Erano tanti anni che portava avanti la sua professione, spesso con passione, a volte con sacrificio, ma sempre con la massima dedizione. La missione alla quale aveva dedicato la vita consisteva nel curare il disagio mentale dei pazienti riportando, per quanto possibile, la normalità in vite sconvolte da malesseri spesso senza nome ma non per questo meno invalidanti. “Normalità”: una parola spaventosa che, pur senza significato, condanna all’infelicità chi sente di non appartenervi, a volte senza ragione. Nel corso della carriera aveva visto accomodarsi sul lettino dello studio una grande varietà di persone accomunate da un grido d’aiuto, represso o palese, che si rivolgevano a lui come l’ultimo scoglio al quale aggrapparsi prima di lasciarsi andare alla deriva. E questa responsabilità lo psicologo la sentiva tutta sulle sue vecchie spalle che ormai faticavano a portarne il fardello. Come l’artigiano che ripara gli orologi, anche il dottore smontava gli ingranaggi della mente, li ripuliva oliandoli con le sue parole e li ricomponeva per fare in modo che l’ora indicata corrispondesse a quella ci si aspettava di vedere sul quadrante. Poi, rimesso tutto in ordine, si assicurava che ogni piccola parte svolgesse il proprio compito per dare un senso al ticchettio che scandisce lo scorrere del tempo fino all’esaurimento della carica. Però il suo lavoro era più difficile, aveva a che fare col cervello, un organo che si manifesta tramite il pensiero, frutto intangibile e potentissimo di piccole sinapsi. Ovvero la materia che produce l’immateriale: una terribile meraviglia.
Tanto amava il
suo lavoro che aveva preso l’abitudine di tenere delle schede personali, oltre
alle cartelle cliniche, dove a fine giornata descriveva i casi più interessanti
con le caratteristiche di ognuno e l’impressione ricevuta. Questi ritratti
esulavano dalla specificità medica sconfinando spesso nell’immaginazione e
completando, in qualche modo, il quadro di vite raccontate in parte o intraviste
oltre le parole. Lo psicologo elaborava a proprio piacimento le suggestioni che
sentiva provenire dai propri assistiti facendo agire i suoi pazienti dentro
scenari che andavano oltre l’oggetto della cura per farli rivivere come forse
avrebbero dovuto o nella maniera in cui un destino differente li avrebbe
salvati. Immaginava nuovi amori, famiglie diverse, ossessioni o fobie creando
una sorta di percorso che aveva come meta una vita migliore. Mentre scriveva, sentiva
di fare qualcosa di utile, ma non poteva negare anche un certo divertimento nel
comporre dei piccoli racconti in uno zibaldone tra realtà e fantasia.
Il Professor
Gregori anche quella sera era seduto alla scrivania del suo studio buttando giù
la descrizione dell’ultima paziente che lo aveva particolarmente colpito.
Innanzi tutto il nome: Lucina. Chissà cosa avevano in mente i genitori della
ragazza quando la battezzarono. Forse era il benvenuto ad un esserino che
avrebbe portato una speranza nuova nella loro vita o magari un sinonimo
indicante il chiarore di una stella lontana. Chissà? Si accarezzò la barba
ormai completamente bianca mentre radunava i pensieri, poi cominciò a digitare
sul computer. “Oggi si è presentata a studio una ragazza di circa trent’anni,
gradevole nell’aspetto e ben vestita. Mi ha ricordato un po’ quella cantante
francese dei miei tempi, con la frangetta e i lunghi capelli lisci e biondi.
Magra, ma non esageratamente come sembra andare di moda adesso. E’ entrata…”
Inaspettati due colpi sull’uscio. Lo psicologo sobbalzò stupito. L’orario delle
visite era terminato e non aspettava nessuno.
-Avanti. –
disse, un po’ scocciato.
-E’
permesso, professore? – Una giovane donna si affacciò all’uscio. Il portamento
timido quasi tremebondo e una grade borsa rossa al braccio. – So che non è
l’ora giusta, ma le posso rubare qualche minuto? – Un professionista affermato,
come in realtà era il professor Gregori, avrebbe dovuto respingere l’intrusa
pregandola, in maniera ferma e perentoria, di farsi dare un appuntamento dalla
segretaria, ma la curiosità, stimolata anche dalla sfrontatezza dell’intrusa,
ebbe il sopravvento.
-Non potrei,
ma si accomodi. Brevemente, abbia la compiacenza.
-Certo, non
si preoccupi, anzi mi scusi. – La donna si sedette sul lettino. – Mi chiamo
Lucina, professore. Ho bisogno del suo aiuto. – La storia che raccontò quella
prima sera fu lunga e confusa. Come spesso accade nei primi incontri, la
narrazione dei suoi malesseri fu più uno sfogo che un insieme di fatti da poter
analizzare. Il dottore non prese neanche appunti, sapeva per esperienza che
avrebbe dovuto incontrare altre volte ancora la ragazza prima di trovare il bandolo
di una matassa emotiva tanto ingarbugliata. Lucina si trattenne un’oretta e
poi, improvvisamente, come se le fosse venuto in mente un impegno
improrogabile, si alzò di scatto dal lettino.
