giovedì 13 aprile 2023

ENRICO E ELISABETTA

 

Il signor Enrico svolgeva lo stesso lavoro da quarant’anni. Era stato assunto appena ventenne, dopo un diploma alle Belle Arti, e aveva conservato l’impiego per il resto della vita. Forse non era quello a cui aspirava quando sognava di diventare un pittore famoso, ma finiti gli studi aveva cercato di impegnarsi in un’attività che fosse in qualche modo attinente alla sua passione. Superato un facile concorso, entrò con la qualifica di custode nella locale pinacoteca; l’occupazione doveva consentirgli di sopravvivere per un tempo che pensava breve, ma da stagionale divenne a contratto e poi definitiva. Le sue mansioni erano semplici: doveva sorvegliare le sale, verificare che tutto fosse in ordine e vigilare sui visitatori tenendoli a debita distanza dai quadri. Poca fatica e stipendio modesto. Il museo non era grande, una decina di sale, ma era stato oggetto di una donazione da parte di un industriale del luogo che le malelingue dicevano obbligata da un concordato col fisco. Il “mecenate suo malgrado” aveva specializzato la sua collezione concentrandola su un movimento pittorico particolare: i preraffaelliti. Come Enrico ben sapeva, questi erano stati un gruppo di pittori, perlopiù inglesi, che avevano operato sul finire del diciannovesimo secolo ispirandosi alle figure ed ai temi del Rinascimento italiano. Proprio su di loro il custode aveva scritto la sua tesi di diploma e ritrovarne qualche esponente sotto la sua tutela fu per lui una sorpresa inaspettata. L’innegabile fascino delle tele e l’atmosfera fuori del tempo gli fecero gradire ogni giorno di più quel lavoro che ad altri sarebbe apparso noiosissimo. Finì quindi per non cercare più un altro impiego, mentre le ore passate al museo gli sembravano più una riunione tra amici che un mero dovere. Arrivava alla mattina, faceva un giro con lo sguardo accigliato e attento, come per controllare se tutti si fossero svegliati in piena forma, e poi si sedeva in un angolo aspettando l’orario d’apertura al pubblico. Le presenze non erano mai eccessive, anzi il flusso dei visitatori risultava alquanto scarso, ed Enrico, mentre svolgeva i suoi compiti, lasciava spaziare la fantasia. Si immaginava catapultato al Greenwich Village per unirsi alla “Factory” di Wharol e poi disegnare qualche schizzo a carboncino seduto sul prato di Union Square; viaggiare nel tempo per ritrovarsi a Montmartre discutendo con Manet e Renoir sull’uso del colore e della luce, o a passeggio per le Ramblas chiedendo a Picasso il dannato motivo per il quale avesse smesso la pittura figurativa per buttarsi sul cubismo che sicuramente fu molto innovativo, ma vuoi mettere la bellezza di quell’arlecchino tutto blu? Fantasticando, il tempo passava abbastanza velocemente, l’unico inconveniente era che non scambiava quasi mai quattro parole con nessuno. Qualche indicazione a turisti distratti, una breve chiacchiera con l’altro impiegato alla biglietteria, ma nient’altro. E così, per alleviare la solitudine e trovare un po’ di svago, incominciò ad interagire con i soggetti dei quadri intono a lui. Grazie ai i suoi passati studi sapeva riconoscere le vicende raffigurate dai pittori ed anche qualche personaggio che si richiamava alla storia. Si perdeva ammaliato dalla grazia delle figure femminili, dalle loro chiome mosse dal vento e da quell’aria al tempo stesso algida e sensuale. Gli capitava di commuoversi di fronte ad una copia dell’Ofelia morente partecipando al dramma della sfortunata e romantica fanciulla. In altri gruppi, giovani donne danzanti ornate di ghirlande floreali inneggiavano alla primavera della loro vita, mentre il custode, non visto, accennava un passo di ballo per partecipare a quel