Il conte
Vorolinsky fissava lo stoppino ardente della candela posata sul suo tavolo, estraneo
ed indifferente a quanto accadeva a lui d’intorno. Nel grande salone del
Palazzo d’Inverno era in pieno svolgimento il ballo dato dal Pincipe Niejevsky in
occasione del genetliaco della consorte, e coppie di dame e cavalieri
volteggiavano leggiadri sulle note delle musiche di Strauss. Tutto sarebbe
potuto accadere, ma il giovane gentiluomo, perso nei suoi pensieri e
mesmerizzato dal tremolio della piccola fiamma, non avrebbe mosso un muscolo né
mutato l’espressione del nobile volto. Troppo era il tumulto della sua anima e
grandi preoccupazioni, miste a languidi rimpianti, creavano un vortice di
sentimenti ed emozioni tanto contrastanti quanto intensi. Era stato richiamato per
raggiungere il Primo Reggimento Ussari di stanza ad Uppsala nei pressi del
confine prussiano. La guerra sembrava inevitabile e tutte le risorse di uomini
e mezzi erano state mobilitate per difendere gli interessi di Santa Madre
Russia. Il conte non aveva certo l’intenzione di sottrarsi ai suoi doveri né,
tantomeno, di mostrarsi men che degno rispetto alla devozione patria da sempre
dimostrata dai membri della sua casata, ma la convocazione significava che
avrebbe dovuto allontanarsi da Mosca per un tempo indeterminato e difficilmente
prevedibile. In qualsiasi altro momento della sua ancor giovane vita sarebbe
stato entusiasta di partire e, a parte il comprensibile timore di subire il
battesimo del fuoco, si sarebbe unito ai compagni d’arme con tutto l’ardore e lo
slancio dettati dalla nuova avventura e dall’orgoglio di servire lo Tzar, ma
non adesso. Allontanarsi dalla città avrebbe significato non poter combattere
una battaglia che per lui era importante quanto quella contro il nemico, se non
di più. “Caro Nikolaj, vi vedo assorto e pensieroso. Cos’è un po’ di timore in
vista di unirvi alle truppe, o già sentite la mancanza degli agi di palazzo?”
Il giovane, a quelle parole, alzò di scatto il volto pronto a dimostrare, anche
coi fatti se necessario, come fosse offensiva tale insinuazione. Poi riconobbe il
suo più caro e vecchio amico che certamente non aveva intenzione di provocalo,
ma solo di dileggiarlo un pochino. “Andrej Grigorievich Dobronin, se non vi
avessi caro come sapete, sareste già a terra con il naso rotto. Ritenetevi
fortunato, ma non mi provocate. Anche perché, specialmente oggi, non sono di
certo dell’umore più adatto ai lazzi.” “Cosa vi angustia – chiese il nuovo
arrivato, cedendo l’aria goliardica, con reale interesse nelle vicende dell’amico
– raramente vi ho visto tanto ombroso. Vi sono nuove che vi tormentano?” Un
gran sospiro uscì dalla bocca del conte che sfogava in tal maniera la pena in sé
repressa. “Ditemi, dunque!” “Ebbene, vecchio mio, se andrete a cercare una
bottiglia di vodka che possa prendere il posto di quella desolatamente arida
che ho davanti e, con la vostra abituale solerzia, la porterete qui, mi
permetterò di chiedere in prestito la vostra spalla a sostegno delle mie
lamentazioni.” “Ritengo che mai missione fu a miglior scopo giustificata. Sarò
di ritorno immantinente con il consolante nettare.” Dopo pochi minuti, i due amici,
scintillanti nella loro uniformi di gala, ma con aria tutt’altro che fiera,
sedevano insieme al tavolo dove, per prima cosa, si impegnarono a non far rimanere
mai vuoti i rispettivi calici. “Vi dirò – cominciò Vorolinsky – avevo in mano
il messaggio che il Colonnello Turgeniev aveva fatto recapitare a me, come a
tutti gli altri, per l’adunata di raggruppamento del Reggimento, quando il mio
servitore entrò con un vassoio d’argento in mano. Sul lucido metallo spiccava l’inconfondibile
busta rosa che indicava come la missiva avesse la fortuna di appartenere alla
più amabile giovane signora che mai fosse nata. Non potevo sbagliarmi: era una
comunicazione della cara Olga Iljechevna. Lasciai cadere, in maniera alquanto
irrispettosa, la precedente comunicazione ed afferrai il delicato involucro dei
pensieri della mia amata. Strappai ansiosamente il sigillo in ceralacca
raffigurante un’edera, e lessi le parole che, più ancora del Fato, avrebbero
governato il mio destino.” Cosa vi era vergato? Non tenetemi sui carboni
ardenti, orsù confidatevi!” “Non crederete come poche, semplici, sillabe
tracciate dal pennino di una piuma che una incolpevole oca magnanimamente
cedette, possano avere la forza di mille proietti di spingarda. Colei che
Venere invidierebbe, Minerva ammirerebbe e Diana emulerebbe, si espresse con queste
testuali parole: “Abbello!! Si te ne vai, nun te posso assicurà gnente. Sai che
er pischello che vedo ogni tanto mi batte i pezzi, nun so se m’aregge di
mandarlo in bianco. Vedi un po’ tu se t’attizza più d’annà alla guera, o si sei
der parere che ogni lasciata è perza. Famme sapè, sinnò si nun te vedo, poi m’aregolo
da per me. Basscciii.” Andrej non represse un moto di stupore: “Orbene, quale significato
ed in che idioma si esprime la donzella? E’ forse originaria degli Urali o
proviene dalla remota Siberia, dacchè non la riesco ad intendere?” “Non saprei,
in realtà. Anche per me è tutto di criptico intendere. Interrogai gli istitutori
ed il Pope, ma nessuno seppe interpretare la missiva. Poi, non so per quale
divina illuminazione, ebbi l’dea di interpellare il mugik ordinandogli di
leggere, senza toccare, quelle ermetiche espressioni. Il servo è cresciuto a
palazzo ed, unico fra i paria, ha imparato i rudimenti del cirillico.” “Concludi.”
“Il compendio è nel darmi un ultimatum tra il vigliaccamente restare e l’alea
di non rivederla. Al ché lo sozzo villano mi suggerì di rispondere in tal
guisa: “Ah ciccia, nun me sfruculià, che nun c’è trippa pe’ gatti. Se voi, m’aspetti,
sinnò: m’arimbalza! Bella, Olghè…!” Adesso il mio arrovellare è se far mia tale
istanza oppure no. Cosa ne pensi, caro amico?” Il gagliardo Ussaro, ristette
pensoso e, dopo aver cogitato si espresse in maniera definitiva e chiaramente
esplicativa con un sonoro: “Boscio!!!”
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