-Devo
andare. - Disse solamente, e senza neanche salutare si diresse in fretta verso
l’uscita chiudendosi poi la porta alle spalle. Di comportamenti strani erano
pieni i suoi schedari e Gregori non se ne stupì più di tanto. Non le aveva dato
neanche un successivo appuntamento, chissà se sarebbe tornata.
Nei giorni
successivi la paziente non si fece viva e il professore catalogò nella sua
mente quell’incontro come un episodio fra tanti nella sua lunga carriera, ma
niente di più. In realtà, lo strano incontro l’aveva incuriosito e decise di
scriverne la sera successiva nelle sue schede. “Lucina presenta una sindrome
non definita, ma prima della diagnosi, vorrei descriverla.” Come al solito, si
fece prendere dalla fantasia e cominciò a romanzare. “E’ una giovane di
bell’aspetto, gli occhi verdi come le fronde di una foresta in primavera e le
mani lunghe da pianista. Si nota la sua sensibilità, mi ha parlato di piccole
cose che le hanno fatto salire le lacrime agli occhi e stava seduta protesa
verso di me come stesse aspettando una sentenza, che non le impartirò mai. Deve
essere agiata, indossava un abito di buon taglio e qualche piccolo gioiello
forse antico. Giocava spesso con un pendente della collana che rappresentava un
fiore fatto di piccoli diamanti e perle, si vedeva che ne era affezionata.”
Tutti particolari inventati, ma funzionali al racconto che stava scrivendo. “…”
Nuovamente dei colpi alla porta.
-Chi è? –
Non c’era niente di più fastidioso che essere interrotti mentre si scriveva.
-Sempre io,
professore. Non mi cacci!
-Lucina? Cosa ci fa lei qui? Era sparita, pensavo non
le interessassero più i nostri incontri.
-No, vede
professore…posso entrare? – Così dicendo la donna fece qualche passo dentro
allo studio. Alla fioca luce delle abat-jour sparse nella stanza sembrava
ancora più giovane. Gregori notò qualcosa di scintillante al collo di Lucina e
aguzzò la vista per capire di cosa si trattasse. Il professore rimase per un
momento esterrefatto ed incredulo. Si trattava di un monile corrispondente
esattamente al gioiello a forma di fiore che lui si era immaginato scrivendo
poco prima. Spaventato per quella inspiegabile coincidenza, gli venne spontaneo
di cacciare l’intrusa per mettere ordine nelle sue idee.
-No, no.
Via, via! Ho daffare, adesso non posso. Torni un’altra volta. – La ragazza si ritrasse
sgranando gli occhi, non si aspettava una reazione simile, chiuse la porta e se
ne andò.
La sera
successiva Gregori riprese in mano la scheda della misteriosa paziente per
continuare la narrazione anche in considerazione dell’ultima visita. “Lucina
entrò spavalda nel mio studio quasi aggredendomi. Mi disse: lei deve
ascoltarmi! Non accetto rifiuti, tenga fede alla sua missione!” Sicuramente,
pensò il medico, non sono parole confacenti a quella paziente così timida ed
educata, ma voleva provare, letterariamente, a modificarle un po’ il carattere.
In quel momento la porta dello studio si aprì di scatto e, come una furia,
Lucina si precipitò nella stanza.
-Lei deve
ascoltami! Non accetto rifiuti… - Il professore cominciò a tremare come una
foglia. Sembrava che le sue parole messe per iscritto creassero una realtà che
si manifestava successivamente. Non rispose e chiuse gli occhi. Sentì dei passi
concitati e la porta sbattere con violenza. Tornò a guardare: non c’era più
nessuno e Gregori temette per la “sua” sanità mentale. Il giorno successivo lo
psicologo annullò tutti gli appuntamenti, troppi pensieri gli frullavano per la
testa e doveva cercare di capire se stesse impazzendo o fosse vittima della sua
fantasia. Forse, dopo anni di professione, era solamente stanco e aveva bisogno
di una vacanza. Ma non poteva vivere nel dubbio e quindi la sera stessa, si
rimise al computer per proseguire nella scrittura. Decise di descrivere
qualcosa di talmente pazzo che non avrebbe potuto in alcun modo confondersi con
la realtà. “Lucina, nel quarto incontro, si presentò vestita da Guardia
Svizzera…” Un leggero picchiettio sull’uscio. Timidamente la ragazza entrò
senza aspettare il permesso. Era vestita con i colori blu, rosso e giallo
scuro. Il professore ebbe un mancamento e si accasciò sulla scrivania.
“Strano, –
pensò Lucina – forse Gregori è un po’ esaurito. Non tornerò più e non scriverò
più di lui sul mio diario.” Con una alzata di spalle si chiuse ancora la porta
dietro e se ne andò. In quel momento si spensero le luci e nello studio del
professore non ci fu più alcuna presenza. Sulla poltrona dietro alla scrivania
non sedeva nessuno, uno spesso velo di polvere apparve ricoprendo ogni cosa e tutti
i diplomi appesi alle pareti si scolorirono cancellando ogni nome.
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