giovedì 9 marzo 2017

L'appuntamento

“Buuzzz – buuzzz – buuzzz” Lo smart phone sul comodino improvvisamente s’illuminò di luce propria e, seppure con la suoneria disattivata, si agitò emettendo una vibrazione tanto fastidiosa quanto penetrante. Anche se erano appena le sei del mattino, quello che anticamente si chiamava telefono e che ormai era diventato quasi un alter ego per tutti gli schiavi di una connessione globale forzata, non lo trovò impreparato. Aveva puntato la sveglia per essere sicuro di alzarsi all’ora giusta, ma un chiodo fisso nella mente gli aveva fatto passare una notte agitata tra brevi periodi di sonno e lunghi momenti di veglia. Accolse quindi come una liberazione il richiamo isterico del cellulare e, come fanno i cani uscendo dall’acqua, scrollò la testa per liberarsi dalle scorie dei sogni che ancora gli frullavano dentro. Poi tirò fuori le gambe e mise i piedi sul pavimento in cerca delle pantofole. Quella mattina aveva molto lavoro da fare e tante cose alle quali dedicare la sua attenzione, ma non riusciva a cancellare l’idea che lo stava perseguitando dalla sera prima. Ne era stato tanto colpito perché forse, finalmente, avrebbe potuto dare una svolta alla sua vita. Erano anni ormai che subiva un sopruso dietro l’altro e la sua pazienza era giunta al limite. Sentiva che se non avesse fatto qualcosa nel più breve tempo possibile, sarebbe esploso come una pentola a pressione con la valvola tappata, ma fino a quel momento non aveva avuto ben chiaro cosa avrebbe dovuto fare. L’ennesima notte insonne aveva finalmente portato il proverbiale consiglio, ed ora si sentiva lucido e determinato come mai prima nella vita. L’avrebbe ucciso. Adesso comprendeva la ragione per la quale aveva sempre tenuto ben oliata la Beretta che suo padre aveva lasciato nel cassetto della scrivania. Non era mai andato a sparare, ma tenere in efficienza l’arma gli era sempre sembrato come un atto di doveroso rispetto nei confronti del defunto genitore e poi perché sentiva che, in qualche modo, il proprio destino era legato a quell’oggetto tanto inquietante quanto rassicurante. E quindi era giunto il momento: gli avrebbe sparato. Si vedeva nell’atto di togliere la sicura del revolver, puntare e tirare il grilletto. Uno sbuffo di fumo sarebbe uscito dalla canna ed una detonazione l’avrebbe assordato mentre, come in un film al rallentatore, avrebbe visto la pallottola uscire per raggiungere il bersaglio. Si sarebbe goduto quei millesimi di secondo con l’ansia del primo appuntamento d’amore, quando l’attesa dell’avvenimento era tanto eccitante quanto lo stesso incontro. E poi avrebbe visto nascere un fiore rosso sulla fronte della vittima ed il suo sguardo spengersi con un’espressione mista di stupore ed ammirazione. Certo, ammirazione per il coraggio che lui avrebbe dimostrato nell’eseguire il suo compito e per la fredda determinazione nel rendersi protagonista di un atto che con un solo colpo avrebbe cambiato irrevocabilmente il destino di due persone. Era curioso di verificare se avrebbe provato compassione, ma non lo riteneva probabile. Si sentiva un po’ come l’aquila che ghermisce il coniglio, senza cattiveria ma senza neanche pietà, assassina solo per la necessità di farlo. Non c’era scampo: l’avrebbe ucciso. Cosa gli aveva fatto per meritarselo? Lo sapeva lui cosa gli aveva fatto, e questo era sufficiente. Tra i due, il succube era senz’altro chi in quel momento giocava il ruolo del carnefice. L’assassino poteva essere boia per un momento, ma la vittima era stata un aguzzino per tutta la vita ed adesso era giunta la sua ora. Senza esitazione: l’avrebbe ucciso. Fece una telefonata al lavoro per dire che non sarebbe andato, si vestì con cura ed uscì dall’appartamento assicurandosi di aver spento tutte le luci. Nella tasca del soprabito avvertiva il peso dell’arma che lo faceva sentire meno solo e sicuro di sé come mai prima gli era successo. Si diresse a grandi passi dove sapeva l’avrebbe trovato. L’immaginava di spalle, forse stava parlando ad altre persone, con la solita aria spavalda ed ignaro di stare pronunciando le sue parole finali e di cachinnare per l’ultima volta. L’avrebbe chiamato, per farlo voltare, e poi…l’avrebbe ucciso. Non avrebbe detto niente perché lui sapeva, e se non si fosse reso conto, sarebbe stato uguale. Dopo pochi isolati entrò nel bar senza aver perso niente della sua determinazione. Il locale era affollato da impiegati in pausa pranzo che flirtavano con segretarie dai tacchi alti e da mangiatori compulsivi di hamburger e patatine. La sua vittima era là, lo sentiva. Era pronto: l’avrebbe ucciso. Aveva soltanto ancora un ultimo dubbio da risolvere, ma in fondo non era importante. Mentre puntava l’arma si chiese chi, fra quella massa di sconosciuti, sarebbe stato il predestinato. In quel momento una tra le persone appoggiate al banco del bar si voltò casualmente ed il suo sguardo incrociò quello del giustiziere. L’uomo con la pistola in mano s’illuminò di un sorriso soddisfatto: il destino glielo aveva indicato. Se Pietro avesse seguito il consiglio della moglie e non fosse uscito quella sera, se il bar fosse stato chiuso, se lui avesse accettato l’invito a giocare al biliardo, se…Ma l’appuntamento era al bancone del bar con un bicchiere in mano e la Morte non l’avrebbe perdonato se l’avesse mancato. Se a Carlo fosse tremata la mano, ma la Morte non l’avrebbe perdonato se avesse esitato. In fondo, andò tutto come era previsto e tutti giocarono il ruolo in commedia per il quale erano giunti a quel punto. E’ un universo ordinato. Può essere una consolazione.

  

Nessun commento:

Posta un commento