La bambina
lasciò la mano della madre e si lanciò, di corsa, lungo il viale alberato che,
come intagliato da un fendente, separava la pineta di un parco cittadino esteso
quanto un piccolo bosco. La ghiaia scricchiolava sotto i passi leggeri battuti
dalle scarpette di vernice nera e qualche passero sceso a terra per becchettare,
spaventato, svolazzò via in un frenetico frullare d’ali. Sul viso le guance
rubizze e gli occhi ridenti, mentre un lieve affanno le accelerava il respiro facendo
rimbombare il battito del cuore dentro le orecchie. Il cappottino di lana
pesante, il cappello che le scivolava sugli occhi ed i calzettoni calati giù
non le impedivano di immaginarsi come il tenero cerbiatto visto in un cartone animato
sgroppare felice verso il sole. Sentiva la mamma da dietro chiamarla dicendo di
fermarsi, ma ormai le sue gambette avevano acquisito una vita propria e lei non
riusciva quasi più a governarle. Andavano in piccole falcate intramezzate da
qualche salto più lungo e mentre un piede toccava terra, l’altro si portava
avanti automaticamente. La strada era in leggera discesa e l’abbrivio favoriva
i balzi che per qualche istante facevano librare nell’aria la bambina. Era una
sensazione strana da provare ed improvvisamente si sentì capace di volare.
Provò ad allungarsi il più possibile per favorire quel magico planare e, nella
sua mente, ad ogni slancio era certa di coprire distanze sempre maggiori. Non
avvertiva più alcun peso ed immaginò di sollevarsi da terra, dapprima di pochi
centimetri poi sempre più su fino alla cima degli alberi ed anche oltre. Non
provava alcuna paura a stare così in alto, anzi pensava che per lei, tanto speciale,
prendere il vento come un aquilone rappresentasse una condizione normale come
per gli altri salire su un autobus. Vedeva le persone là sotto camminare ignare
e le vennero in mente i pupazzetti del grande plastico ferroviario in camera
del fratello: tutti vestiti bene, alcuni affaccendati, ma anonime ed
insignificanti comparse di un teatrino allestito solo per gioco. Poteva
addirittura riconoscere la mamma che ancora la stava chiamando, forse
preoccupata di non scorgere più la sua piccola. Quando avrebbe mostrato la propria
capacità alle amichette era sicura che l’avrebbero invidiata perché lei poteva
giocare tra le nuvole ed arrivare a scuola in un momento. Forse anche il
giornale si sarebbe accorto del fenomeno scrivendo un articolo intitolato: “la
bambina volante”, suo padre l’avrebbe letto e con la tata avrebbero preparato
per lei un letto in soffitta, accanto all’abbaino, per farla dormire più vicina
al cielo. Da grande sarebbe diventata una “super eroe” con un costume tutto
rosa e luccicante, impegnata in mille missioni per salvare la gente e gli
animali in difficoltà. Ed avrebbe vissuto a New York, chissà perché. Ancora
qualche passo veloce ed un lungo salto, mentre godeva di quel momento di
felicità che avrebbe poi ricordato senza più riconoscere il confine tra la
realtà ed il sogno. Come per ogni bella storia, accadde l’imprevisto. La
bambina non si accorse di una radice nascosta tra le foglie, inciampò e cadde sbucciandosi
un ginocchio. Si mise a piangere e tutto svanì in una bolla di sapone non
lasciando altro che la nostalgia di un desiderio impossibile.
Molti anni
dopo, su una panchina al bordo di quello stesso viale, una bella anziana
signora chiuse gli occhi godendo del sole ancora caldo dell’inizio di un
autunno clemente. Un piede, involontariamente, strusciò sui sassolini e d’improvviso
un dolce sorriso le illuminò il volto. La donna sentì il velluto del colletto
di un’antica redingote carezzarle la guancia mentre, col gesto di una mano,
buttò all’aria un fastidioso immaginario cappellino. Poi spiccò il volo
liberandosi di ogni fardello tirato appresso da una vita e, nuovamente fanciulla,
scorse dall’alto una vecchia seduta all’ombra dei platani. Non la riconobbe, ed
in fondo non aveva torto: lei era sempre stata, e sarebbe rimasta per sempre,
quella bambina che sapeva volare.
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