martedì 25 aprile 2023

LUCINA E IL PROFESSORE

 

Erano tanti anni che portava avanti la sua professione, spesso con passione, a volte con sacrificio, ma sempre con la massima dedizione. La missione alla quale aveva dedicato la vita consisteva nel curare il disagio mentale dei pazienti riportando, per quanto possibile, la normalità in vite sconvolte da malesseri spesso senza nome ma non per questo meno invalidanti. “Normalità”: una parola spaventosa che, pur senza significato, condanna all’infelicità chi sente di non appartenervi, a volte senza ragione. Nel corso della carriera aveva visto accomodarsi sul lettino dello studio una grande varietà di persone accomunate da un grido d’aiuto, represso o palese, che si rivolgevano a lui come l’ultimo scoglio al quale aggrapparsi prima di lasciarsi andare alla deriva. E questa responsabilità lo psicologo la sentiva tutta sulle sue vecchie spalle che ormai faticavano a portarne il fardello. Come l’artigiano che ripara gli orologi, anche il dottore smontava gli ingranaggi della mente, li ripuliva oliandoli con le sue parole e li ricomponeva per fare in modo che l’ora indicata corrispondesse a quella ci si aspettava di vedere sul quadrante. Poi, rimesso tutto in ordine, si assicurava che ogni piccola parte svolgesse il proprio compito per dare un senso al ticchettio che scandisce lo scorrere del tempo fino all’esaurimento della carica. Però il suo lavoro era più difficile, aveva a che fare col cervello, un organo che si manifesta tramite il pensiero, frutto intangibile e potentissimo di piccole sinapsi. Ovvero la materia che produce l’immateriale: una terribile meraviglia. 

Tanto amava il suo lavoro che aveva preso l’abitudine di tenere delle schede personali, oltre alle cartelle cliniche, dove a fine giornata descriveva i casi più interessanti con le caratteristiche di ognuno e l’impressione ricevuta. Questi ritratti esulavano dalla specificità medica sconfinando spesso nell’immaginazione e completando, in qualche modo, il quadro di vite raccontate in parte o intraviste oltre le parole. Lo psicologo elaborava a proprio piacimento le suggestioni che sentiva provenire dai propri assistiti facendo agire i suoi pazienti dentro scenari che andavano oltre l’oggetto della cura per farli rivivere come forse avrebbero dovuto o nella maniera in cui un destino differente li avrebbe salvati. Immaginava nuovi amori, famiglie diverse, ossessioni o fobie creando una sorta di percorso che aveva come meta una vita migliore. Mentre scriveva, sentiva di fare qualcosa di utile, ma non poteva negare anche un certo divertimento nel comporre dei piccoli racconti in uno zibaldone tra realtà e fantasia.  

Il Professor Gregori anche quella sera era seduto alla scrivania del suo studio buttando giù la descrizione dell’ultima paziente che lo aveva particolarmente colpito. Innanzi tutto il nome: Lucina. Chissà cosa avevano in mente i genitori della ragazza quando la battezzarono. Forse era il benvenuto ad un esserino che avrebbe portato una speranza nuova nella loro vita o magari un sinonimo indicante il chiarore di una stella lontana. Chissà? Si accarezzò la barba ormai completamente bianca mentre radunava i pensieri, poi cominciò a digitare sul computer. “Oggi si è presentata a studio una ragazza di circa trent’anni, gradevole nell’aspetto e ben vestita. Mi ha ricordato un po’ quella cantante francese dei miei tempi, con la frangetta e i lunghi capelli lisci e biondi. Magra, ma non esageratamente come sembra andare di moda adesso. E’ entrata…” Inaspettati due colpi sull’uscio. Lo psicologo sobbalzò stupito. L’orario delle visite era terminato e non aspettava nessuno.

-Avanti. – disse, un po’ scocciato.   

-E’ permesso, professore? – Una giovane donna si affacciò all’uscio. Il portamento timido quasi tremebondo e una grade borsa rossa al braccio. – So che non è l’ora giusta, ma le posso rubare qualche minuto? – Un professionista affermato, come in realtà era il professor Gregori, avrebbe dovuto respingere l’intrusa pregandola, in maniera ferma e perentoria, di farsi dare un appuntamento dalla segretaria, ma la curiosità, stimolata anche dalla sfrontatezza dell’intrusa, ebbe il sopravvento.

-Non potrei, ma si accomodi. Brevemente, abbia la compiacenza.

-Certo, non si preoccupi, anzi mi scusi. – La donna si sedette sul lettino. – Mi chiamo Lucina, professore. Ho bisogno del suo aiuto. – La storia che raccontò quella prima sera fu lunga e confusa. Come spesso accade nei primi incontri, la narrazione dei suoi malesseri fu più uno sfogo che un insieme di fatti da poter analizzare. Il dottore non prese neanche appunti, sapeva per esperienza che avrebbe dovuto incontrare altre volte ancora la ragazza prima di trovare il bandolo di una matassa emotiva tanto ingarbugliata. Lucina si trattenne un’oretta e poi, improvvisamente, come se le fosse venuto in mente un impegno improrogabile, si alzò di scatto dal lettino.

