ed occupavano tutta la piazza ed il corso adiacente e sembravano diventare sempre di più. Camionette della Polizia sostavano ai margini del raggruppamento, ma i celerini non apparivano particolarmente vogliosi di contrastare chi protestava, anzi qualcuno si stava levando il casco e le protezioni della divisa passando dall’altra parte. Ad un certo punto si vide uno che, levando la voce al di sopra del clamore, sembrò impartire un ordine. In mano brandiva il manico di un piccone. Al suo comando la folla si mosse compatta e decisa verso i palazzi del potere. Quello fu l’inizio della rivoluzione.
lunedì 13 febbraio 2017
Wicapasaca
Voleva per forza una Mustang Cabriolet e si era attaccato al telefono per un pomeriggio intero, cercando in tutte le agenzie di noleggio, finché non aveva trovato quello che cercava. Si accordò per ritirare la macchina a Needles perché quella cittadina era la porta per il deserto del Mojave, in California. La sua intenzione era di percorrere un tratto della Route 66, che tante volte aveva sognato come meta di un’avventura americana, però voleva subito confrontarsi con la parte più dura. Non gli interessava visitare le cittadine finto-western che si snodavano lungo l’arteria d’asfalto, né far finta d’apprezzare i rimasugli dell’epoca dei pionieri, tutti falsi e messi apposta per i turisti. Non voleva attraversare paesaggi maestosi o parchi naturali, lui voleva il deserto. Quella distesa di rocce incandescenti, piante di cactus e Joshua Trees che con i loro ciuffi di foglie appuntite punteggiano un paesaggio altrimenti arido e desolato. Sentiva il bisogno di sbattersi in faccia la solitudine e meglio sarebbe stato se questa avesse comportato una certa sofferenza fisica dovuta al caldo o alla mancanza di comodità. Immaginava la macchina di cinquemila di cilindrata come l’unica sua amica in un trasferimento che odorava d’avventura. Si comprò uno Stetson dalle ampie falde e tirò giù la cappotta dell’auto, poi premette a fondo l’acceleratore godendo della risposta di tutti i cavalli nascosti negli otto cilindri del motore. La vettura, nera con gli interni di pelle rossa, fece un balzo in avanti ed a lui scappò uno “Yahooooo!” a pieni polmoni come fosse il capo carovana di un convoglio di pionieri. Sulla strada non c’era anima viva, e non doveva esserci. Con un atto irresponsabile e forse puerile, prese il cellulare dalla tasca e con tutta la forza lo buttò il più lontano possibile sentendosi libero da quel legame con il mondo dal quale voleva estraniarsi. In quel momento gli sembrò di scendere in un’arena e voleva trovare in quell’ambiente ostile qualcosa da sfidare. Avrebbe potuto essere il clima, oppure un serpente a sonagli o qualche Apache sbandato, comunque sarebbe stato l’avversario con cui si sarebbe confrontato per trovare i limiti del suo coraggio o per restare sgomento innanzi alla sua vigliaccheria. Si augurava quasi che improvvisamente finisse la benzina e lui fosse costretto a caricarsi sulle spalle lo zaino che aveva preparato per proseguire a piedi in cerca di soccorsi. Naturalmente erano tutte fantasie, ma attraversando il deserto ogni miraggio è un’illusione, e lui era lì per questo.
