lunedì 5 gennaio 2015

Il conte Vorolinsky

Il conte Vorolinsky fissava lo stoppino ardente della candela posata sul suo tavolo, estraneo ed indifferente a quanto accadeva a lui d’intorno. Nel grande salone del Palazzo d’Inverno era in pieno svolgimento il ballo dato dal Pincipe Niejevsky in occasione del genetliaco della consorte, e coppie di dame e cavalieri volteggiavano leggiadri sulle note delle musiche di Strauss. Tutto sarebbe potuto accadere, ma il giovane gentiluomo, perso nei suoi pensieri e mesmerizzato dal tremolio della piccola fiamma, non avrebbe mosso un muscolo né mutato l’espressione del nobile volto. Troppo era il tumulto della sua anima e grandi preoccupazioni, miste a languidi rimpianti, creavano un vortice di sentimenti ed emozioni tanto contrastanti quanto intensi. Era stato richiamato per raggiungere il Primo Reggimento Ussari di stanza ad Uppsala nei pressi del confine prussiano. La guerra sembrava inevitabile e tutte le risorse di uomini e mezzi erano state mobilitate per difendere gli interessi di Santa Madre Russia. Il conte non aveva certo l’intenzione di sottrarsi ai suoi doveri né, tantomeno, di mostrarsi men che degno rispetto alla devozione patria da sempre dimostrata dai membri della sua casata, ma la convocazione significava che avrebbe dovuto allontanarsi da Mosca per un tempo indeterminato e difficilmente prevedibile. In qualsiasi altro momento della sua ancor giovane vita sarebbe stato entusiasta di partire e, a parte il comprensibile timore di subire il battesimo del fuoco, si sarebbe unito ai compagni d’arme con tutto l’ardore e lo slancio dettati dalla nuova avventura e dall’orgoglio di servire lo Tzar, ma non adesso. Allontanarsi dalla città avrebbe significato non poter combattere una battaglia che per lui era importante quanto quella contro il nemico, se non di più. “Caro Nikolaj, vi vedo assorto e pensieroso. Cos’è un po’ di timore in vista di unirvi alle truppe, o già sentite la mancanza degli agi di palazzo?” Il giovane, a quelle parole, alzò di scatto il volto pronto a dimostrare, anche coi fatti se necessario, come fosse offensiva tale insinuazione. Poi riconobbe il suo più caro e vecchio amico che certamente non aveva intenzione di provocalo, ma solo di dileggiarlo un pochino. “Andrej Grigorievich Dobronin, se non vi avessi caro come sapete, sareste già a terra con il naso rotto. Ritenetevi fortunato, ma non mi provocate. Anche perché, specialmente oggi, non sono di certo dell’umore più adatto ai lazzi.” “Cosa vi angustia – chiese il nuovo arrivato, cedendo l’aria goliardica, con reale interesse nelle vicende dell’amico – raramente vi ho visto tanto ombroso. Vi sono nuove che vi tormentano?” Un gran sospiro uscì dalla bocca del conte che sfogava in tal maniera la pena in sé repressa. “Ditemi, dunque!” “Ebbene, vecchio mio, se andrete a cercare una bottiglia di vodka che possa prendere il posto di quella desolatamente arida che ho davanti e, con la vostra abituale solerzia, la porterete qui, mi permetterò di chiedere in prestito la vostra spalla a sostegno delle mie lamentazioni.” “Ritengo che mai missione fu a miglior scopo giustificata. Sarò di ritorno immantinente con il consolante nettare.” Dopo pochi minuti, i due amici, scintillanti nella loro uniformi di gala, ma con aria tutt’altro che fiera, sedevano insieme al tavolo dove, per prima cosa, si impegnarono a non far rimanere mai vuoti i rispettivi calici. “Vi dirò – cominciò Vorolinsky – avevo in mano il messaggio che il Colonnello Turgeniev aveva fatto recapitare a me, come a tutti gli altri, per l’adunata di raggruppamento del Reggimento, quando il mio servitore entrò con un vassoio d’argento in mano. Sul lucido metallo spiccava l’inconfondibile busta rosa che indicava come la missiva avesse la fortuna di appartenere alla più amabile giovane signora che mai fosse nata. Non potevo sbagliarmi: era una comunicazione della cara Olga Iljechevna. Lasciai cadere, in maniera alquanto irrispettosa, la precedente comunicazione ed afferrai il delicato involucro dei pensieri della mia amata. Strappai ansiosamente il sigillo in ceralacca raffigurante un’edera, e lessi le parole che, più ancora del Fato, avrebbero governato il mio destino.” Cosa vi era vergato? Non tenetemi sui carboni ardenti, orsù confidatevi!” “Non crederete come poche, semplici, sillabe tracciate dal pennino di una piuma che una incolpevole oca magnanimamente cedette, possano avere la forza di mille proietti di spingarda. Colei che Venere invidierebbe, Minerva ammirerebbe e Diana emulerebbe, si espresse con queste testuali parole: “Abbello!! Si te ne vai, nun te posso assicurà gnente. Sai che er pischello che vedo ogni tanto mi batte i pezzi, nun so se m’aregge di mandarlo in bianco. Vedi un po’ tu se t’attizza più d’annà alla guera, o si sei der parere che ogni lasciata è perza. Famme sapè, sinnò si nun te vedo, poi m’aregolo da per me. Basscciii.” Andrej non represse un moto di stupore: “Orbene, quale significato ed in che idioma si esprime la donzella? E’ forse originaria degli Urali o proviene dalla remota Siberia, dacchè non la riesco ad intendere?” “Non saprei, in realtà. Anche per me è tutto di criptico intendere. Interrogai gli istitutori ed il Pope, ma nessuno seppe interpretare la missiva. Poi, non so per quale divina illuminazione, ebbi l’dea di interpellare il mugik ordinandogli di leggere, senza toccare, quelle ermetiche espressioni. Il servo è cresciuto a palazzo ed, unico fra i paria, ha imparato i rudimenti del cirillico.” “Concludi.” “Il compendio è nel darmi un ultimatum tra il vigliaccamente restare e l’alea di non rivederla. Al ché lo sozzo villano mi suggerì di rispondere in tal guisa: “Ah ciccia, nun me sfruculià, che nun c’è trippa pe’ gatti. Se voi, m’aspetti, sinnò: m’arimbalza! Bella, Olghè…!” Adesso il mio arrovellare è se far mia tale istanza oppure no. Cosa ne pensi, caro amico?” Il gagliardo Ussaro, ristette pensoso e, dopo aver cogitato si espresse in maniera definitiva e chiaramente esplicativa con un sonoro: “Boscio!!!”  

Nessun commento:

Posta un commento