gioioso girotondo. Non mancavano guerrieri con gli spadoni, ma a loro Enrico non si rivolgeva, non avevano l’animo abbastanza gentile per capire i suoi pensieri. Tra la finestra e il cantone della sala, era appeso il ritratto in primo piano di una fanciulla fulva di capelli e con gli occhi verde smeraldo, presa di tre quarti, come stesse rispondendo ad un richiamo giunto inaspettato. Il viso squadrato dagli zigomi alti, la bocca appena socchiusa forse per il breve ansimare dopo una corsa a piedi nudi. La tela finiva all’altezza della scollatura mostrando un incarnato pallido dalla cui trasparenza si intuivano le vene del collo e il battito del cuore. Una catena d’oro ornava il decolté, ma era quasi fuori posto, un manufatto greve su una pelle delicata. Lo sfondo era scuro, per far risaltare meglio la figura e contribuiva all’alone di mistero che avvolgeva la protagonista. Chi era? Da dove veniva? Sarà stata felice o avrà avuto una storia drammatica come Ofelia? Il custode si poneva queste domande ed altre senza senso, mentre diventava sempre più amico della fanciulla del quadro. Era difficile rivolgersi a lei in maniera sempre impersonale e quindi decise di chiamarla Elisabetta. Una volta battezzata, cominciarono i loro dialoghi mentali. La salutava sempre al suo arrivo e non mancava di raccomandarle la buona notte prima di andare a casa, la sera. Durante la giornata, seduto di fronte a Elisabetta, le raccontava i suoi pensieri, le domandava se le piacesse De André o scherzava chiedendole quando fosse andata l’ultima volta dal parrucchiere. Se ne innamorò. Cominciò a dedicarle poesie, che lei gradiva sempre, ogni tanto le offriva un piccolo dono che poi riportava a casa conservandolo per il futuro. Avrebbe voluto che il quadro fosse almeno a mezzo busto per vederle le mani, era sicuro che avessero le dita affusolate e gli sarebbe piaciuto tanto poterle stringere tra le sue. Chissà quanti anni avrà avuto? Elisabetta, una signora, a questa domanda non rispondeva mai, ma lo scorrere del tempo non lasciava segni sul suo volto, mentre con l’avvicendarsi delle stagioni Enrico passò la giovinezza e poi la maturità. Ormai ingobbito, le rughe e i capelli bianchi, indossava ancora, tutte le mattine, la divisa da custode e si recava all’appuntamento con la sua ragazza. L’amava come il primo giorno e nessuna donna reale aveva mai potuto competere con lei, rendendo la sua vita solitaria ma non infelice. L’ultimo dei suoi colleghi, un giovane sguaiato e ignorante, un giorno gli consegnò una busta. E’ per te, gli disse, dalla direzione. Enrico non se l’aspettava, con una certa trepidazione aprì la lettera. Congratulazioni, c’era scritto, alla fine di questo mese avrà raggiunto l’età pensionabile. L’amministrazione la ringrazia e la invita a lasciare il suo posto alla data indicata. L’uomo fece scivolare la missiva dalle mani tremanti e il collaboratore la raccolse buttando lo sguardo sul contenuto. Contento, eh? Finalmente te ne starai a casa! Enrico, con le lacrime agli occhi, andò di fronte al quadro di Elisabetta e le annunciò la novità. Le disse che avrebbe dovuto lasciarla, ma sarebbe tornato spesso a trovarla, non si preoccupasse. Gli sembrava che in quel momento l’amasse tanto intensamente quanto mai prima. Si sarebbe strappato il cuore per lasciarlo lì, vicino a lei, alla quale apparteneva.



Questa è la storia di quel vecchietto che fino a poco tempo fa si vedeva entrare tutti i giorni al museo, col vestito da festa e un mazzetto di fiori in mano. Ed è anche spiegato perché sulla sua lapide nel piccolo cimitero del paese è scritto: qui giacciono Enrico e Elisabetta, mentre tutti sanno che lui non si sposò mai.

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