Si dice che la cosa peggiore che possa capitare a qualsiasi essere umano è che si avverino i propri desideri, e questo volle il destino per punire l’uomo. Un guasto al motore fermò la Mustang nel mezzo del nulla e lui, senza alcun modo per mettersi in contatto con i soccorsi, si ritrovò solo nel deserto del Mojave. Scese dall’auto inquieto, ma non ancora spaventato, in fondo si trovava in un paese civile: qualcuno sarebbe passato e l’avrebbe soccorso. Si accovacciò sul ciglio della strada e aspettò di vedere una rassicurante nuvoletta di polvere all’orizzonte. Il sole era alto nel cielo e da sotto il cappellone da cow boy scendevano gocce di sudore a bruciargli gli occhi già irritati dal riverbero della luce. Sedersi nell’auto non sembrava una buona idea, la carrozzeria scura ed i sedili in pelle l’avevano in breve tempo trasformata in una graticola, d’altronde restare fermo senza un riparo stava cominciando a diventare e insopportabile. Si guardò attorno per trovare una qualche copertura che potesse fornire un po’ d’ombra. Proprio a patire da quel punto, vicino alla strada, si snodava un sentiero battuto che sembrava portare ad una grande roccia non troppo lontana. “Sotto quel masso potrei trovare riparo almeno per le ore più calde.” Pensò, e prendendo solo una coperta ed una bottiglietta d’acqua che aveva comprato prima di partire, lasciò la Mustang incustodita incamminandosi sul viottolo polveroso. Forse i troppi film western veduti fin dall’infanzia, la musica country che spesso ascoltava in cuffia davanti al pc di casa oppure i libri di Kerouac che tante illusioni avevano fomentato in tutta una generazione, gli avevano fatto sognare quello ora stava vivendo. Ma non era una situazione così facile come aveva pensato e la sfida cominciava a diventare impegnativa per uno come lui che non aveva mai fatto neanche un solo giorno di campeggio in vita sua. “Gambe in spalla.” Si disse compatendosi per la sua stupidità e, con uno strano stato d’animo tra l’eccitazione e la paura, si diresse verso la formazione rocciosa. Questa in lontananza si presentava con una strana forma. Non era piatta in cima, come altri rilievi intorno, ma somigliava quasi ad una mongolfiera d’arenaria, una sorta di pallone oblungo, forse modellato dai caldi venti del deserto. Era partito alla mattina, non presto, e dopo che la macchina l’aveva piantato in asso aveva camminato per circa tre ore, quindi in quel momento il sole era a perpendicolo e l’ombra dell’uomo sul terreno spariva sotto le sue scarpe. Gli avevano detto che quella non era la stagione più calda ma, forse perché non abituato, gli sembrava di trascinarsi nella bocca aperta di una fornace. Doveva affrettarsi per trovare un po’ d’ombra, sentiva già girargli la testa e l’arsura stava diventando insopportabile. Si attaccò alla bottiglietta d’acqua maledicendosi per non aver preso una confezione grande, tanto sulla strada avrebbe trovato punti di ristoro. “Ma com’è che più vado avanti, più quel cavolo di montagna sembra allontanarsi?” Il calore che saliva dal suolo modificava la percezione delle distanze e l’immagine tremolante della meta sembrava voler giocare a rimpiattino, ferma tra sabbia e sterpaglie senza mai avvicinarsi. Il tempo scorreva lentamente mentre, passo dopo passo, s’inoltrava nel deserto. Ormai, voltandosi indietro, non vedeva più il nastro d’asfalto alle sue spalle e pensò a quanto stupido gli sembrasse adesso quel desiderio di solitudine espresso solo poche ore prima. Il sole s’inclinava gradualmente verso l’orizzonte facendo nascere e muovere le ombre di ogni elemento del paesaggio. Attorno agli alti cactus e vicino ai cespugli si allungavano forme di tutte le dimensioni, in un lento ed inquietante balletto che cambiava pur nella più assoluta immobilità. Anche la roccia in lontananza si mostrava diversa. Mentre prima era solo un informe grande sasso adesso, col variare della luce, i due fori e la piccola caverna che s’intravedeva alla base componevano un’immagine definita. Probabilmente sarà stato per la stanchezza che cominciava a farsi sentire, ma all’uomo quel solitario masso d’improvviso apparve come un enorme teschio con le scure orbite vuote ed una bocca sdentata spalancata ed in attesa. “Superstizione ed autosuggestione.” Si disse continuando a camminare. D’altronde non aveva molte alternative, doveva trovare un riparo dal sole e forse anche un rifugio per la notte. L’indomani si sarebbe rimesso in strada prima dell’alba ed, evitando il calore del giorno, avrebbe raggiunto una qualche zona abitata. Magari ci sarebbe stata la possibilità di incrociare qualche altro viaggiatore che avrebbe potuto soccorrerlo.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, finalmente arrivò nei presi della formazione rocciosa. Si fermò a qualche metro di distanza e guardò il masso con attenzione. “Sembra proprio un cranio umano piantato sulla sabbia. Mi sembra di ricordare che, da queste parti si trova la Roccia del Teschio, un luogo magico e sacro per gli indiani. Chissà, forse è proprio questa. Comunque quella grotta dovrebbe fare al caso mio.” Mise piede dentro all’anfratto alla base della montagnola e, per prima cosa, si accertò che non ci fosse qualche animale selvatico. Non trovò coyote, puma o serpenti ad aspettarlo, e per questo fu grato al cielo. “Grazie, Signore. O forse dovrei rivolgermi a Manitù, la divinità dei nativi americani che probabilmente abitarono questo sito tanti anni fa.” Con una frasca trovata nei pressi dette una ramazzata in terra per togliere i sassolini e creare uno spiazzo dove sedersi. Disturbati dal prepotente intruso, una frotta di insetti di genere assortito, scorpioni, millepiedi e piccole altre cose striscianti, corse via sparpagliandosi verso ogni direzione. “Via di torno!” La stanchezza si faceva sentire, e l’uomo stese la coperta che aveva portato con sé accucciandosi con la schiena appoggiata alla parete per riposarsi un po’.
