venerdì 5 aprile 2019

La Casa

Una casa non rispecchia l'animo di chi ci vive dentro, quasi mai. Potrebbe nei primi tempi, quando il gusto del proprietario e le sue inclinazioni in qualche modo influenzano gli spazi, ma spesso ci sono sistemazioni di convenienza, piuttosto che semplici mode, a dettare colori e mobilia mascherando chi ci vive. Poi, con l'andar del tempo, i diversi inquilini aggiungono, tolgono e spostano, modificando l'aspetto della casa fino a farla diventare qualcosa di completamente diverso dall'originale e con un carattere suo distintivo. Anche le persone lasciano un'ombra dietro di loro, mentre i muri delle abitazioni restano gli immoti testimoni della commedia umana. Questo vale per ogni luogo abitato, ma se gli appartamenti sono bambini con poca esperienza, le vecchie dimore, i palazzi antichi, i casali nelle campagne, perfino i ruderi ormai abbandonati sono come persone anziane che tanto hanno visto e moltissimo avrebbero da raccontare.

Cinque bassi gradini portavano dal marciapiede al portone, arretrando il frontale del palazzo rispetto alla strada in una sorta di distaccata superbia, quasi con l'atteggiamento di un vecchio signore restio ad accogliere nuove conoscenze. La facciata dell'immobile si presentava in pietra bugnata fino ad altezza d'uomo per proseguire poi per quattro piani in un colore che anni d'intemperie avevano reso indefinibile. Al piano nobile, una grande porta-finestra con balcone si poneva da cappello sul portone sottostante mentre quattro altre finestre quadrate le facevano d'ali, ognuna incorniciata di travertino e con le persiane rigorosamente serrate. Ogni tanto, ad interrompere la severità della facciata, la scultura di un amorino sosteneva un cornicione sorridendo ad una naiade decentemente discinta aggrappata poco più in là. Forse l'architetto aveva voluto inserire uno spunto di Art Nouveau su un progetto altrimenti troppo austero, oppure il committente aveva dato l'indicazione di inserire qua e là un tocco leggermente osé a testimonianza della sua audacia. In paese si raccontava che il palazzotto, nella sua altera solitudine, fosse stato la cassaforte degli averi del barone De Nittis e lo scrigno della bellezza di sua moglie, nonché il baluardo alla curiosità della gente. Ma nessuno scudo, seppure fortificato, ha mai impedito la malevolenza ed il pettegolezzo. Anzi, la perversa unione della ricchezza di un uomo brutto con l'avvenenza di una baronessa nata contadina, era l'humus ideale per ogni sorta di racconto più o meno di fantasia. Le versioni su quanto accadde tra quelle mura nei primi anni del novecento furono tante e disparate, ma su di un punto concordarono senza alcun dubbio: finì nel sangue. Lei si era stancata di fare la statuina per un marito tanto devoto quanto geloso, o forse fu colpa di un lontano cugino arrivato in visita da Parigi, qualcuno si diceva sicuro che fosse stato l'effetto dell'uso smodato di assenzio, certamente partì un colpo che uccise la nobildonna. Il De Nittis, disperato, non poté più sopportare di vivere tra quelle mura che ormai vedeva lordate del sangue della moglie, né di sentirsi circondato da quello che in ogni momento gli ricordava i giorni felici. Chiuse il palazzo, partì e non se ne seppe più nulla. Non lasciò eredi o disposizioni in merito e quindi la grande casa rimase abbandonata finché, dopo molti anni, il sindaco del paese, con un provvedimento amministrativo approvato dall'unanimità del consiglio comunale, non espropriò l'immobile a favore della comunità.
Il sindaco era una persona prudente e sospettosa. Qualcuno diceva pavida e malevola, ma si trattava solo di aggettivi che mutavano a seconda della parte politica di provenienza. Prima della solenne cerimonia nella quale avrebbe preso possesso del palazzetto già De Nittis, il primo cittadino aveva intenzione di fare un sopralluogo, non voleva sorprese. Naturalmente in precedenza aveva visionato le carte catastali ed il geometra comunale si era recato sul posto diverse volte, ma lui personalmente non era mai entrato nell'edificio ritenendo che i passi ufficiali dovessero essere sempre giustificati da ordinanze che ne consentissero l'esecuzione. In un primo momento aveva pensato di farsi accompagnare da un paio di assessori, ma poi, com'era suo costume, ci aveva riflettuto sopra attentamente. Entrare in villa insieme a due figure istituzionali avrebbe conferito un aspetto ufficiale alla visita, ed era quello che lui voleva assolutamente evitare. Decise quindi di andarci da solo e, per non farsi vedere, di operare col favore delle tenebre. Il sabato sera in televisione trasmettevano "Ballando con le Stelle" su Rai 1 e "Amici di Maria" su Canale 5 calamitando davanti agli schermi casalinghi la pressoché totale popolazione del paese. Di questo si lagnavano le due trattorie e la pizzeria che con la sola affluenza del venerdì e della domenica, per colpa della De Filippi e di Milly Carlucci, non riuscivano a pareggiare i conti della settimana. Però siccome da ogni male si può trarre un bene, la sofferenza degli osti era l'occasione per il sindaco. Non si trattava proprio di "una notte buia e tempestosa" come nella letteratura, ma quella sera, verso le dieci, il tempo si presentava rigido con fastidiosi colpi di tramontana, mentre la luna sembrava anch'essa partecipare ad un ipotetico salottino televisivo, visto che dal cielo era latitante. Il sindaco si coprì bene, prudente anche riguardo alla salute, e con le chiavi strette in mano, quatto quatto, raggiunse palazzo De Nittis.
Infilò la chiave e spinse con cautela l'anta del grande portone. Si aspettava fosse pesante e che dai vecchi cardini provenisse almeno un cigolio a causa della ruggine, ma la porta non oppose alcuna resistenza scivolando verso l'interno silenziosa ed invitante.
-Fin qui, tutto bene- pensò il sindaco, ma fu l'ultima volta che si rassicurò. Entrò velocemente e chiuse subito l'uscio dietro di sé, passasse mai qualcuno. Poi, con un pizzico d'orgoglio per la capacita da poco acquisita di padroneggiare uno smartphone nuovo di zecca, aprì l'app della torcia e si fece luce. L'atrio della vecchia casa era imponente. Un grande scalone partiva dal fondo della stanza per sparire verso l'alto, mentre ai lati porte aperte lasciavano intravedere altri vani oscuri. Pochi i mobili, forse per la maggior parte già trafugati, soltanto una grande cassapanca appoggiata al muro ed un'enorme specchiera dalla cornice dorata in parte rotta e velata da stati di polvere e sporcizia. Il primo cittadino era un tipo pragmatico e privo di fantasia, ma provò la strana sensazione di esser entrato nelle fauci di un mastodontico animale, dove la scala rappresentava la lingua ed i varchi davano l'idea di orifizi aperti verso un apparato digerente in attesa di essere sfamato.
-Ah, ah, ah! –ridacchiò nervosamente tra sé. -Non essere sciocco. Non sei una donnetta suggestionabile. Non c'è niente e nessuno di cui avere paura. E' solo una vecchia casa. – Non l'avesse mai pensato! La Casa sembrò avergli letto nella mente. E si offese. Le finestre erano tutte chiuse, ma in quel momento una raffica di vento, mugghiando come l'urlo di una sirena impazzita in un mare in tempesta, attraversò la stanza facendo sbattere gli antichi tendaggi. La luce del telefonino si riflesse nello specchio provocando un lampo azzurro che illuminò tutta la stanza a giorno. Nell'improvvisa chiarezza, il sindaco vide una sostanza vischiosa e maleodorante scendere dal soffitto sulle pareti. Appariva rossa come il sangue, ma era in grande quantità: il frutto di una mattanza. Dai piani superiori un'onirica folla di anime inquiete sembrava percuotere con passi frenetici il pavimento, mentre clangori e stridii riempivano l'aria annunciando nuove apparizioni. Mille piccoli occhi brillavano da ogni parte, negli angoli, sugli stipiti, sopra la scala, ed un concerto di squittii accompagnava brevi veloci corse di topi spaventati dal clamore. La temperatura di colpo scese di parecchi gradi e dalla bocca spalancata del sindaco uscirono nuvolette di vapore. Il buon uomo stava ritto e tremante, con gli occhi strabuzzati, paralizzato dal terrore di fronte ad un "Armageddon" del tutto inaspettato, spettatore suo malgrado del peggiore degli incubi. Dentro di lui si combatteva la battaglia tra la razionalità della ragione e la superstizione degli antichi racconti di paese pieni di fantasmi ed oscure presenze. I piedi non rispondevano al comando del cervello che intimava di scappare a gambe levate, ed il sindaco sembrava una statua di sale con i capelli sconvolti dalla mefitica tempesta. Poi tutto, improvvisamente, si tacque. Tornò il buio profondo ed il silenzio di tomba, mentre dalla sommità dello scalone apparve un etereo ectoplasma con le sembianze della baronessa. Con le braccia aperte fece cenno al sindaco di raggiungerla per un abbraccio mortale. Fu troppo. Come una lepre spaventata da un colpo di fucile, l'uomo si riscosse precipitandosi fuori dal palazzo. Era pallido in volto e sbattuto come un cencio. Una frezza bianca gli comparve tra i capelli per rimanere per sempre a ricordo di una notte di tregenda.

Il portone si richiuse dolcemente, mentre dall'interno della Casa si sentì una voce argentina ridere di un riso senza allegria.









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