-Devo andare. - Disse solamente, e senza neanche salutare si diresse in fretta verso l’uscita chiudendosi poi la porta alle spalle. Di comportamenti strani erano pieni i suoi schedari e Gregori non se ne stupì più di tanto. Non le aveva dato neanche un successivo appuntamento, chissà se sarebbe tornata.

Nei giorni successivi la paziente non si fece viva e il professore catalogò nella sua mente quell’incontro come un episodio fra tanti nella sua lunga carriera, ma niente di più. In realtà, lo strano incontro l’aveva incuriosito e decise di scriverne la sera successiva nelle sue schede. “Lucina presenta una sindrome non definita, ma prima della diagnosi, vorrei descriverla.” Come al solito, si fece prendere dalla fantasia e cominciò a romanzare. “E’ una giovane di bell’aspetto, gli occhi verdi come le fronde di una foresta in primavera e le mani lunghe da pianista. Si nota la sua sensibilità, mi ha parlato di piccole cose che le hanno fatto salire le lacrime agli occhi e stava seduta protesa verso di me come stesse aspettando una sentenza, che non le impartirò mai. Deve essere agiata, indossava un abito di buon taglio e qualche piccolo gioiello forse antico. Giocava spesso con un pendente della collana che rappresentava un fiore fatto di piccoli diamanti e perle, si vedeva che ne era affezionata.” Tutti particolari inventati, ma funzionali al racconto che stava scrivendo. “…” Nuovamente dei colpi alla porta.

-Chi è? – Non c’era niente di più fastidioso che essere interrotti mentre si scriveva.  

-Sempre io, professore. Non mi cacci!

-Lucina?  Cosa ci fa lei qui? Era sparita, pensavo non le interessassero più i nostri incontri.

-No, vede professore…posso entrare? – Così dicendo la donna fece qualche passo dentro allo studio. Alla fioca luce delle abat-jour sparse nella stanza sembrava ancora più giovane. Gregori notò qualcosa di scintillante al collo di Lucina e aguzzò la vista per capire di cosa si trattasse. Il professore rimase per un momento esterrefatto ed incredulo. Si trattava di un monile corrispondente esattamente al gioiello a forma di fiore che lui si era immaginato scrivendo poco prima. Spaventato per quella inspiegabile coincidenza, gli venne spontaneo di cacciare l’intrusa per mettere ordine nelle sue idee.

-No, no. Via, via! Ho daffare, adesso non posso. Torni un’altra volta. – La ragazza si ritrasse sgranando gli occhi, non si aspettava una reazione simile, chiuse la porta e se ne andò.

La sera successiva Gregori riprese in mano la scheda della misteriosa paziente per continuare la narrazione anche in considerazione dell’ultima visita. “Lucina entrò spavalda nel mio studio quasi aggredendomi. Mi disse: lei deve ascoltarmi! Non accetto rifiuti, tenga fede alla sua missione!” Sicuramente, pensò il medico, non sono parole confacenti a quella paziente così timida ed educata, ma voleva provare, letterariamente, a modificarle un po’ il carattere. In quel momento la porta dello studio si aprì di scatto e, come una furia, Lucina si precipitò nella stanza.

-Lei deve ascoltami! Non accetto rifiuti… - Il professore cominciò a tremare come una foglia. Sembrava che le sue parole messe per iscritto creassero una realtà che si manifestava successivamente. Non rispose e chiuse gli occhi. Sentì dei passi concitati e la porta sbattere con violenza. Tornò a guardare: non c’era più nessuno e Gregori temette per la “sua” sanità mentale. Il giorno successivo lo psicologo annullò tutti gli appuntamenti, troppi pensieri gli frullavano per la testa e doveva cercare di capire se stesse impazzendo o fosse vittima della sua fantasia. Forse, dopo anni di professione, era solamente stanco e aveva bisogno di una vacanza. Ma non poteva vivere nel dubbio e quindi la sera stessa, si rimise al computer per proseguire nella scrittura. Decise di descrivere qualcosa di talmente pazzo che non avrebbe potuto in alcun modo confondersi con la realtà. “Lucina, nel quarto incontro, si presentò vestita da Guardia Svizzera…” Un leggero picchiettio sull’uscio. Timidamente la ragazza entrò senza aspettare il permesso. Era vestita con i colori blu, rosso e giallo scuro. Il professore ebbe un mancamento e si accasciò sulla scrivania.

“Strano, – pensò Lucina – forse Gregori è un po’ esaurito. Non tornerò più e non scriverò più di lui sul mio diario.” Con una alzata di spalle si chiuse ancora la porta dietro e se ne andò. In quel momento si spensero le luci e nello studio del professore non ci fu più alcuna presenza. Sulla poltrona dietro alla scrivania non sedeva nessuno, uno spesso velo di polvere apparve ricoprendo ogni cosa e tutti i diplomi appesi alle pareti si scolorirono cancellando ogni nome.   

 

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