Il sonno vinse sulla fame e la sete, e l’uomo scivolò in uno stato d’incoscienza popolato da visioni di cieli infiniti percorsi da stormi di bianchi uccelli in volo verso sud, ma anche da incubi spaventosi dove enormi cobra, con i denti appuntiti e la lingua sibilante, soffiavano veleno verso di lui. Smaniava e si lamentava, mentre fuori della grotta la notte stendeva il suo sudario trapunto di pagliuzze d’oro su un mondo nuovo che si destava nell’oscurità. Quello stordimento fu la sua salvezza perché gli impedì di pensare a cosa si muovesse intorno a lui e di come, nella sua vulnerabilità, avrebbe potuto facilmente essere preda della natura ostile. Nel dormiveglia gli apparve un coyote che ululava alla luna e, con sua grande meraviglia, lui capì quello che l’animale stava implorando. “Oh Pah, placida Signora, che spargi il latte dei tuo raggi sul mondo e consoli le vergini, - diceva l’animale allungando il collo verso il cielo - guarda benevola l’uomo bianco nella bocca di Wicapasaca e proteggilo in quella che non è la sua casa.” Poi improvvisamente gli si parò innanzi il volto di un vecchio indiano. La faccia, avvizzita e rugosa, mostrava tutto il passare degli anni ed ogni piccola piega era la testimonianza di un dolore vissuto e di una saggezza acquisita. Segni colorati gli attraversavano la fronte e le gote ed uno strano copricapo, fatto di penne, sonagli e piccoli teschi, lo adornava come la divisa piena di medaglie di un soldato reduce da mille conflitti. Legato al collo portava un laccio di cuoio con un piccolo turchese, incastonato d’argento, dov’era incisa l‘immagine di un’aquila con le ali spiegate.
-Perché sei venuto? -Chiese il pellerossa.
-Non lo so più. – Rispose l’uomo. – Ero partito con la speranza di ritrovarmi ed adesso ho paura di essermi perso.
-Vuoi davvero vedere dentro di te?
-Non so rispondere, non più. – Fu l’improvvisa paura di conoscersi a fondo e la certezza che quel vecchio sciamano avrebbe potuto penetrare dentro le remote pieghe della sua anima mostrandogli il risultato, che spaventò l’uomo. L’indiano lo guardò a lungo in silenzio e poi cominciò a dondolare la testa avanti ed indietro in un movimento lento ed ipnotico. Una nenia antica cantata senza voce si diffuse intorno ed il suono di lontani tamburi riempì il silenzio della notte.
-Il Grande Spirito ti ama, o hai fatto qualche buona azione che ti sta ricompensando, perché vedo che ancora non sei pronto per cavalcare nelle praterie del cielo. Però devi imparare da questa esperienza. Ascolta attentamente e ricorda. Non chiedere se non sei pronto a sentire le risposte. Non sfidare se non sei pronto a soccombere. Non tentare la fortuna se non sei disposto a perdere tutto. Vai nel deserto, o percorri la vita, con un fardello leggero, ma non dimenticare le cose veramente importanti. Ad un certo punto dovrai lasciare la vecchia strada, dritta e comoda, per un percorso ignoto e scomodo, ma se non lo farai qualcun altro percorrerà il sentiero che, per paura, non avrai imboccato e ti rimarrà il rimpianto. Oggi hai sofferto, ma hai avuto la visione. Non hai penato invano, e questo t’insegni che la sofferenza può dare tanto quanto toglie, se la sai accettare. – Dopo queste parole, il vecchio sciamano riprese il suo canto muto e, lentamente, la sua immagine si sfocò confondendosi tra i fumi e le melodie di una danza sacra.
L’uomo si agitò per tutta la notte in preda a visioni oniriche di ogni genere finché una mano robusta non lo scosse per la spalla.
-Sveglia, signore.
-Chi siete?
-Polizia di Stato. Abbiamo visto la macchina ferma sul ciglio della strada e, pensando che qualcuno potesse avere bisogno d’aiuto, abbiamo seguito le orme sul sentiero. Si sente bene?
-Si, si grazie. – Rispose l’uomo felice di poter tornare alla sua vita e di lasciarsi alle spalle la caverna con tutti gli strani sogni della notte. Era ancora turbato dalle visioni fantastiche che l’avevano perseguitato durante il sonno. Come a volte succede, faceva fatica a tornare del tutto alla realtà, ma un caffè versato dal thermos del poliziotto lo aiutò a chiudere la pagina di quella strana avventura. Si alzò aiutato dall’agente e fece qualche passo barcollante, ma si sentiva tutto intorpidito, quasi non si reggeva in piedi. Aveva le mani serrate a pugno, forse come reazione al freddo o alla tensione delle ultime ore. Stese le dita e qualcosa cadde a terra. Pensò ad un sassolino e stava per andare via quando un riflesso di luce lo fece chinare per vedere di cosa si trattasse. Raccolse un piccolo pendaglio d’argento con incastonato un turchese sul quale era incisa un’aquila. Lasciò la bocca del teschio stringendo in mano il ricordo di un sogno che forse non aveva solamente sognato.
Si dice che la cosa peggiore che possa capitare a qualsiasi essere umano è che si avverino i propri desideri, e questo volle il destino per punire l’uomo. Un guasto al motore fermò la Mustang nel mezzo del nulla e lui, senza alcun modo per mettersi in contatto con i soccorsi, si ritrovò solo nel deserto del Mojave. Scese dall’auto inquieto, ma non ancora spaventato, in fondo si trovava in un paese civile: qualcuno sarebbe passato e l’avrebbe soccorso. Si accovacciò sul ciglio della strada e aspettò di vedere una rassicurante nuvoletta di polvere all’orizzonte. Il sole era alto nel cielo e da sotto il cappellone da cow boy scendevano gocce di sudore a bruciargli gli occhi già irritati dal riverbero della luce. Sedersi nell’auto non sembrava una buona idea, la carrozzeria scura ed i sedili in pelle l’avevano in breve tempo trasformata in una graticola, d’altronde restare fermo senza un riparo stava cominciando a diventare e insopportabile. Si guardò attorno per trovare una qualche copertura che potesse fornire un po’ d’ombra. Proprio a patire da quel punto, vicino alla strada, si snodava un sentiero battuto che sembrava portare ad una grande roccia non troppo lontana. “Sotto quel masso potrei trovare riparo almeno per le ore più calde.” Pensò, e prendendo solo una coperta ed una bottiglietta d’acqua che aveva comprato prima di partire, lasciò la Mustang incustodita incamminandosi sul viottolo polveroso. Forse i troppi film western veduti fin dall’infanzia, la musica country che spesso ascoltava in cuffia davanti al pc di casa oppure i libri di Kerouac che tante illusioni avevano fomentato in tutta una generazione, gli avevano fatto sognare quello ora stava vivendo. Ma non era una situazione così facile come aveva pensato e la sfida cominciava a diventare impegnativa per uno come lui che non aveva mai fatto neanche un solo giorno di campeggio in vita sua. “Gambe in spalla.” Si disse compatendosi per la sua stupidità e, con uno strano stato d’animo tra l’eccitazione e la paura, si diresse verso la formazione rocciosa. Questa in lontananza si presentava con una strana forma. Non era piatta in cima, come altri rilievi intorno, ma somigliava quasi ad una mongolfiera d’arenaria, una sorta di pallone oblungo, forse modellato dai caldi venti del deserto. Era partito alla mattina, non presto, e dopo che la macchina l’aveva piantato in asso aveva camminato per circa tre ore, quindi in quel momento il sole era a perpendicolo e l’ombra dell’uomo sul terreno spariva sotto le sue scarpe. Gli avevano detto che quella non era la stagione più calda ma, forse perché non abituato, gli sembrava di trascinarsi nella bocca aperta di una fornace. Doveva affrettarsi per trovare un po’ d’ombra, sentiva già girargli la testa e l’arsura stava diventando insopportabile. Si attaccò alla bottiglietta d’acqua maledicendosi per non aver preso una confezione grande, tanto sulla strada avrebbe trovato punti di ristoro. “Ma com’è che più vado avanti, più quel cavolo di montagna sembra allontanarsi?” Il calore che saliva dal suolo modificava la percezione delle distanze e l’immagine tremolante della meta sembrava voler giocare a rimpiattino, ferma tra sabbia e sterpaglie senza mai avvicinarsi. Il tempo scorreva lentamente mentre, passo dopo passo, s’inoltrava nel deserto. Ormai, voltandosi indietro, non vedeva più il nastro d’asfalto alle sue spalle e pensò a quanto stupido gli sembrasse adesso quel desiderio di solitudine espresso solo poche ore prima. Il sole s’inclinava gradualmente verso l’orizzonte facendo nascere e muovere le ombre di ogni elemento del paesaggio. Attorno agli alti cactus e vicino ai cespugli si allungavano forme di tutte le dimensioni, in un lento ed inquietante balletto che cambiava pur nella più assoluta immobilità. Anche la roccia in lontananza si mostrava diversa. Mentre prima era solo un informe grande sasso adesso, col variare della luce, i due fori e la piccola caverna che s’intravedeva alla base componevano un’immagine definita. Probabilmente sarà stato per la stanchezza che cominciava a farsi sentire, ma all’uomo quel solitario masso d’improvviso apparve come un enorme teschio con le scure orbite vuote ed una bocca sdentata spalancata ed in attesa. “Superstizione ed autosuggestione.” Si disse continuando a camminare. D’altronde non aveva molte alternative, doveva trovare un riparo dal sole e forse anche un rifugio per la notte. L’indomani si sarebbe rimesso in strada prima dell’alba ed, evitando il calore del giorno, avrebbe raggiunto una qualche zona abitata. Magari ci sarebbe stata la possibilità di incrociare qualche altro viaggiatore che avrebbe potuto soccorrerlo.
Dopo un tempo che gli sembrò interminabile, finalmente arrivò nei presi della formazione rocciosa. Si fermò a qualche metro di distanza e guardò il masso con attenzione. “Sembra proprio un cranio umano piantato sulla sabbia. Mi sembra di ricordare che, da queste parti si trova la Roccia del Teschio, un luogo magico e sacro per gli indiani. Chissà, forse è proprio questa. Comunque quella grotta dovrebbe fare al caso mio.” Mise piede dentro all’anfratto alla base della montagnola e, per prima cosa, si accertò che non ci fosse qualche animale selvatico. Non trovò coyote, puma o serpenti ad aspettarlo, e per questo fu grato al cielo. “Grazie, Signore. O forse dovrei rivolgermi a Manitù, la divinità dei nativi americani che probabilmente abitarono questo sito tanti anni fa.” Con una frasca trovata nei pressi dette una ramazzata in terra per togliere i sassolini e creare uno spiazzo dove sedersi. Disturbati dal prepotente intruso, una frotta di insetti di genere assortito, scorpioni, millepiedi e piccole altre cose striscianti, corse via sparpagliandosi verso ogni direzione. “Via di torno!” La stanchezza si faceva sentire, e l’uomo stese la coperta che aveva portato con sé accucciandosi con la schiena appoggiata alla parete per riposarsi un po’.
Il sonno vinse sulla fame e la sete, e l’uomo scivolò in uno stato d’incoscienza popolato da visioni di cieli infiniti percorsi da stormi di bianchi uccelli in volo verso sud, ma anche da incubi spaventosi dove enormi cobra, con i denti appuntiti e la lingua sibilante, soffiavano veleno verso di lui. Smaniava e si lamentava, mentre fuori della grotta la notte stendeva il suo sudario trapunto di pagliuzze d’oro su un mondo nuovo che si destava nell’oscurità. Quello stordimento fu la sua salvezza perché gli impedì di pensare a cosa si muovesse intorno a lui e di come, nella sua vulnerabilità, avrebbe potuto facilmente essere preda della natura ostile. Nel dormiveglia gli apparve un coyote che ululava alla luna e, con sua grande meraviglia, lui capì quello che l’animale stava implorando. “Oh Pah, placida Signora, che spargi il latte dei tuo raggi sul mondo e consoli le vergini, - diceva l’animale allungando il collo verso il cielo - guarda benevola l’uomo bianco nella bocca di Wicapasaca e proteggilo in quella che non è la sua casa.” Poi improvvisamente gli si parò innanzi il volto di un vecchio indiano. La faccia, avvizzita e rugosa, mostrava tutto il passare degli anni ed ogni piccola piega era la testimonianza di un dolore vissuto e di una saggezza acquisita. Segni colorati gli attraversavano la fronte e le gote ed uno strano copricapo, fatto di penne, sonagli e piccoli teschi, lo adornava come la divisa piena di medaglie di un soldato reduce da mille conflitti. Legato al collo portava un laccio di cuoio con un piccolo turchese, incastonato d’argento, dov’era incisa l‘immagine di un’aquila con le ali spiegate.
-Perché sei venuto? -Chiese il pellerossa.
-Non lo so più. – Rispose l’uomo. – Ero partito con la speranza di ritrovarmi ed adesso ho paura di essermi perso.
-Vuoi davvero vedere dentro di te?
-Non so rispondere, non più. – Fu l’improvvisa paura di conoscersi a fondo e la certezza che quel vecchio sciamano avrebbe potuto penetrare dentro le remote pieghe della sua anima mostrandogli il risultato, che spaventò l’uomo. L’indiano lo guardò a lungo in silenzio e poi cominciò a dondolare la testa avanti ed indietro in un movimento lento ed ipnotico. Una nenia antica cantata senza voce si diffuse intorno ed il suono di lontani tamburi riempì il silenzio della notte.
-Il Grande Spirito ti ama, o hai fatto qualche buona azione che ti sta ricompensando, perché vedo che ancora non sei pronto per cavalcare nelle praterie del cielo. Però devi imparare da questa esperienza. Ascolta attentamente e ricorda. Non chiedere se non sei pronto a sentire le risposte. Non sfidare se non sei pronto a soccombere. Non tentare la fortuna se non sei disposto a perdere tutto. Vai nel deserto, o percorri la vita, con un fardello leggero, ma non dimenticare le cose veramente importanti. Ad un certo punto dovrai lasciare la vecchia strada, dritta e comoda, per un percorso ignoto e scomodo, ma se non lo farai qualcun altro percorrerà il sentiero che, per paura, non avrai imboccato e ti rimarrà il rimpianto. Oggi hai sofferto, ma hai avuto la visione. Non hai penato invano, e questo t’insegni che la sofferenza può dare tanto quanto toglie, se la sai accettare. – Dopo queste parole, il vecchio sciamano riprese il suo canto muto e, lentamente, la sua immagine si sfocò confondendosi tra i fumi e le melodie di una danza sacra.
L’uomo si agitò per tutta la notte in preda a visioni oniriche di ogni genere finché una mano robusta non lo scosse per la spalla.
-Sveglia, signore.
-Chi siete?
-Polizia di Stato. Abbiamo visto la macchina ferma sul ciglio della strada e, pensando che qualcuno potesse avere bisogno d’aiuto, abbiamo seguito le orme sul sentiero. Si sente bene?
-Si, si grazie. – Rispose l’uomo felice di poter tornare alla sua vita e di lasciarsi alle spalle la caverna con tutti gli strani sogni della notte. Era ancora turbato dalle visioni fantastiche che l’avevano perseguitato durante il sonno. Come a volte succede, faceva fatica a tornare del tutto alla realtà, ma un caffè versato dal thermos del poliziotto lo aiutò a chiudere la pagina di quella strana avventura. Si alzò aiutato dall’agente e fece qualche passo barcollante, ma si sentiva tutto intorpidito, quasi non si reggeva in piedi. Aveva le mani serrate a pugno, forse come reazione al freddo o alla tensione delle ultime ore. Stese le dita e qualcosa cadde a terra. Pensò ad un sassolino e stava per andare via quando un riflesso di luce lo fece chinare per vedere di cosa si trattasse. Raccolse un piccolo pendaglio d’argento con incastonato un turchese sul quale era incisa un’aquila. Lasciò la bocca del teschio stringendo in mano il ricordo di un sogno che forse non aveva solamente sognato.
L'Addio al Celibato
Carlo era incaricato di organizzare l’addio al celibato. E questo era preoccupante, molto preoccupante. La festa per Antonio si sarebbe dovuta tenere in un noto ristorante specializzato in piatti a base di pesce ed era riservata ad una quindicina di amici, ovviamente solo maschi. Erano tutti oltre la cinquantina e non certamente di primo pelo. Qualcuno aveva già attraversato le forche caudine del matrimonio rimanendoci scottato, altri erano più o meno felicemente ancora uniti con le rispettive consorti e solo il festeggiato si presentava vergine di tale esperienza all’appuntamento davanti all’Ufficiale di Stato Civile. Il programma era stato a lungo studiato dal manipolo dei più scapocchioni che si erano incontrati per diverse sere con il pretesto di discutere un eventuale viaggio insieme, ma in realtà per pianificare e rendere indimenticabile l’avvenimento. C’era chi suggeriva di far arrivare al ristorante una danzatrice del ventre che dimenasse l’ombelico di fronte all’ospite d’onore per vedere fino a quale gradazione di rosso fuoco sarebbero potute arrivare le sue gote. Un certo Felice propose di tassarsi ognuno di una certa somma e d’ingaggiare un corpo di ballo formato da ballerine di can-can che sventolassero trine e mutande nella sala del banchetto. Il peggio venne da Luca che lanciò l’idea di contattare una Drag Queen di sua conoscenza. Asseriva che quella artista fosse identica (e confermava: proprio identica) a Monica Bellucci e siccome sapeva come raggiungerla, senza rivelare il perché, avrebbe potuto proporle (gli) di trovarsi al ristorante in un tavolo vicino facendo finta di essere lì per caso. Quella (quello) avrebbe dovuto flirtare a distanza con Antonio il quale, incitato da tutti gli amici, si sarebbe sentito in dovere di prendere l’iniziativa. Lei (lui) avrebbe quindi accettato le avance e sarebbe finito (a) sulle ginocchia del futuro sposo, manifestando in quel momento la “sorpresa” tra l’ilarità generale.
-Ottimo. - Dissero tutti. -Ma ancora non ci siamo. - Qualsiasi iniziativa girava intorno a protagoniste di sesso femminile, o parvente tale, ed allora chi meglio di Carlo, riconosciuto “tombeurdes femmes” del gruppo, avrebbe potuto avere lo spunto vincente? Mai disturbare il cane che dorme, stuzzicare il leone o sfruculiare qualsiasi altro animale pericoloso in momentaneo letargo! Fuor di metafora zoofila, si può senz’altro affermare che dare spazio alla sua iniziativa fu come accendere una sigaretta vicino ad un deposito di fuochi pirotecnici: divertente per lo spettacolo ma pericoloso.
-Ragazzi, - esordì Carlo nell’ultima riunione –ho deciso! Questo – disse tirando fuori un foglio di carta protocollo – è un documento regolarmente bollato nel quale si dovrà attestare l’idoneità al matrimonio di Antonio. Come vedete, attualmente non c’è scritto niente, ma dopo un accurato test, sarà la patente che darà il via libera al nostro amico per affrontare il gravoso compito che l’aspetta.
-Deve fare i compiti? – Chiese Silvio che era notoriamente il meno sveglio del gruppo.
-Taci! – Fu il coro di risposta. – Vai avanti, capo! La leadership del gruppo era stata chiaramente assegnata.
-Amici, compagni, sodali. – S’infervorò l'oratore. – Come ogni passaggio importante della vita, anche il matrimonio richiede preparazione e consapevolezza e tali attitudini devono essere riconosciute da un’Autorità Competente.
-Giusto.
-Giusto!!!
-GIUSTOOOO!!!! In varie gradazioni, si dichiararono tutti d’accordo.
-Quindi – riprese il “Lider Maximo” (o novello “Duce”, come forse a lui sarebbe piaciuto di più.) – andrò da Mara e Gina presso il loro luogo di lavoro sito in Viale Tiziano, angolo Via Dorando Pietri, secondo platano a sinistra, ed ingaggiandole ci avvarremo della loro professionalità.
-Dobbiamo prendere appuntamento?
-Zitto Silvio, non è cosa per te.
Cento euro a testa e la cena compresa fu la parcella delle dottoresse che si presero l’impegno di verificare reattività, riflessi e funzionalità muscolari, sia consapevoli che involontari, dell’ancora ignaro paziente. Al fine di garantire che i corretti input emozionali scatenassero le corrispondenti risposte fisiche, le esperte (mooolto esperte) s’impegnarono a mettere in atto, al meglio delle loro capacità, quanto appreso in anni di duro lavoro ed esperimenti su una quantità di cavie consenzienti.
Quando gli amici furono tutti seduti al tavolo del ristorante, si abbassarono le luci e contemporaneamente i commensali alla destra ed alla sinistra di Antonio si alzarono lasciando vuote le sedie. Al loro posto si accomodarono Mara e Gina, mentre il festeggiato si trovò a boccheggiare stupefatto, imbarazzato ed emozionato dalle esuberanti vicine.
-Ma no, perché? Chi… Eh, siete sempre i soliti… Non posso…Eddaiiii!!!
Anche le donne cominciarono a divertirsi e lo champagne, versato generosamente nei bicchieri, contribuì a sciogliere gli ultimi freni inibitori rimasti.
Per i posteri si dovrebbe stilare una cronaca puntuale degli avvenimenti, ma forse dovrebbe avere il pallino rosso del “parental control”. Basti accennare che ad un certo punto Antonio scivolò su un collant finendo sotto al tavolo, Silvio si mise ad urlare: “l’ho vista, l’ho vista!!!” e Mara se ne uscì con un: “Ragazzi, cinquanta euro in più altrimenti non se ne fa niente.” La cosa importante è che, debitamente incorniciato, dietro la scrivania, accanto alla Laurea ed al Diploma dell’MBA, chi entrasse nello studio di Antonio oggi potrebbe vedere l’attestato per il quale lui va’ più fiero concesso con un bel 110 cum laude, bacio, abbraccio ed altro (accademici, s’intende).
-Ottimo. - Dissero tutti. -Ma ancora non ci siamo. - Qualsiasi iniziativa girava intorno a protagoniste di sesso femminile, o parvente tale, ed allora chi meglio di Carlo, riconosciuto “tombeurdes femmes” del gruppo, avrebbe potuto avere lo spunto vincente? Mai disturbare il cane che dorme, stuzzicare il leone o sfruculiare qualsiasi altro animale pericoloso in momentaneo letargo! Fuor di metafora zoofila, si può senz’altro affermare che dare spazio alla sua iniziativa fu come accendere una sigaretta vicino ad un deposito di fuochi pirotecnici: divertente per lo spettacolo ma pericoloso.
-Ragazzi, - esordì Carlo nell’ultima riunione –ho deciso! Questo – disse tirando fuori un foglio di carta protocollo – è un documento regolarmente bollato nel quale si dovrà attestare l’idoneità al matrimonio di Antonio. Come vedete, attualmente non c’è scritto niente, ma dopo un accurato test, sarà la patente che darà il via libera al nostro amico per affrontare il gravoso compito che l’aspetta.
-Deve fare i compiti? – Chiese Silvio che era notoriamente il meno sveglio del gruppo.
-Taci! – Fu il coro di risposta. – Vai avanti, capo! La leadership del gruppo era stata chiaramente assegnata.
-Amici, compagni, sodali. – S’infervorò l'oratore. – Come ogni passaggio importante della vita, anche il matrimonio richiede preparazione e consapevolezza e tali attitudini devono essere riconosciute da un’Autorità Competente.
-Giusto.
-Giusto!!!
-GIUSTOOOO!!!! In varie gradazioni, si dichiararono tutti d’accordo.
-Quindi – riprese il “Lider Maximo” (o novello “Duce”, come forse a lui sarebbe piaciuto di più.) – andrò da Mara e Gina presso il loro luogo di lavoro sito in Viale Tiziano, angolo Via Dorando Pietri, secondo platano a sinistra, ed ingaggiandole ci avvarremo della loro professionalità.
-Dobbiamo prendere appuntamento?
-Zitto Silvio, non è cosa per te.
Cento euro a testa e la cena compresa fu la parcella delle dottoresse che si presero l’impegno di verificare reattività, riflessi e funzionalità muscolari, sia consapevoli che involontari, dell’ancora ignaro paziente. Al fine di garantire che i corretti input emozionali scatenassero le corrispondenti risposte fisiche, le esperte (mooolto esperte) s’impegnarono a mettere in atto, al meglio delle loro capacità, quanto appreso in anni di duro lavoro ed esperimenti su una quantità di cavie consenzienti.
Quando gli amici furono tutti seduti al tavolo del ristorante, si abbassarono le luci e contemporaneamente i commensali alla destra ed alla sinistra di Antonio si alzarono lasciando vuote le sedie. Al loro posto si accomodarono Mara e Gina, mentre il festeggiato si trovò a boccheggiare stupefatto, imbarazzato ed emozionato dalle esuberanti vicine.
-Ma no, perché? Chi… Eh, siete sempre i soliti… Non posso…Eddaiiii!!!
Anche le donne cominciarono a divertirsi e lo champagne, versato generosamente nei bicchieri, contribuì a sciogliere gli ultimi freni inibitori rimasti.
Per i posteri si dovrebbe stilare una cronaca puntuale degli avvenimenti, ma forse dovrebbe avere il pallino rosso del “parental control”. Basti accennare che ad un certo punto Antonio scivolò su un collant finendo sotto al tavolo, Silvio si mise ad urlare: “l’ho vista, l’ho vista!!!” e Mara se ne uscì con un: “Ragazzi, cinquanta euro in più altrimenti non se ne fa niente.” La cosa importante è che, debitamente incorniciato, dietro la scrivania, accanto alla Laurea ed al Diploma dell’MBA, chi entrasse nello studio di Antonio oggi potrebbe vedere l’attestato per il quale lui va’ più fiero concesso con un bel 110 cum laude, bacio, abbraccio ed altro (accademici, s’intende).
Iscriviti a:
Post (Atom)